Crimini di Stato

Prefazione all’edizione italiana di ‘Potere e delinquenza’

Eduardo Colombo

2022-11-22

traduzione di Guido Lagomarsino.

INDICE DEL LIBRO:

PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA Crimini di Stato di Eduardo Colombo // Introduzione alla seconda edizione inglese // PARTE PRIMA Comportamenti delinquenti nello Stato moderno // CAPITOLO PRIMO Considerazioni generali // CAPITOLO SECONDO Tipologia della leadership // CAPITOLO TERZO Personalità aberranti // CAPITOLO QUARTO La guerra e l’élite della coazione // PARTE SECONDA Stato e comportamento umano // CAPITOLO QUINTO Funzioni dello Stato // CAPITOLO SESTO Potere e «natura umana» // CAPITOLO SETTIMO Rimedi

E, sogghignando sotto i baffi, Egli fece dell’uno un papa, Dell’altro un imperatore. Victor Hugo

Potere e delinquenza, testo breve ma denso, quasi un compendio, analizza un problema fondamentale della società centralizzata, urbanizzata e sviluppata del mondo contemporaneo: la delinquenza politica.

Se l’aggettivo classico designa un’opera degna di essere studiata e capace di durare nel tempo, quello che avete tra le mani è certamente un «classico», pur se ignorato o dimenticato, un classico scritto quarantacinque anni fa. Nonostante il suo stile misurato, il suo tono pacato, questo saggio va contro ogni accademia e non è di lettura corrente in nessuna università. A dire il vero, io l’ho letto all’inizio degli anni Sessanta, quando insegnavo Psicologia sociale all’università di La Plata, in Argentina, ma a farmelo trovare e leggere era stata certo più la mia cultura e curiosità libertaria che non la mia preparazione accademica…

Questo libro è un «classico» anche per il modo in cui imposta il problema, se per classico s’intende ciò che s’intende, con riferimento all’antichità greca e latina, nella «querelle des anciens et des modernes» in filosofia politica. Questa considera come moderni i pensatori che, a partire da Machiavelli, subordinano la virtù alla politica o considerano come sola virtù quella politicamente utile, mentre sono al contrario considerati classici quelli che subordinano la politica a una regola etica o perseguono – postulando un valore attuale e non finale: libertà, uguaglianza, giustizia – una utopia sociale1.

C’è, nello sviluppo stesso del pensiero politico, storicamente costruito sotto il segno del dominio e della obbedienza, una razionalità che è propria dell’«arte del governare» e che non è altro se non pura teoria dell’azione. Un uomo come Gabriel Naudé che ha servito insieme il potere religioso e quello politico, prima come segretario di cardinali romani e poi come bibliotecario di Mazzarino, spiega nelle sue Considérations politiques sur les coups d’état (1639) che in ultima istanza, e come rivela in situazioni straordinarie la necessità del colpo di Stato, le ragioni di una politica e il principio della sua giustificazione si trovano solo nel risultato, cioè nel successo dell’azione intrapresa. Qualunque sia la struttura dello Stato, qualunque sia la natura del regime, l’azione propriamente politica occulta le sue ragioni profonde, gli arcana imperii, pensa Naudé2 – e per certo non è il solo a pensarlo – giacché essa non dipende dalla morale, né dal diritto, né dalla religione, né dalla ideologia, bensì esclusivamente dalla necessità del Potere. Normalmente, in politica, l’arte di governare si esercita con l’acquiescenza dei sudditi e si adatta per lo più alle regole stabilite e al diritto comune. Ma, anche restando nell’ambito delle democrazie rappresentative attuali, la realtà quotidiana mostra a chi vuole vedere – l’ha riconosciuto goffamente anche un ministro degli Interni francese – che lo «Stato di diritto si ferma dove comincia la ragione di Stato» (Charles Pasqua, 1993).

Sulla scena dell’azione politica governativa il comportamento che sarebbe delittuoso e facilmente identificabile nell’uomo comune acquista una dimensione diversa, diventa «accettabile» entro i limiti definiti dalla ordinarietà o straordinarietà della situazione e pretende un’altra scala di valori per essere giudicato. Come scrive Alex Comfort, le occasioni favorevoli alla delinquenza accettata si trovano quasi tutte nell’ambito del potere.

