2021-04-19
traduzione di Elena Paul.
INDICE DEL LIBRO:
Il primo giorno in cui è stata avviata la revisione delle liste elettorali, mi sono presentato negli uffici del Directeur général des élections du Québec (DGEQ) a Montréal. Al banco della reception c’era un giovane che leggeva un romanzo. Mi ha lanciato uno sguardo distratto e mi ha indicato la sala d’attesa, in cui c’erano una ventina di sedie vuote schierate davanti a una parete di vetro. La parete di vetro dava su un ufficio dove c’erano quattro donne tutte affaccendate alle loro scrivanie stracolme di schede e cartelle. Una di loro mi ha invitato a entrare. A quanto pareva, ero il loro unico cliente. Quando ho chiesto di essere rimosso dal registro elettorale, hanno sgranato gli occhi perché probabilmente si aspettano di ricevere soprattutto persone che vogliono aggiungere il loro nome o modificare questa o quella informazione nella loro scheda.
«Perché vuole essere cancellato dal registro?», mi ha chiesto una di loro.
«Io non voto».
È seguito un lungo silenzio in cui ho percepito che si trattenevano dal farmi altre domande. Una donna seduta dietro un computer ha cominciato a compilare un modulo di cancellazione, dopo avermi chiesto un documento d’identità per confermare che fossi davvero io. Si è subito fermata, non sapendo quale motivo indicare per la mia cancellazione. Il modulo offriva alcune opzioni: «l’elettore non abita all’indirizzo indicato nel registro elettorale»; «la persona è sotto tutela»; «la persona è deceduta»; «la persona non è qualificata a votare». Le ho chiesto di selezionare la casella corrispondente a «una decisione personale dell’elettore di non essere iscritto nel registro». Per una curiosa coincidenza, in quel momento la rete informatica del DGEQ è andata in panne in tutta la provincia [lo Stato canadese è composto da 10 province e 3 Territori; N.d.T.]. Lo schermo si è bloccato. Un funzionario che lavorava in un altro ufficio si è precipitato nella stanza, piuttosto preoccupato, subito seguito da un altro, poi un responsabile ha chiamato l’ufficio di Québec City per avere ragguagli sulla situazione. Nella stanza si è riunita una piccola folla. Dato che il sistema informatico si rifiutava di riavviarsi, uno dei funzionari ha trovato una copia cartacea del modulo in un raccoglitore e l’ha compilata a mano sotto la supervisione di un collega. Finalmente mi sono ritrovato all’aria aperta fuori dall’edificio, con in mano una copia del modulo che confermava che ero ufficialmente un apostata del parlamentarismo. Non votavo ormai da una ventina d’anni, ma ero comunque sopraffatto da una strana sensazione, come se avessi commesso una trasgressione riprovevole o un peccato mortale, come se la mia scelta mi stesse condannando alla riprovazione sociale e alle fiamme eterne dell’inferno.
Va detto che mi ha sempre stupito l’insistenza con cui la gente cerca di convincermi che sbaglio a non votare, e che si deve come minimo dare il proprio voto al «meno peggio» tra i partiti per impedire l’elezione di un qualche politico cattivo o per promuovere l’adozione di una qualche misura importante. Ho finito per evitare gli inviti a cena nel periodo delle elezioni per paura dell’ennesima imboscata, di solito poco prima del dessert. Per fortuna la mia compagna, che opta anche lei sempre più spesso per l’astensione, ma in modo più discreto di me, mi difende chiedendo ai commensali di lasciarmi in pace e ricordando che siamo a una cena, non a un processo politico. In ambito accademico, gli studiosi che si interessano ai meccanismi del voto chiamano «coercizione elettorale familiare» la fortissima pressione che può essere esercitata dai familiari o dagli amici intimi per costringere le persone a votare, specialmente per questo o quel partito.
«Come potremmo mai giustificare la decisione di astenersi dal voto, qualunque sia il ragionamento che ha potuto motivarla?», si chiede il DGEQ in una lettera aperta1. In Francia, un collettivo che si è posto l’obiettivo di incoraggiare la partecipazione degli elettori ha deciso di chiamarsi «Penso, dunque voto»2. Va bene, abbiamo capito il punto: chi si astiene è stupido e ignorante. Niente di nuovo sotto il sole. Negli anni Trenta del secolo scorso, il dizionario Larousse definiva l’astensione come un «oblio egoista e biasimevole». Nel 1946, un Comité National contre l’Abstention ha affisso dei manifesti sulle mura delle città francesi per proclamare l’intenzione di rivelare pubblicamente i nomi degli astensionisti3. Questo la dice lunga sullo stigma legato all’astensionismo, ma anche sulla volontà e il desiderio diffuso di umiliarli pubblicamente per la loro mancanza di civiltà, la loro immoralità, il loro vizio. Nel 1953, il giornale di Lione «Le Progrès» ha impartito la lezione seguente ai potenziali elettori: «In una democrazia, l’astensione è sempre una colpa grave che porta alle peggiori catastrofi. Bisogna votare»4 (corsivo mio).
