Introduzione a ‘L’illusione meritocratica’

Francesco Codello

2024-02-01

INDICE DEL LIBRO:

Introduzione // CAPITOLO PRIMO Genealogia di un concetto // CAPITOLO SECONDO Uguaglianza: dei punti di partenza, delle opportunità o dei risultati? // CAPITOLO TERZO Le implicazioni della meritocrazia // CAPITOLO QUARTO Conclusioni provvisorie // Bibliografia

Nel 1958 il sociologo inglese Michael Young (1915-2002) pubblica a Londra il suo profetico libro The Rise of the Meritocracy 1980-2033. An Essay on Education and Equality, una distopia in cui delinea l’avvento al potere, su scala mondiale, di una Meritocrazia. I nuovi padroni governano in base a una selezione fondata non sulla nascita, né sulla ricchezza, ma sull’intelligenza misurata scientificamente. La nuova classe dirigente arriva al potere grazie a una serie di riforme scolastiche e socio-economiche ispirate al principio dell’uguaglianza delle opportunità. Le classi inferiori, lavoratori e lavoratrici, hanno inesorabilmente perso tutti i loro saperi e il loro ingegno e, con il loro consenso «democraticamente» ottenuto, si auto-dichiarano e si riconoscono come esseri inferiori.

Non esiste oggi esponente politico di destra o di sinistra, manager di aziende pubbliche o private, economista o opinionista televisivo e della carta stampata (tranne pochissime eccezioni) che non metta al primo posto dei propri obiettivi, nell’indicare la soluzione ai guasti di queste nostre società, proprio la mancanza della selezione sociale fondata sul merito3. Certamente in una società che premia il demerito appare del tutto evidente che invocare e aspirare a una società meritocratica non può non essere un obiettivo da tutti facilmente condiviso. Il problema, come già Young aveva intuito, è che valorizzare le attitudini personali, i singoli talenti e le specifiche sensibilità è una cosa, il merito un’altra, la meritocrazia un’altra ancora, come cercheremo di analizzare in queste pagine.

Il mio interesse per la meritocrazia e il merito risale a molto tempo fa. All’inizio (erano i primi anni Settanta del Novecento) era l’ideologia che mi ispirava una certa smaliziata diffidenza nei confronti di questi concetti. Trovavo, perché la cercavo, conferma dei miei sospetti nei testi di Michail Bakunin che fin dalla metà dell’Ottocento intravedeva l’evoluzione possibile delle società sia capitalistiche che comuniste in una forma decisamente meritocratica.

Ma solo in epoca più recente queste convinzioni, diciamo così, «ideologiche» si sono trasformate in idee basate sull’esperienza diretta, grazie soprattutto alle pratiche quotidiane legate alla mia (ex) professione scolastica.

Un giorno stavo discutendo insieme a un gruppo di ragazzi e ragazze di una scuola media dei problemi concreti della loro vita di alunni e alunne e delle possibili regole che si sarebbero dovute assumere per gestire assieme la quotidianità di una comunità democratica. A un certo punto, nel contesto del discorso, chiesi loro se alla mia domanda «chi è il più bravo o la più brava della scuola?» sapevano darmi con certezza una risposta. Ebbene sì, la risposta unanime fu: «chi ha i migliori voti nella scheda di valutazione». A quel punto domandai loro se sapevano con altrettanta sicurezza rispondere a un’altra domanda: «chi è la persona più gentile della scuola?». E la risposta fu altrettanto chiara e unanime nell’indicare una ragazzina che, tra l’altro, aveva la sindrome di Down.

A quel punto mi apparve chiaro, e così convenimmo tutti assieme, che la definizione di merito dipendeva esclusivamente dai parametri che assumiamo socialmente per valutarlo. Insomma, se fuori della porta della stanza in cui avviene la valutazione scriviamo una cosa avremo un risultato, se ne scriviamo un’altra avremo un risultato diverso.