Le generazioni che hanno visto cosa può fare un Hitler o uno Stalin – per citare solo i «grandi» – che finché regnarono furono applauditi dalle moltitudini, dovrebbero essere in grado di vedere il pericolo insito in tutto ciò, se non fossero penalizzate dalla paura paranoide del futuro e dalla convinzione, non sempre esplicitata, che la realtà gli sfugge, che sono impotenti a cambiare la società. Al tempo stesso, uno schema incosciente di sottomissione all’autorità lega la maggioranza all’immaginario teologico-politico delle istituzioni gerarchiche. Il fallimento delle rivoluzioni del XX secolo è determinato in gran parte del ricorso massiccio allo Stato, forma globalizzante, paradigma del vecchio mondo. Citiamo Comfort: «Il fatto che i meccanismi di potere siano un mezzo per l’autoespressione dei delinquenti e degli impulsi aggressivi limita di fatto il loro utilizzo potenziale come mezzo di mutamento sociale…». In questo senso, «la sociologia moderna offre un forte supporto, pur se in modo critico, alla concezione libertario-anarchica del mutamento sociale contro quella totalitario-istituzionale»3.

Il ragionamento si basa sulla ipotesi seguente: le società moderne, gerarchiche, di cultura urbana centralizzata, hanno bisogno di discriminare e selezionare il tipo di comportamento criminale che tollerano o addirittura premiano e il tipo che riprovano o puniscono. La società tutta, dipendente dallo Stato anche quando si sente minacciata dal crimine individuale, per sussistere ricorre, a causa della sua stessa dipendenza, proprio «a una categoria di cittadini da cui ci si possono aspettare azioni criminali»4.

Sorge così una doppia relazione simbolica tra potere e delinquenza; da un lato la delinquenza individuale si inserisce e si autodissolve negli strati del potere e nel contempo si costituisce nell’immaginario collettivo un asse i cui poli, mutuamente dipendenti, sono le figure tradizionali – opposte e complementari – della delinquenza politica: il tiranno potenziale e il servo potenziale. Sullo sfondo resta, come terzo escluso, il criminale, il mercenario, o il delinquente non autorizzato sul cui capo si scaricherà l’aggressività deviata e ritualizzata dei cittadini perbene.

L’analisi del modello sociale che organizza potere, delinquenza e obbedienza, un’analisi che va di pari passo con la critica anarchica di quel modello, è espressione di un pensiero forte che dà a questo libro la sua forza.

Comfort pubblicò nel 1961 una raccolta di articoli con il titolo Darwin e la donna nuda dove fa una distinzione tra due forme del pensare, «due forme, due modi di affrontare le generalizzazioni che chiamerò, senza pregiudizi, il modo forte e il modo debole. Il modo forte di affrontare una successione data di fatti, una ‘regolarità di comportamenti’, è quella di accettare – sia o no giustificabile – che tale regolarità possa essere ‘spiegata’, che sia possibile scoprire da che cosa dipende. La forma debole consiste nel fissare la regolarità, chiamarla legge, verità o realtà spirituale e utilizzare queste definizioni come se fossero spiegazioni. La riverenza è l’equivalente debole della curiosità. […] I forti invocano il metodo scientifico nella speranza che funzioni; i deboli nella speranza che fallisca». E qualche paragrafo più innanzi: «Non mi riesce di trovare termini filosofici esatti per l’approccio forte e per quello debole. Si avvicinano alla ‘ratio’ e alla ‘intelligentia’ medievali. Sono modi di porsi, non sistemi, pur se ad esempio generano rispettivamente l’empirismo e il vitalismo»5. In politica, aggiungerei io, generano ad esempio l’anarchismo e la socialdemocrazia.

La prova della superiore validità del pensiero forte la troviamo, a mio parere, nella persistenza dell’argomentazione nel corso del tempo, che riappare in autori diversi, e nella sua pertinenza rispetto all’esperienza storica.

