Il manicomio chimico e poi?

Introduzione alla nuova edizione di ‘Il manicomio chimico’

Piero Cipriano

2023-02-07

INDICE DEL LIBRO:

INTRODUZIONE ALLA NUOVA EDIZIONE Il manicomio chimico e poi? // CAPITOLO PRIMO Chiamatemi Sisifo // CAPITOLO SECONDO Il ritorno dell’elettrochoc // CAPITOLO TERZO Quelli che sentono le voci // CAPITOLO QUARTO L’ospedale è un manicomio // CAPITOLO QUINTO Il rom borderline e l’arte di parlare con i morti // CAPITOLO SESTO L’era del manicomio chimico (prima parte) // CAPITOLO SETTIMO Corsa, scrittura, delazione e buon umore // CAPITOLO OTTAVO L’era del manicomio chimico (seconda parte) // CAPITOLO NONO Codici rossi, gialli, verdi // CAPITOLO DECIMO Side effects // CAPITOLO UNDICESIMO L’era del manicomio chimico (terza parte) // CAPITOLO DODICESIMO Philip Dick // CAPITOLO TREDICESIMO L’era del manicomio chimico (quarta parte) // CAPITOLO QUATTORDICESIMO Saviano e gli psicofarmaci // CAPITOLO QUINDICESIMO Droghe, miseria, follia // CAPITOLO SEDICESIMO Scrittori, politici e cani // CAPITOLO DICIASSETTESIMO L’abbiamo coercito // CAPITOLO DICIOTTESIMO Fuoco alle fasce // CAPITOLO DICIANNOVESIMO Ivan Fëdorovič e il sinedrio di bioetica // CAPITOLO VENTESIMO Il gobbo // CAPITOLO VENTUNESIMO Io sono un burocrate o tutt’al più un botanico // CAPITOLO VENTIDUESIMO Il mondo sospeso // CAPITOLO VENTITREESIMO Dario e l’uomo in fuga // CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO Lo psichiatra nella gabbia // CAPITOLO VENTICINQUESIMO Marco Cavallo e il camice degli psichiatri // CAPITOLO VENTISEIESIMO Corpo, istituzione, sintomi e violenza // CAPITOLO VENTISETTESIMO I funzionari della ragione // CAPITOLO VENTOTTESIMO Basaglia, Szasz e lo spettro dell’antipsichiatria // CAPITOLO VENTINOVESIMO Centottanta e centonovantaquattro // CAPITOLO TRENTESIMO La banalità degli specialisti // Poscritto // Bibliografia

Il manicomio chimico è il libro centrale della mia trilogia della riluttanza. Tre libri in cui dichiaro la mia dissidenza. Pur continuando a lavorare dentro l’istituzione psichiatrica, capiamoci. Per qualcuno posizione furba. Sputi nel piatto in cui mangi. Per qualcun altro posizione difficile. Restare – pericolosamente – nell’istituzione che vorresti cambiare o, nell’impossibilità di cambiarla, distruggere. Cercando di non finirne stritolato, ovviamente.

Con questo libro mi sono assicurato per sempre una splendida anti-carriera. Nel senso che nell’istituzione, sia quella piccola in cui da quindici anni lavoro – il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura che fa parte di un Dipartimento di Salute Mentale di Roma – sia quella grande intesa come la psichiatria, dalla pubblicazione di questo libro in poi sono stato – professionalmente – progressivamente isolato. Me lo annunciò, con notevole preveggenza, un lettore di questo libro, pochi mesi dopo la pubblicazione: «La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la mia solitudine, che è la mia debolezza», questa frase le riguarda, mi disse. Non lo sapevo che era di Pierpaolo Pasolini. Proprio solo no, non lo ero, non lo sono, ci sono ancora quei quattro sopravvissuti basagliani veri. Non certo quelli che si fregiano di aver lavorato con Basaglia e poi dirigono Centri di Salute Mentale più impenetrabili di un SPDC restraint. Un isolamento in cui non mi trovo male, capiamoci. Anche perché non essendo io vocato alla carriera, a essere un capo, non avendo nessuna passione per il comando, anarchicamente non potevo che auto-sabotarmi scrivendo questi libri.

