2022-11-21
INDICE DEL LIBRO:
Mi presento sono il demone di TikTok / A me lasciati andare e non farai più flop / Occhio ai cuoricini, collezionane tanti / Entra nella gara, sarai tra i più importanti / Ti mostro chi ha successo così presto capirai / Come essere apprezzato e il tuo status alzerai / Trucco 1: mostra ammicca – sarà mica un dramma / Aggiungi doppi sensi e poi spamma / Trucco 2: sii simpatico – spingi sul ridicolo / Trucco 3: sii estremo – gioca col pericolo!
Quello che avete letto è la voce del demone di TikTok. L’abbiamo evocata con un gruppo di adolescenti. Siamo riusciti a materializzarla addirittura in forma di rap.
Non molti sanno che ogni applicazione, anzi, ogni tecnologia, contiene un demone, una presenza che può essere anche molto insidiosa perché ha il potere di influenzare i nostri comportamenti senza che ne siamo consapevoli.
Possedere i poteri per percepirne la presenza è quindi più che mai importante: se percepiamo la direzione verso cui uno strumento vuole spingere il nostro agire possiamo attivare strumenti per resistergli, oppure scegliere di sostituirlo con un altro; siamo liberi di giocare la nostra parte.
È per questo che gli adepti di CIRCE, il Centro Internazionale di Ricerca per le Convivialità Elettriche, sono invitati nelle scuole, negli spazi culturali, incontrano gruppi di giovani e di meno giovani, per iniziare più persone possibile (quelle che lo desiderano…) a questa inusuale pratica emancipatoria.
Come ogni potere non è immediato prenderne possesso. Ci vuole la pazienza che ogni iniziato deve mantenere, ci vuole un cambio di sguardo, lo sforzo di muoversi su una prospettiva diversa; e poi è necessario un gruppo di riferimento per confrontarsi, camminare insieme, perché nessuna liberazione è mai solitaria.
Come funziona? Non c’è qui lo spazio per raccontarlo nel dettaglio, ci saranno altre occasioni (accostarsi agli incantesimi è una cosa seria, ha bisogno del suo tempo). A ogni modo, per spoilerare un po’ il segreto, questa tecnica si basa su un approccio contrario a quello che solitamente abbiamo verso le applicazioni digitali, nel nostro caso i social network. Non bisogna concentrarsi sulle foto, sui video, sui testi postati, ma mettere piuttosto a fuoco ciò che passa in secondo piano nella percezione cosciente: gli elementi che formano la cornice di questi contenuti: tasti, funzioni, architettura estetica del software, oggetti e geometrie stabilite dal progettista, la «cornice» insomma. Ci vuole molta attenzione, non bisogna trascurare niente!
Ultimamente abbiamo anche una formula per lanciare questa consegna, per entrare in questa modalità; anche lei ha un ritmo, come tutti gli incantesimi (un ritmo «terzinato» come la trap…):
Svuota la mente – segui – lascia andare i pensieri / Prenditi il tempo per fare silenzio – ti voglio qui – attento / Affila lo sguardo – non è un azzardo – aguzza gli occhi come fari / Chiunque già sa – che’l demone sta – nascosto nei particolari / Sfuoca ogni contenuto – cancella ogni testo ogni foto / Cosa rimane lì in quella cornice qui c’è il segreto del gioco / Dimmi che vedi in che disposizione non gli hai mai fatto attenzione / Prenditi nota scopri che vento spira nell’applicazione.
Dopo aver svolto questo compito-rituale con disciplina potremo, attraverso pochi semplici passaggi, capire cosa è «importante» per quel particolare software, quali sono i suoi valori, e quindi in che direzione il suo «subdolo vento» ci vuole spingere.
Tornando a TikTok, potremo scoprire ad esempio, come è avvenuto durante il laboratorio, che:
– TikTok vuole che competiamo tra di noi per avere attenzione (l’app ci mostra di continuo il punteggio di quanto siamo visti e apprezzati: le view, i like). – Per TikTok il valore dell’immagine è centrale (lo schermo riempie praticamente l’intero spazio disponibile, per l’app non siamo niente se non ciò che appare). – TikTok vuole che troviamo soluzioni per attirare questa attenzione in pochissimo tempo, dobbiamo «colpire» (la durata dei video è imposta come molto breve).
Da qui è facile intuire che saremo portati a sviluppare (sempre con lo zampino del demone…) trucchetti per avere successo in questa competizione, posizionarsi bene al suo gioco. I modi per attirare immediatamente l’attenzione sono sempre gli stessi: mostrarsi belli, provocanti, oppure essere ridicoli, o ancora fare qualcosa di assurdo, estremo, pericoloso, stuzzicare eccitazione e attenzione morbosa.
Certo è possibile sforzarsi a non ascoltare il demone, e si può anche usare TikTok in altri modi, ma si è condannati all’irrilevanza, e presto ci si stanca. Ci si sente coinvolti quando si sta alle sue regole, quando si gioca sul filo del rasoio. Il piano è sempre inclinato nella direzione in cui il suo spirito ha deciso di accompagnarci.
«Ma allora…», dicono i ragazzi, «non è un caso se tutte le persone che vanno su TikTok si spingono fino al ridicolo, o provocano! E forse non è un caso neppure che quella ragazza ha fatto qualcosa di davvero rischioso e la cosa è andata a finire male… Forse qualcosa era già nell’app… ha un certo potere… e conosce bene le nostre vulnerabilità…».