Così, nel pensiero autoritario, una opinione apparentemente stravagante come quella di Naudé, che nel XVII secolo fondava la razionalità della politica sul successo dell’azione, riappare poco prima del trionfo del nazismo nell’opera di Carl Schmitt che apre la sua Teologia politica con la frase: «È sovrano colui che decide nelle situazioni eccezionali». Al che segue il corollario logico: «Anche l’ordine giuridico riposa, come ogni ordine, su una decisione e non su una norma»6.

L’approccio forte nel pensiero anti-autoritario è stato quello di non prosternarsi di fronte alla realtà del potere politico e di cercare le cause, le ragioni, i motivi della sua esistenza. A metà del XVI secolo étienne de la Boétie scriveva: «…un Tiranno solo, che non ha altra potenza che quella che gli si dà…». E lanciò il suo famoso appello alla coscienza di ognuno: «Siate dunque risoluti a non più servire e sarete liberi»7.

Uno studioso di storia delle idee politiche, nostro contemporaneo, riconosce a proposito del Leviatano: «La definizione hobbesiana è reale, o meglio genetica, creatrice: l’esistente, il reale di cui ivi si tratta, è quel che è stato creato in virtù e per mezzo del processo mentale e volontario di cui la definizione non è che il resoconto»8. E un filosofo scrive: «Lo Stato? Ci credo perché è assurdo. Ci credo perché non posso sapere. Ne consegue… che la posizione anarchica non deriva dalla ignoranza, ma dalla miscredenza»9.

Lo Stato è dunque una costruzione storica che organizza e legittima l’esistenza sociale del potere politico. In ogni situazione particolare, nonostante l’evoluzione e la trasformazione costante, le istituzioni vigenti spingono nella direzione della integrazione della personalità individuale conformemente al modello culturale dominante. «Siamo cresciuti con lo Stato», e la tradizione democratica conserva la credenza che «lo Stato sia un meccanismo grazie al quale si può modificare la condotta umana»10.

Comfort ci mostra come la discriminazione, la selezione e l’utilizzo di personalità capaci di comportamenti delittuosi a tutti i livelli della struttura di dominio – sia a livello dirigenziale sia come manovalanza – siano una esigenza del sistema gerarchico centralizzato. Il delinquente autorizzato si serve della legge a proprio favore. E tanto «l’offerta come la domanda di delinquenti sono un prodotto di questa società». Di conseguenza, il criminale «reo convinto» non rappresenta un sottoprodotto eliminabile della nostra cultura, bensì una eccedenza divergente di una delle sue produzioni11.

Alcuni anni dopo l’uscita di Potere e delinquenza, Charles Wright Mills pubblicò nel 1956 il suo studio sull’élite del potere negli usa, in cui esprime l’idea che «finché ci sarà un’élite come classe sociale o come insieme di uomini che occupano i posti di comando, essa sempre selezionerà positivamente e formerà certi tipi di personalità e ne rifiuterà altri»12. Il tipo di esseri morali e psicologici che costituiscono l’élite sarà in gran parte determinata dai ruoli istituzionali che dovranno rappresentare e che ci si aspetta che effettivamente rappresentino.

Evidentemente le aspettative sociali sono differenti a seconda delle classi o dei gruppi, ma che avviene con gli individui che non corrispondono a ciò che ci si aspetta da loro? Non è questo il luogo per occuparci del ribelle, del rivoluzionario o dell’emarginato; limitiamoci per il momento a considerare che il modello culturale centralizzato tende a criminalizzarli e, pur con tutte le mille sfumature che intervengono nel processo di criminalizzazione, essi alla fine confluiranno in una unica categoria: coloro che meritano di essere repressi, quelli che esigono il castigo.

Il prototipo ordinatore di queste categorie è il criminale, il delinquente «senza licenza», l’«eccedente divergente» che non ha trovato ubicazione nella scala del potere, o colui che commette crimini di sangue. Comfort, citando Reiwald, parla di crimini «espiatori», riferendosi a tutti quei fatti sessuali, sanguinosi, violenti o quei delitti di lesa maestà che suscitano una reazione emozionale profonda nella gran maggioranza della popolazione poiché toccano i desideri occulti e incoscienti che si esprimono solo nei sogni13 e che sono una fonte repressa di senso di colpa e di sottomissione.