Come Basaglia, d’altra parte, che si professò un cane in chiesa – la chiesa era la psichiatria – io pure sono sempre più cane in chiesa, certo, con qualche differenza non di poco conto: Basaglia riuscì a romperla, infine, la casa che la psichiatria si era data (il manicomio). Lo dichiarò e ci riuscì. «La distruzione del manicomio è un fatto urgentemente necessario se non semplicemente ovvio», disse, nel 1964. Nel 1978 i manicomi erano fuori legge. Oggi però il manicomio è molto più sfuggente, inafferrabile, come suggerisce il titolo di questo libro, anziché murario s’è fatto chimico. E dunque un minuscolo cane molesto come me cosa potrà mai fare contro Big Pharma, che ora è lei il Moloch proprietario della psichiatria e dunque degli psichiatri e dunque degli psichiatrizzati?

Io, a differenza di Basaglia, sono un cane che non potrà mai vincere. Solo un po’ convincere. Perciò continuo a fare questo gesto, che parrebbe inutile, di scrivere e pubblicare libri ostinati e contrari.

Per convincere che non è cura prescrivere per tutta la vita una manciata di pasticche da inghiottire ogni giorno.

E dunque questo libro, nel 2015, gridava che era la distruzione del manicomio chimico il fatto urgentemente necessario se non semplicemente ovvio.

La mia insofferenza incubava da una decina d’anni. Nel 2012 un attacco di panico. Proprio mentre ero ingaggiato a fare un TSO in ospedale. Panico è Pan, il dio del selvatico, che ti avverte. Ehi, la tua vita sta prendendo una piega indesiderata. Non è ciò che volevi. Ti dichiaravi un anarchico, e guarda un po’ come ti sei ridotto. Che vuoi fare? Davvero ti piace così? Davvero vuoi fare il soldatino acchiappa matti? Pan, siccome è maledettamente vero ciò che Jung sostiene – o era Hillman? – che gli dèi sono diventati malattie, lo puoi spegnere coi farmaci, Xanax o Prozac, in modo da farti scivolare l’ansia o il malumore di dosso, e continuare a essere l’uomo macchina, lo zombie performativo di prima. Funzionale a questa società della prestazione da realismo capitalista. Oppure lo ascolti.

Montai finalmente alcuni scritti che da anni rimestavo, per farne un libro, La fabbrica della cura mentale, che invio ad Amedeo Bertolo di elèuthera, ed elèuthera scommette su un testo che – come tutti gli altri miei a venire – non è né carne né pesce, né saggio né fiction, ma un po’ tante cose, diario, reportage, pamphlet, saggio, autofiction, poesia a tratti.

Quel primo libro ha una buona accoglienza, mi ritrovo perfino, grazie all’aver preso posizione contro la pratica di legare le persone nei luoghi di cura, a essere invitato in audizione dal Comitato Nazionale di Bioetica in qualità di «esperto di contenzione». Evidentemente sono persuasivo perché il CNB nel 2015 redige un documento dal titolo La contenzione: problemi bioetici, in cui auspica il superamento della contenzione meccanica nei luoghi di cura. E così ci prendo gusto, l’affinità anarchica con gli elèutheriani è elettiva, a stretto giro la mia grafomania al servizio della psichiatria radicale sforna un secondo volume. Questo.

A differenza del precedente, che aveva avuto una gestazione di anni, questo lo scrivo in pochi mesi del 2014. Due i fatti che orienteranno la direzione tematica. L’uscita di un libro documentatissimo – cosa che io non avrei mai avuto l’acribia di fare – Indagine su un’epidemia, scritto da un autentico detective scientifico, Robert Whitaker. Quel libro andava compendiato rimasticato, riscritto, semplificato e mi incarico di farlo. E poi l’uscita del DSM-5, questa iattura diagnostica che rende gli umani pressoché tutti diagnosticabili, e quindi soggetti di prescrizione farmacologica. Intorno ai due temi diagnosi/psicofarmaco scrivo questo libro, nel 2014, in pochi mesi. Con Il manicomio chimico entro nel cuore del problema diagnostico e farmacologico, questa doppia inflazione che diventa moderna manicomializzazione, un ingabbiamento pulito e scientifico determinato dall’etichetta diagnostica che mai più ti levi di dosso, e dallo psicofarmaco dato nella maggior parte dei casi per sempre.

Le parti saggio come al solito si alternano con le parti narrative. Le parti narrative le avevo dimenticate, a dire il vero. Perché nelle decine di presentazioni che si fanno, che ho fatto in quegli anni, di solito si rimesta la parte più cogente, la iatrogenia degli psicofarmaci e delle diagnosi, la necessità di eliminare le fasce, il tema degli opg. Le parti narrative non si affrontano più. E tu che le hai scritte le scordi. Come parti di te scisse, perdute.