Partendo da questa convinzione ho cercato di rappresentare, nelle pagine che seguono, la complessità e la varietà che attengono al concetto di meritocrazia, senza tuttavia avere la pretesa di poter risolvere una questione così controversa. Ciò che mi preme sottolineare è proprio questo: quando utilizziamo una parola (un concetto), dovremmo fare lo sforzo, sempre, di verificare il maggior numero di implicazioni e conseguenze che essa concretamente produce. E poi dovremmo diffidare, sempre, dell’uso propagandistico, scontato, banale, strumentale e, talvolta, pericoloso che ne fanno gli uomini e le donne di potere per ricercare un consenso ideologico e di dominio. In sostanza, dovremmo sempre relativizzare criticamente un’idea, anche se appare scontata, e provare ad analizzare, nel qui e ora, quanti più risvolti concreti essa di fatto produce. Non è un caso, a mio parere, che la parola «meritocrazia» sia evocata sistematicamente soprattutto da chi detiene una quota consistente di potere in vari ambiti. Ma ciò che mi appare ancor più preoccupante è il fatto che essa sia penetrata in modo così invasivo e totale nell’immaginario sociale, tanto da essere diventata un vero e proprio «mantra». C’è forse qualcuno che, di fronte all’idea meritocratica, in una realtà come quella del nostro paese, sostenga ancora pubblicamente la pratica della raccomandazione o del favoritismo come criterio per la selezione del potere? O magari qualcuno che rimpianga l’ereditarietà dinastica? Difficile imbattersi in questo tipo di persone, molto più facile sentire un continuo e ripetitivo elogio del «merito».

Di conseguenza, criticare meritocrazia e merito, cercare di destrutturarne il significato, può apparire una ricerca inutile e soprattutto sbagliata. Ma non è così dal mio punto di vista. L’importante è farlo in modo pragmatico, tenendo sempre presente che ciò che ci guida nelle nostre azioni quotidiane non sono solo gli interessi e gli scopi che perseguiamo ma anche un insieme di idee forti attorno alle quali cerchiamo di trovare i mezzi coerenti per metterle in pratica seppur, inevitabilmente, in modo approssimativo.

Si tratta certamente di un’operazione complessa e articolata che, se indagata correttamente, presenta implicazioni e risvolti molto vari e di non facile soluzione. Cercare una «quadratura del cerchio» probabilmente è impossibile, soprattutto perché un conto sono i ragionamenti astratti, altra cosa i risvolti pratici e immediati di scelte così impegnative. In altre parole, ciò che mi sembra più utile non è tanto dirimere teoricamente ed esaustivamente cosa significhi «merito», cosa implichi «meritocrazia» ecc. ecc., quanto piuttosto svelare il più possibile i pericoli e le insidie che da questi concetti possono derivare nelle scelte politiche e culturali conseguenti. E il lettore (paziente) non solo non potrà che sollevare nuove obiezioni via via che ci si inoltra in nuovi campi di approfondimento e ricerca, ma non troverà al contempo soluzioni o pretese di verità proprio perché – come sempre – la realtà delle cose in atto è sempre più complessa delle teorie che la vogliono spiegare. È con questo spirito, pertanto, che invito il lettore a confrontarsi con il ragionamento – ripeto: consapevolmente non esaustivo – che queste pagine suggeriscono.

D’altronde io stesso, come accennato, sono dovuto passare da un’interpretazione teorica e talvolta ideologica di merito e meritocrazia a una ben più dubbiosa e complessa analisi inevitabilmente suggeritami dalla vita quotidiana e dal confronto con un immaginario sociale sempre più arroccato su significati gerarchici e «scontati». La cosa che più mi preoccupa e che continua a interrogarmi è l’esito avuto dalla deriva meritocratica in un mondo così indirizzato: la convinzione diffusa che questi concetti siano la verità, siano assoluti, costituiscano il vero e più profondo senso della giustizia. Ecco perché ho cercato di mettere in discussione un dogma talmente forte e condiviso da essere riuscito, grazie alla sua potenza evocativa, ad annullare tutte le differenze di visione tradizionali della politica. Mi pare questo l’aspetto più preoccupante, ma altrettanto disarmante è l’effetto che tutto ciò ha prodotto nel delineare un’idea antropologica dell’essere umano così dirimente: c’è chi ce la fa e c’è chi non ce la fa, e questo non solo è ritenuto giusto ma è anche accettato supinamente e interiorizzato psicologicamente.