Il castigo – in primo luogo il patibolo – restaura la norma e si converte in un rituale di purificazione. Per questo il castigo «opera principalmente sul cittadino che rispetta la legge», come aveva già intuito Émile Durkheim14.

Il potere politico – potremmo anche dire «il braccio secolare del dominio» – espone il criminale alla luce dei riflettori, lo offre come vittima espiatoria a membri psicologicamente meglio repressi e integrati nella società, i quali si sentono così sollevati e giustificati15. L’immagine del condannato come salvatore ed esorcista supera ampiamente la sua utilizzazione nel rito cristiano domenicale.

L’atteggiamento del pubblico di fronte a colui che viene segnalato legalmente come suo nemico è fondamentalmente ambivalente, così come è ambivalente anche il suo atteggiamento di fronte al re, al presidente, al tiranno. Il governante e il servo, opposti e complementari, come abbiamo detto, ricevono ammirazione e disprezzo. Allo stesso tempo, una linea immaginaria li unisce al mondo oscuro dell’escluso, del carcerato, del condannato, i quali pure infondono timore e rispetto. Il re e il condannato sono intercambiabili, «il trasgressore e il governante occupano di fatto gli estremi opposti di un solo asse emozionale»16. Nel suo libro sull’origine della prigione, Michel Foucault riprende il tema con parole simili: «Nella regione più scura del campo politico, il condannato disegna la figura simmetrica e inversa del re»17.

Le forme di castigo stabilite dalla legge cambiano continuamente; la sua funzione costante è, in ogni epoca, quella di amministrare e organizzare gli illegalismi. Per certo, «i castighi non sono destinati a eliminare le infrazioni, ma piuttosto a distinguerle, a distribuirle, a utilizzarle»18. La forma attuale di castigo è la prigione19, come ieri è stata la «galera» (nel senso dei forzati ai remi delle galee o galere) e poi i bagni penali. Entrambe queste ultime forme di castigo produssero quella «catena» di forzati che s’inscrive nella vecchia tradizione dei castighi pubblici. La «catena» che attraversa le città si trasforma in uno spettacolo di massa, in una miscela di rito da capro espiatorio e di «festa dei folli», in cui si invertono l’ordine del potere e i suoi simboli. Qualcosa di simile a un «sabba» politico, dirà Foucault. La Francia vide le ultime «catene» nel 1836.

Costumi barbari. Ma la storia balbetta e non è esente da brutali regressioni. Simbolo dell’auge delle ideologie reazionarie, la «catena dei forzati» fa la sua ricomparsa nel sud degli Stati Uniti nell’ultima decade del XX secolo.

Nella società moderna i partiti politici reclutano, tra coloro che fanno carriera nel loro seno, quelli che saranno proposti al suffragio popolare per essere eletti come legislatori o governanti. Nel caso di questa carriera, diversi tratti delinquenziali di una personalità psicopatica si incanalano verso un tipo di comportamento adeguato alla funzione dirigenziale. Questa stessa attività dirigenziale allontana dall’azione violenta, direttamente repressiva, gli individui chiamati a esercitarla. Essi non vedono le loro vittime.

E poiché la violenza è, per i sistemi gerarchici di dominio, una necessità, tra quelli che comandano e i sudditi che obbediscono passivamente si ubicano quelli che eseguono gli ordini e fanno applicare le decisioni. Si costituiscono così quei corpi dello Stato che Comfort chiama l’élite della coazione. La definiscono due caratteristiche: l’obbedienza incondizionata e un «comune rifiuto della responsabilità per l’esecuzione degli ordini»20. Il primo obbligo è di non pensare mai in modo autonomo; la coscienza morale deve essere proiettata all’esterno del soggetto e posta ai differenti gradini del potere normativo, oppure in un substrato personalizzato nella figura del leader carismatico. Questo meccanismo di decolpevolizzazione e di trasferimento di responsabilità fa sì che l’esistenza di questi corpi istituzionali sia particolarmente importante nello sviluppo della delinquenza di gruppo.