Dovendo scrivere questa introduzione alla nuova edizione vado a rileggere l’indice, i vari capitoli, e trovo due straordinari compagni di viaggio, due esseri umani speciali che per uno scherzo del destino erano dall’altra parte della barricata, nel senso che in questa vita ci è toccato a me fare lo psichiatra e loro gli psichiatrizzati. Ma in un universo parallelo scommetto che Federico e Francesco sono nella parte dello psichiatra e io sono legato a un letto. Oppure, meglio, in quell’universo parallelo la psichiatria ha già smesso di esistere.

Capitolo diciannove. Ivan Fëdorovičče il sinedrio di bioetica. Nello stesso racconto della mia audizione al Comitato Nazionale di Bioetica descrivo l’incontro con Francesco che qui chiamo Ivan, un ragazzo appena fuggito dal Grand Hotel TSO, come lo definisce. Avrei voluto parlare di Ivan, ovvero di Francesco, agli esperti del sinedrio bioetico.

Capitolo ventiquattro. Lo psichiatra nella gabbia. Il 4 settembre 2013 una psichiatra a Bari era stata uccisa da un tossicodipendente. La Società Italiana di Psichiatria prepara un questionario per valutare il rischio di violenza nei luoghi di lavoro. Alla SIP, questa società scientifica terrorizzata dal malato, risponde direttamente Federico, «un malato», con una lettera inesorabile, dove le dice: Cara società degli psichiatri, il mondo ti fa da specchio, se tu giudichi etichetti e leghi le persone, le maltratti le sottovaluti sei paternalista, non credi in loro non hai compassione non sai amare eccetera, il mondo ti risponde di riflesso. Quante cose, invece, cambierebbero se solo imparassi a lavorare un po’ più col cuore e un po’ meno con la mente. Ma tu non vuoi capirlo e dai sempre la colpa agli altri e le soluzioni che proponi sono servizio di guardia giurata metal detector telecamere allarmi eccetera. Ma non ti rendi conto che simili pensieri ti condurranno alla costruzione del tuo nuovo manicomio? Un manicomio in cui in gabbia non ci sarà più il paziente ma ci sarai tu!

Questa fu la grande lezione di Federico Scarpa, paziente esigente, a me e a tutti gli altri psichiatri, prima di volare via come Birdman. Il mio amico Federico.

Insomma, voglio dire che a quasi otto anni dall’uscita della prima edizione questo libro, che non ha mai smesso di essere acquistato e citato, mi pare più attuale che mai.

Le denunce di allora restano valide. Il legare le persone nei luoghi di cura? Ancora oggi, 2023, la crisi psichica si va a compiere nei circa trecento SPDC ospedalieri, e, salvo una ventina, sono tutti chiusi blindati e tutti adoperano le fasce e il legare.

La contenzione è una sineddoche. Analizzi le contenzioni in un servizio e capisci molte cose. Questo dato è un indicatore fortissimo del tipo di lavoro, del livello di violenza e di sofferenza e di limitazione della libertà, e dell’incapacità relazionale e di negoziazione non solo del SPDC, ovvero del reparto ospedaliero, ma dell’intero Dipartimento di Salute Mentale.

Ciò che è cambiato, rispetto al 2015, è che finalmente se n’è accorto il Ministero della Salute, che nel 2022 ha approvato e trasmesso alle Regioni le raccomandazioni per il superamento della contenzione meccanica nei servizi psichiatrici, fissando al 2023 l’obiettivo del loro azzeramento. E per dare sostanza alle raccomandazioni sono stati messi a disposizione delle Regioni dei fondi vincolati (20 milioni di euro) per progetti relativi al superamento della contenzione meccanica da realizzarsi entro il 31 dicembre 2023.

Il paradosso è che siccome lo impone il Ministero della Salute, alcuni psichiatri che non hanno mai creduto possibile fare a meno di legare le persone – anzi, molti di loro sono stati strenui difensori di questa pratica «terapeutica» – si trovano adesso a dover formulare progetti per contrastare questa pratica (sento parlare di olii essenziali, corsi di autodifesa e altri escamotage per usare in modo vano danaro pubblico che il Ministero ha deciso di impiegare). Progetti inutili, sapete perché? Perché il legare o non legare è un fatto culturale e ideologico.