Tale disprezzo si esprime ancora oggi nei media, che glorificano invariabilmente la partecipazione e associano senz’altro l’astensione alla bassezza, alla decadenza, al nulla, oppure all’inerzia, alla passività, alla pigrizia, se non a una patologia grave. Si dice che l’astensione abbia «scatenato il caos», e si parla di una «pessima pagella per il corpo politico». L’impulso naturale di un individuo sano, sembra di capire, sarebbe quello di andare a votare, di correre alle urne.
Alla rappresentazione positiva della partecipazione e a quella negativa dell’astensione concorre anche l’uso di un vocabolario militare: l’elettorato «non si è mobilitato» o si è «smobilitato», «astenersi è come disertare», o «il contrattacco si sta organizzando» per fare fronte all’astensione, dato che «ci si impegna su più fronti per spingere i giovani alle urne». A causa del tasso di astensione, la situazione è «allarmante», «angosciante», «preoccupante», anzi è un «disastro civile»5. Durante le elezioni provinciali in Québec del dicembre 2008, il conduttore della tribuna elettorale andata in onda la sera stessa su Radio-Canada ha reagito al dato sull’affluenza alle urne, pari al 57%, commentando che si trattava della «peggiore affluenza alle urne della storia»6 e sostenendo che era qualcosa di «abominevole e imbarazzante» perché faceva sembrare il Québec un paese del «Terzo mondo» (benché ci siano paesi del «Terzo mondo» che hanno tassi di affluenza alle urne superiori al 90%). Questo tasso è sembrato ancora più deludente in quanto il responsabile del DGEQ, Marcel Blanchet, si era rivolto personalmente ai giornali durante la campagna elettorale firmando un Appello agli elettori del Québec: «Sento il dovere di ricordare ai cittadini del Québec l’importanza e la portata dell’esercizio del diritto di voto, uno dei diritti più preziosi». E proseguiva sottolineando che «il diritto di voto comporta necessariamente una responsabilità, quella di esercitarlo» e che «invitare all’astensione […] era da irresponsabili»7 (corsivo mio).
L’implacabile impegno profuso per combattere l’astensionismo ci porta a credere che gli elettori8 vogliano più che altro convincersi dell’importanza del proprio voto e della propria grandezza morale e politica. Trascinati dal loro proselitismo, oppure in preda alla disperazione, questi sostenitori del sistema elettorale avanzano persino argomenti che non hanno nulla a che vedere con la realtà politica, come l’idea che chi non compie lo sforzo di andare alle urne rinuncia per ciò stesso al diritto di lamentarsi del governo. Negli Stati Uniti, l’irriverente comico George Carlin non è di questo avviso:
Il giorno delle elezioni, resto a casa. Non voto. Che si fottano! Che si fottano! Non voto. Non voto, e non lo faccio per due motivi. Prima di tutto, non ha alcun senso. Questo paese è stato comprato, venduto e pagato molto tempo fa. E poi non voto perché credo che se voti, poi non hai il diritto di lamentarti. Lo so, alla gente piace cambiare le carte in tavola e dire il contrario: «Ah, se non voti, non hai il diritto di lamentarti». Ma che logica è? La responsabilità è vostra: se votate ed eleggete questi individui incompetenti e disonesti che una volta in carica non fanno altro che casini, siete voi la causa del problema, siete voi che avete votato e siete voi che li avete messi lì. Quindi siete voi a non avere il diritto di lamentarvi! Quanto a me, che non ho votato, e di fatto il giorno delle elezioni non ho neppure messo il naso fuori di casa, non ho alcuna responsabilità per quello che fa questa gente, e quindi ho tutto il diritto di lamentarmi del casino che avete fatto, con cui non ho niente a che spartire9.