La presenza invadente delle immagini televisive nella cultura contemporanea e la mole di informazioni, pur previamente discriminate, che arriva in ogni casa mostrano a sazietà l’operare dei «corpi scelti» – truppe mercenarie dello Stato e corpi speciali di polizia – sia all’interno sia all’esterno delle frontiere nazionali. Interventi violenti ai quali si aggiunge il contorno, avventizio ma inevitabile, di «eccessi» che lo stesso potere politico si vede costretto a condannare.

Un esempio particolarmente chiaro delle attività delinquenziali dell’élite della coazione ci viene dall’Argentina. Lì quei corpi entrarono in azione come gruppi para-militari negli anni Settanta, nell’ambito di un governo costituzionale. Quando le forze armate si impadronirono dello Stato nel marzo del ’76, i sequestri, le torture, gli stupri, gli assassinii e le desapariciones vennero ordinate direttamente dal Comitato supremo che svolgeva le funzioni di governo del paese. La tecnica repressiva era opera di sadici che però erano esecutori irreggimentati. Un generale, delegato argentino presso la Junta Interamericana de Defensa, ha affermato nel gennaio 1980: «Abbiamo fatto la guerra con la dottrina alla mano, con gli ordini scritti dei Comitati superiori»21. Per praticare questo tipo di terrorismo di Stato, che i militari chiamano «guerra sporca», la generalizzazione della tortura fu un elemento determinante che impose la creazione di centri clandestini di detenzione.

Con il ritorno alla democrazia parlamentare, sotto la costante pressione dei militari, è stata votata una legge detta «dell’obbedienza dovuta» che ha legalizzato l’impunità delle azioni delittuose.

L’aggressività e il sadismo degli ordini impartiti non creò difficoltà alla loro esecuzione. E gli esecutori non si privarono nemmeno dei piccoli profitti personali. «I furti perpetrati nei domicili dei sequestrati erano considerati dai militari implicati come ‘bottino di guerra’»22. Spogliare le vittime dei loro beni è una pratica di lunga data, notoriamente esercitata, seppure illegalmente, tanto dai militari subordinati argentini che dai «guardia-ciurma» con i condannati che portavano in galera23. La cupidigia non è aliena al desiderio di potere.

Il capitolo che resterebbe da affrontare è la delinquenza economica di coloro che detengono il potere, ampiamente diffusa nonostante che l’illegalismo dei privilegiati sia riuscito a mantenere tutto un immenso settore della circolazione economica ai margini della legislazione. Ripetutamente nel corso di questo secolo in più di un paese è stata documentata la stretta e strutturale relazione esistente tra gli interessi privati del grande capitale, del ceto governante e delle mafie nazionali e internazionali.

«La causa della legge è il regime», dice Leo Strauss. Se vogliamo trovare atteggiamenti sociali responsabili, se vogliamo respirare l’aspro vento della libertà, dobbiamo cercare gli individui e i gruppi che divergono, che resistono, che si ribellano, refrattari al modello centrale della società urbana moderna. Il regime è l’ordine esistente, la distribuzione stabilita delle ricchezze e delle miserie, delle autorità e dei servilismi. «Il regime è la forma della vita comune, la maniera di vivere della società e nella società»24. Ricercando le ragioni che fanno funzionare il sistema gerarchico-statale potremo un giorno creare le condizioni per sostituirlo. A condizione che lo si voglia sostituire. Oggi e non domani. Forse, come scrive Alex Comfort, «ciò che importa attualmente non è tanto la psicologia dei delinquenti al potere quanto la nostra volontà di disobbedirgli e di resistergli»25.