Di questo parlavo nel 2014 in audit presso il Comitato Nazionale di Bioetica, e parlavo nel 2016, come membro del Forum Salute Mentale, quando fui tra i promotori della Campagna nazionale per l’abolizione della contenzione meccanica E tu slegalo subito.

Eppure, anche per questa mia storica dissidenza rispetto a questa pratica violenta della psichiatria, io ora sono il cane in chiesa (e va bene, ci sto) e chi si incarica di progettare la riduzione delle contenzioni sono psichiatri e operatori che in questi anni non l’hanno mai messa in discussione.

Infatti, passato questo 2023, finito il finanziamento, passata la festa, vedrete, tornerà tutto come prima. Se non peggio.

La psichiatria non è univoca, ci sono molti modi di esercitarla. Mezzo secolo fa pure. C’erano i manicomi e la maggior parte degli psichiatri ci stava bene dentro i manicomi e applicava scrupolosamente le leggi. Fosse stato per loro, voglio dire per gli psichiatri burocrati, protocollari e pedanti, avremmo avuto ancora i manicomi. Poi vi era una minoranza di psichiatri critici rispetto ai manicomi, psichiatri che iniziarono a disapplicare le leggi, ma iniziarono a farlo ante legge, cioè prima che ci fosse la 180. È grazie a loro che non abbiamo più i manicomi. Io negli anni Settanta sarei stato tra gli psichiatri anti-manicomiali. Ma siccome mi è capitato di esercitare il mio mestiere tra il 2002 e il 2022, non posso far altro che osservare – e riportare – che la psichiatria della Regione in cui vivo e lavoro – ma di gran parte d’Italia in effetti – è ancora manicomio, un manicomio che non ha più i grandi contenitori ma è fatto di psicofarmaci per sempre, depot già agli adolescenti, e fasce per gestire le crisi, un manicomio più sofisticato di cui la gran parte degli psichiatri non si accorge e non contesta.

Se continuo a starci dentro, ciononostante, non è per masochismo o per inflazionare la mia identità di psichiatra radicale, ma perché ritengo di dover stare in un’istituzione pubblica dove accedono persone che hanno il diritto di essere curate al meglio. Perché i luoghi di cura esistono per le persone sofferenti, non per gli operatori le loro carriere il loro potere.

Il limite di questo libro, tuttavia, e dell’intera trilogia della riluttanza, è di essere un gesto narrativo destruens, di critica radicale, ok, ma con una scarsa proposta.

Ma sì, c’era la proposta basagliana, vale a dire sostituire alla tecnica manicomio non solo la tecnica psicofarmaco/psicoterapia, ma una serie di offerte che da Basaglia ai suoi continuatori – penso a Franco Rotelli e Peppe Dell’Acqua in primis – erano rappresentate dal rispondere ai bisogni essenziali delle persone: casa, lavoro, relazioni. Dare una risposta alla miseria. Perché terapia – diceva Franco Basaglia nelle Conferenze brasiliane – è lotta contro la miseria.

Ma oltre la proposta basagliana non c’era, da parte mia, nessuna nuova proposta. E, mi sono reso conto in questi ultimi anni, non c’era una proposta nuova nemmeno da parte di quei luoghi – Trieste in primis – che sono stati avanguardia del modello di salute mentale senza manicomi. E sì. Anche i servizi di salute mentale di Trieste erano ostaggio, sono ostaggio, sempre di più – mi duole ammetterlo – della dittatura di Big Pharma e del DSM-5. Il manicomio chimico – nella sua versione quintessenziale ovvero il farmaco depot per tutti – non lasciava e non lascia indenne nemmeno la Trieste di Marco Cavallo.

Per cui, dopo qualche anno di mia ricerca, la proposta nuova è arrivata. E forse non è un caso che questo libro, il libro destruens, esca contemporaneamente all’uscita in libreria di un dittico costruens. Questo era il libro dove si raccontava la iatrogenia degli psicofarmaci che negli anni Cinquanta-Sessanta vinsero la partita. Ora è venuto il momento, il gran ritorno sulle scene, delle molecole forsennate che in quel ventennio furoreggiarono ma poi – per lo spavento del potere – furono estromesse dalla psichiatria e dalla legge. Le molecole psichedeliche, oggi, sono la proposta rivoluzionaria per un’alternativa radicale a quegli psicofarmaci che ne Il manicomio chimico contestavo. E che è ora di ridimensionare – progressivamente, ma decisamente – nella terapia psichiatrica.