Ospite in una tribuna politica televisiva, il comico ha anche sostenuto, in chiave più seria, che «le elezioni e i politici stanno lì apposta per darci l’illusione che ci sia una libera scelta, ma in questo paese non c’è una scelta realmente libera». Come ha spiegato, «si organizza un giorno di elezioni all’anno in modo che tutti sentano di poter fare delle scelte, scelte peraltro senza senso che ci permettono di andare avanti come schiavi dicendoci: ‘Ah! Ma io voto’. Le decisioni cruciali in questo paese sono già state prese prima ancora che il dibattito inizi, e chi rimane fuori viene emarginato ed etichettato come ‘comunista’ o tacciato di avere un comportamento sleale»10.
Non mancano i comici che hanno preso posizione contro il voto e per l’astensione, facendosi beffe del circo elettorale. In Francia, negli anni Ottanta, l’umorista anticonformista Pierre Desproges ha dichiarato al telegiornale regionale di France 3 Picardie di essere «contrario al diritto di voto» perché la gente «sbaglia sempre […]. La democrazia è la peggiore delle dittature, perché è la dittatura del maggior numero […]. Per quanto riguarda la dittatura di uno solo, che piacerebbe tanto all’estrema destra quanto all’estrema sinistra, anche questa è una scelta nient’affatto salutare, quindi il giorno delle elezioni cantonali, fate come me: andate a pescare […]. E smettiamola di votare»1111.
Nel tentativo di convincere gli astensionisti a votare facendo leva sul loro senso di colpa, gli elettori evocano il rischio che nessuno voti più. Già alla fine del xix secolo, il diplomatico Frederick William Holls paventava che negli Stati Uniti «se tutti seguissero l’esempio [dell’astensionista], ne risulterebbe l’anarchia»12. Addirittura! Si tratta tuttavia di un falso problema, evocato nel tentativo di destabilizzare l’astensionista, di minarne la credibilità e di ritrarlo come un individualista egocentrico. Nel suo romanzo Saggio sulla lucidità, José Saramago, che ha simpatie anarchiche, immagina che la maggioranza dell’elettorato si astenga dal voto. Davanti a un tale affronto, il governo finisce per adottare la via della repressione e dell’assassinio politico. È un romanzo. Nella realtà in cui viviamo, ci sarà sempre chi andrà a votare, almeno quei pochi che si sono candidati, il loro staff politico e probabilmente i loro familiari. E se un giorno non dovesse votare nessuno, vedremo cosa succederà al nostro sistema politico. In ogni caso, non ho mai capito fino in fondo in che modo questo «argomento» dovrebbe convincere gli astensionisti a votare.
Note al testo
Marcel Blanchet, Un appel aux électeurs du Québec, «Le Devoir», 28 novembre 2008, p. A9.↩︎
Sandrine Lemaire, ‘Je pense donc je vote’, version 2009 pour intéresser les Roubaisiens aux européennes, «La Voix du Nord», 25 aprile 2009, p. 18.↩︎
René Vivier, Menaces et abstentions, «Le Libertaire», n. 60, 20 dicembre 1946, pp. 1-2.↩︎
Citato in Denis Barbet, Quand les mots de l’abstention parlent des maux de la démocratie, «Mots: les langages du politique», n. 83, 2007, p. 54.↩︎
Ibid., pp. 53-67; e Patrick Monay, L’abstentionnisme reste le premier parti de Suisse, «Tribune de Genève», 9 ottobre 2015.↩︎
Marilou Séguin, Participation: le pire taux de l’histoire, «Le Journal de Montréal», 9 dicembre 2008, p. 12. Il tasso di partecipazione più basso rimane quello registrato alle elezioni del 1927 che fu del 43,6%, ma all’epoca il metodo del conteggio era diverso (Catherine Handfield, Taux d’abstention record, «La Presse», 9 dicembre 2008, p. A10).↩︎
Blanchet, Un appel aux électeurs du Québec, cit.↩︎
La definizione convenzionale del termine «elettoralismo» è questa: «Tendenza di un partito a subordinare la sua politica alla ricerca del successo elettorale». Qui il termine (come anche l’aggettivo «elettoralista») indica più in generale la valorizzazione del sistema elettorale per opposizione all’astensionismo.↩︎
George Carlin on Some Cultural Issues, estratto dello spettacolo Back in Town, YouTube, 14 novembre 2010 [1996].↩︎
George Carlin Talks War and American Politics, estratti di vari interventi, YouTube, 16 maggio 2010.↩︎
Pierre Desproges, ‘Les élections et la Picardie’, Archive INA, estratto dal telegiornale France 3 Picardie del 6 marzo 1985, YouTube, 13 aprile 2018.↩︎