Quando gli adolescenti si lasciano sorprendere da intuizioni del genere si apre uno spazio di movimento e di pensiero nuovo, sorge il desiderio di andare fino in fondo, di capire «come funziona» e se e come è possibile aprire spazi di resistenza, e di libertà.
Il demone non c’è solo per gli adolescenti ma per tutti: è un attimo e chiunque può essere coinvolto nella sua danza. Sarebbe facile, e in un certo senso un sollievo, pensare: «Sì, beh TikTok!…», «sì, beh gli adolescenti!…». Per rimanere nel mondo educativo e del sociale, pensiamo a quanto gli enti che si occupano di educazione e di comunità si siano fatti trascinare con leggerezza dal gioco dei social network con l’obiettivo di rendere visibile il proprio ente, di presentare come affascinanti le proprie attività; ma in questo modo non solo hanno nutrito il demone, ma hanno anche perso di vista la reale ricaduta per il proprio lavoro. «Più siamo visibili, più possiamo fare del bene» si ripete, ma è proprio vero o è il demone che vuole così? E intanto la cura dell’immagine diventa sempre più importante, e quello che postiamo diventa sempre più lo specchio privilegiato attraverso il quale percepiamo e diamo significato al nostro lavoro.
Oppure, sul fronte della scuola, non si può non citare la diffusione – accelerata dai vari lockdown – di piattaforme come Google Classroom, che promettono una più veloce comunicazione tra insegnanti e allievi, un comodo archivio per compiti, lezioni e consegne. In questo caso nel backstage si muove un demone che punta i riflettori sul controllo degli orari di consegna, sulle statistiche delle valutazioni degli studenti, che invita l’insegnante, con «spintarelle gentili», a passare a test a risposta chiusa che l’applicazione stessa correggerà, evitandogli fatica, rendendogli sempre più liscio e frictionless, come ci spiega Carlo Milani, il rapporto con il sapere dei discenti. L’insegnante non se ne accorge, ma curva il suo lavoro verso traiettorie che non ha mai deciso consapevolmente di inseguire.
Il libro che avete tra le mani serve anzitutto a questo: a scovare demoni. Ci accompagna in un viaggio in cui, come nell’attività raccontata in apertura, si impara a guardare con occhi diversi le tecnologie: osservare con attenzione i dettagli, togliere gli strati, curiosare dietro gli schermi, per poi condividere quello che scopriamo. Ci propone una prospettiva rara, tanto più nel mondo educativo: quella di approcciare gli strumenti che fanno parte della nostra quotidianità focalizzando le dimensioni oppressive, di dominio, per poi aprire percorsi di emancipazione.
È un testo che non si limita alla parte teorico-critica, ma osa proporre nuovi sentieri percorribili, per quanto talvolta inconsueti. L’attività laboratoriale di cui ho raccontato è solo una delle tante declinazioni pratiche generate delle riflessioni che trovate nelle prossime pagine, una sfida a cui da diversi anni ci stiamo dedicando – tra sperimentazione, ricerca, divertimento – insieme allo stesso autore e agli altri compagni di avventure di CIRCE, più volte richiamata nel testo.
Quello in cui vi accingete a immergervi non è un libro di pedagogia, ma se letto in chiave prettamente pedagogica può portare ricchissimi stimoli, in particolare a chi è interessato a spingere la propria azione educativa nei territori di forme oppressive nascoste ai radar del discorso comune, e spesso anche degli addetti ai lavori, compresi i colleghi più attenti e sensibili.
Nelle scuole e nei contesti educativi si (stra)parla di tecnologia esaltando quelle abilità e competenze che i ragazzi devono possedere affinché si spalanchino loro le porte del futuro (lavorativo ovviamente), oppure se ne parla come risorsa che può rendere più efficace ed efficiente l’accumulo di sapere e di abilità. Ovviamente non manca anche la prevenzione dai rischi portati da questi ambienti, ma in un approccio declinato quasi sempre come lotta all’«usare male» i dispositivi: con loro possiamo perdere tempo, fare brutte cose, o incontrare brutte persone che fanno fare brutte cose. In ogni caso lo strumento è sempre percepito come neutro (dipende da come lo usi…) e l’uomo è sempre chiamato a dominare, anzitutto la macchina, ottimizzando il guadagno che gli può portare, ma anche sé stesso, ricordandosi che qualsiasi deviazione negativa avviene solo per colpa sua, perché non si è impegnato – leggi «dominato» – abbastanza (è scontato come in questo paradigma gli adolescenti non possano che uscirne male…).
Immersi in un panorama del genere risulta davvero un salto non da poco quello di percepire, come ci suggerisce Carlo Milani, le macchine come oggetti invece dotati di un proprio carattere, intrisi di «visioni del mondo situate», e decidere di abbandonare l’ossessione di dominarle (e dominare noi stessi nel nome della prestazione) per passare a uno sguardo conviviale e di cura.
L’autore ci invita a riconoscerci vulnerabili, a prenderci cura delle macchine, a riconoscere dinamiche di oppressione sottili (quei «demoni» che, come ci dice, sono tecnicamente nudge, esattamenti), a diffondere e condividere potere emancipante. Come cambierebbe l’educazione e la formazione se si scegliesse questa prospettiva?
Si tratta di integrare e re-inventare pratiche di empowerment, di avventurarsi in un territorio di ricerca, sperimentazione, che deve vedere alleate generazioni diverse.
Un punto saldo da cui possiamo partire, che ritorna e anima tutto questo libro, è l’attitudine hacker: quella curiosità, immaginazione, desiderio di gioco trasformativo di cui sono esperti i bambini, da cui non possiamo che imparare, da riscoprire e coltivare insieme.