Note alla Prefazione


  1. La critica della morale in Machiavelli «si confonde con la sua critica della filosofia. Se ne può formulare il punto principale nella maniera seguente: c’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato in un approccio alla politica che culmina in una utopia, nella descrizione di un regime migliore il cui divenire è altamente improbabile. Smettiamola dunque di fondarci sulla virtù, l’obiettivo più alto che possa scegliere una società; cominciamo a fondarci sugli obiettivi perseguiti da tutte le società». Leo Strauss, Qu’est-ce que la philosophie politique?, PUF, Paris, 1992, p. 45 [trad. it. Che cos’è la filosofia politica?, Il Melangolo, Genova, 2011].↩︎

  2. Cfr. Raison d’état, maximes d’état et coups d’état chez Gabriel Naudé, in Yves Charles Zarka, Raison et déraison d’État, PUF, Paris, 1994, p. 151.↩︎

  3. Infra, p. 170.↩︎

  4. Infra, p. 41.↩︎

  5. Alex Comfort, Darwin and the Naked Lady, Routledge & Kegan Paul, London, 1961. Cito dalla edizione spagnola: Darwin y la mujer desnuda, Seix Barrai, Barcelona, 1965, pp. 15, 17-18.↩︎

  6. Carl Schmitt, Théologie politique, Gallimard, Paris, 1988 [trad. it. Teologia politica, Giuffré, Milano, 1992]. La prima parte di quest’opera è uscita a Berlino nel 1922.↩︎

  7. Étienne de La Boétie, Le Discours de la Servitude Volontaire, Payot, Paris, 1976, pp. 174, 183 [trad. it. Discorso della servitù volontaria, Feltrinelli, Milano, 2019].↩︎

  8. Pierre Manent, Naissance de la Politique Moderne, Payot, Paris, 1977, p. 63.↩︎

  9. Louis Sala-Molins, L’État, «Le Monde», 8 agosto 1982.↩︎

  10. Infra, p. 134.↩︎

  11. Infra, p. 44.↩︎

  12. Charles Wright Mills, The Power Élite, Oxford University Press, New York, 1956 [trad. it. La élite del potere, Feltrinelli, Milano, 1973]. Cito dalla edizione spagnola: La élite del poder, Fondo de Cultura Economica, Mexico, 1957, p. 22. Negli anni Cinquanta sono stati pubblicati molti lavori di grande interesse a proposito della «patologia» sociale e delle determinazioni incoscienti della personalità che corrispondono alla domanda dei sistemi sociopolitici. Ne cito solo due a titolo di esempio: Theodor W. Adorno et al., The Authoritarian Personality, Harper & Brothers, New York, 1950 [trad. it. La personalità autoritaria, Pgreco, Milano, 2016] e Erich Fromm, The Sane Society, Rinehart & Co., New York, 1955 [trad. it. Psicanalisi della società contemporanea, Mondadori, Milano, 1996].↩︎

  13. Sigmund Freud scrisse, alla fine di L’interpretazione dei sogni: «Ritengo che quell’imperatore romano che fece giustiziare uno dei suoi sudditi perché costui l’aveva assassinato in sogno si sia sbagliato. […] l’uomo perbene si accontenta di sognare, il malvagio lo fa davvero».↩︎

  14. Émile Durkheim, De la division du travail social, Félix Alcan, Paris, 1893 [trad. it. La divisione del lavoro sociale, il Saggiatore, Milano, 2016].↩︎

  15. Cfr. infra, cap. I, par. 3, Il comportamento delinquente come sbocco emozionale, p. 44.↩︎

  16. Infra, p. 47.↩︎

  17. Michel Foucault, Surveiller et punir, Gallimard, Paris, 1975, p. 33 [trad. it. Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 2014].↩︎

  18. Ibidem, p. 32.↩︎

  19. La prigione è la forma più generalizzata di punizione, ma a seconda delle diverse realtà nazionali bisogna aggiungere la pena di morte, le pene corporali (come la fustigazione), la legge del taglione, la tortura come punizione semi-clandestina, ecc. Tutto dipende, da un lato, dai rapporti di classe e, dall’altro, dall’ambiente culturale e religioso in cui si gioca l’opposizione oppressore/oppresso.↩︎

  20. Infra, p. 120.↩︎

  21. Nunca Mas, Rapporto della Commissione nazionale d’inchiesta sui «desaparecidos», EUDEBA, Buenos Aires, 1984, p. 8.↩︎

  22. Ibidem, p. 22.↩︎

  23. Cfr. André Zysberg, Les Galériens, Seuil, Paris, 1987, pp. 21-24.↩︎

  24. Leo Strauss, op. cit., p. 38.↩︎

  25. Infra, p. 31.↩︎