Mi pare pertanto del tutto evidente che si possano (anzi, si debbano) muovere obiezioni, suscitare disappunti e critiche, in uno spirito, mi auguro, di confronto e di ricerca, tale che ciascuno possa trovare nelle pagine seguenti almeno un dubbio e una possibile via alternativa a questa società così formattata e organizzata. Solo in questo caso credo che il lavoro svolto possa trovare un «merito» vero e accettabile, e solo se il ragionamento che viene sviluppato risulterà comprensibile questo libro avrà raggiunto il suo obiettivo principale. Non ci si aspetti dunque un trattato organico e completo proprio perché la scelta è stata quella di offrire un pamphlet che per vocazione apra un discorso e non abbia nessuna pretesa di esaurirlo.

Le riflessioni contenute in queste pagine hanno dunque lo scopo di invitare il lettore e la lettrice a riflettere su argomenti che invece appaiono scontati e incontestabili. Il principio secondo cui «ciascuno deve essere ricompensato in proporzione ai suoi meriti» appare talmente ovvio da non suscitare alcuna perplessità. Questa idea meritocratica è diffusamente percepita come un’idea di buon senso, giusta, e si presenta in modo così immediato e semplice da non essere, per l’appunto, quasi mai messa in discussione. Ma, come cercheremo di dimostrare, in realtà è quantomeno urgente, se non doveroso, interrogarci su tutto ciò e provare a obiettare proprio al cospetto di tale e tanta ovvietà. Il che mi sembra ancor più necessario proprio perché si tratta di un’idea di natura prescrittiva. Quel verbo imperativo – deve – evidenzia infatti un dover essere rispetto a una realtà che, evidentemente e giustamente, non è così congeniata. E questo dover essere evoca un’aspirazione che si fonda legittimamente sulla volontà di superare una realtà per nulla fondata sul merito quanto piuttosto su privilegi e disuguaglianze vistosamente insopportabili. Questa prescrizione, inoltre, non attiene ai singoli profili individuali bensì impegna la definizione e l’assunzione concreta di azioni e politiche sociali tali da garantire un esito più giusto e più equo delle ricompense sociali. Ma, come sostiene Carlo Barone in Le trappole della meritocrazia, questa «è una concezione che prescrive i criteri che renderebbero accettabile, anzi addirittura auspicabile, una distribuzione asimmetrica delle ricompense tra individui. Detto altrimenti, essa identifica un criterio di giustizia sociale che renderebbe legittime le disparità sociali: queste devono riflettere i meriti individuali» (Barone, 2012, p. 31).

Da queste premesse deriva probabilmente gran parte del fascino che l’idea meritocratica esercita sulle popolazioni di queste società contemporanee, apparendo sempre più come la più importante sfida alle disuguaglianze presenti. Ma ciò che non è forse chiaro a molti è invece limpidamente rappresentato dall’idea che accompagna e impregna radicalmente tutto questo: il fatto che alcuni ricevano più di altri non deve essere necessariamente considerato come un’ingiustizia sociale. Se queste nuove disparità rispecchiano veramente i meriti individuali, non solo devono essere accettate ma, a maggior ragione, devono essere considerate moralmente giuste e desiderabili. Naturalmente tutto questo ha risvolti sociali e culturali, e finanche psicologici, di forte impatto nel determinare la condizione umana in questa nostra società. Espressioni come «te lo sei meritato», assieme a molte altre simili, mettono ora in pace le coscienze e impediscono ogni possibile rivolta. La concezione meritocratica è pertanto intrisa di significati morali costruiti in un generale e supino consenso al punto da farla risultare come la vera e unica panacea ai mali che affliggono il mondo contemporaneo. A me pare invece che queste presunte ovvietà, vendute capillarmente come verità incontestabili e logiche, di buon senso si dice, nascondano ben altre implicazioni e rivelino vistose contraddizioni. Il libro vorrebbe aprire una verifica su tutto ciò assumendo, così come risulta subito chiaro, una prospettiva libertaria e critica.

L’obiettivo di queste riflessioni è dunque quello di svelare quale sia il possibile esito di una società meritocratica, vale a dire quello di naturalizzare le disuguaglianze.