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2024-01-20
Si prepara già da tempo, ormai da anni, l’incontro fra anarchia e filosofia – attraverso incontri, dibattiti, convegni, miscellanee, ma soprattutto singoli contributi. Si tratta anzitutto – come mi è capitato di dire in un articolo pubblicato per la rivista italiana «Aut aut» e per il sito americano «Ill Will» – di decostruire l’anarchismo per riscattare l’anarchia.
L’anarchismo classico è caduto nella trappola di rapporti di forza ingenuamente intesi. Basti pensare a quel modo così moderno di intendere sia il soggetto sia lo Stato che culmina in una visione manichea: se il soggetto fosse per natura buono, e lo Stato cattivo, basterebbe rovesciare lo schema impersonato dal Leviatano di Hobbes, per cui il buono Stato riscatterebbe l’individuo umano votato altrimenti ad essere lupo. Proprio questa semplificazione non ha funzionato – neppure in politica.
La modernità, di cui l’anarchismo è stato figlio, ne costituisce l’impasse. Sono ormai palesi quei limiti metafisici entro cui resta catturato e che finiscono per avere inevitabili ripercussioni politiche. Il rischio è perdere la carica sovversiva e chiudere l’anarchia in un arkhé. Proprio il concetto riduttivo del potere – ed è solo un esempio – ha condannato il movimento anarchico a molte sconfitte.
L’anarchismo sembra affidato a una memoria fiera e caparbia, esclusiva e cultuale. I sacri testi, assemblati in un inviolabile corpus canonico, richiedono fede e osservanza. Gli anarchici si rimettono a una liturgia, seguono un catechismo, coltivano l’incrollabile certezza che ogni risposta sia contenuta in quei testi dell’ortodossia otto-novecentesca.
La pietrificazione fideistica rischia di avere per effetto un fosco settarismo e una catastrofica inattività. Si sarebbe tentati di pensare che già da tempo sia suonata la campana della fine, se non fosse che la fiaccola dell’anarchia non si è mai spenta. Occorre allora evitare il mal d’archivio che potrebbe prendere il sopravvento.
La filosofia spinge l’anarchismo, in una sorta quasi di autoanalisi critica, a riscoprire la propria rimossa ontologia. Negli ultimi decenni è andata emergendo una vena anarchica nella filosofia, o meglio nel pensiero continentale. Si parla in termini tecnici di filosofia postfondazionalista, che mette in questione ogni arkhé, si congeda dall’atto archico. I nomi che si potrebbero menzionare sono molti – a partire da quello di Martin Heidegger che incrina la fondazione ultima e terremota la filosofia. Seguono molti altri nomi – una vera e propria costellazione, per dirla con Walter Benjamin (che ne fa parte a tutti gli effetti) che si disegna nel Novecento.
Si inserisce qui il volume di Catherine Malabou. E si inserisce – come accennavo – in un filone già aperto da qualche anno in cui si tenta un confronto tra anarchismo e filosofia. Come affrontare questo confronto? Che impostazione dare? La scelta non è facile. E le risposte finora sono state varie. Nel suo libro Malabou ha preso decisamente le parti della filosofia, non nel senso di una difesa, ma nel senso di un’analisi tutta centrata e concentrata su alcuni nomi della filosofia novecentesca e contemporanea. I nomi sono in tutto sei. In sequenza: Schürmann, Levinas, Derrida, Foucault, Agamben, Rancière. Si tratta dunque dei nomi di quei filosofi che per Malabou hanno offerto, talvolta loro malgrado, un ripensamento al tema dell’anarchia. E lo hanno fatto – s’intende – sotto aspetti spesso molto differenti. È il caso, ad esempio, di Levinas e Foucault, che appaiono più lontani fra loro di quanto non si immagini. Il filo che forse si piò indicare, il filo rosso che lega questi nomi, è la questione dell’arkhé, la riflessione critica intorno ai due significati di arkhé, principio e comando, che com’è noto, sono spesso in combutta fra loro, in un’alleanza che ne moltiplica l’effetto: l’inizio che comanda e il comando dell’inizio.
Prima di entrare più nel merito, però, vorrei porre una domanda che riguarda la collocazione di questo volume all’interno del percorso di Malabou. In che modo si lega ai precedenti lavori? La questione non è solo autobiografica, ma anche filosofica. Oltre ad affrontare altri temi (penso a Divenire forma o anche a Metamorfosi dell’intelligenza), i suoi lavori precedenti sembrano suggerire un’altra impostazione e persino una certa vicinanza alla filosofia analitica.
Tornando invece al libro Al ladro! Anarchismo e filosofia, il percorso scelto è – se si eccettuano le pagine introduttive – tutto intrafilosofico, nel senso che si muove all’interno della filosofia mettendo intenzionalmente da parte la tradizione anarchica. Scelta drastica, ma più che comprensibile se l’intento è appunto quello di fornire una ricognizione esauriente del contributo offerto da ciascuno dei sei filosofi scelti.
Non si può dimenticare che dopo le pagine introduttive un capitolo è dedicato ad Aristotele, in particolare alla questione dell’archia e dell’anarchia nella Politica. Su questo ci sarebbe molto da dire – e da chiedere: perché Aristotele e non anche Platone? Non credo infatti che l’archi-politica sia rappresentata solo da Aristotele e sono convinta, anzi, che senza alcuni passi di Platone sia difficile comprendere la potenza di una tradizione politica dominante fino ad oggi. Mi sono occupata di questo nel mio nuovo libro Democrazia e anarchia. Il potere nella polis (Einaudi 2024), dove sostengo che la demo-crazia è an-archica e che Platone e Aristotele sono stati i peggiori detrattori. Temo che proprio da qui si dovrebbe ripartire. Ma avremo modo magari di parlarne in altro contesto.
Malabou sceglie sei nomi – cominciando con Schürmann. Questa scelta è ben motivabile e motivata, se si considera che proprio a lui spetta il merito – in retrospettiva – di aver introdotto la questione dell’anarchia nella filosofia con il suo libro famoso Dai principi all’anarchia, di cui Malabou fa un’attenta disanima. Tuttavia il libro di Schürmann è dedicato a Heidegger, è un libro su Heidegger. Non per caso – ma perché Heidegger (piaccia o no) è il filosofo che mette in discussione il fondamento, il Grund, l’arkhé. Si parla oggi di post-fondazionalismo per riferirsi alla corrente del pensiero radicale che prescinde dal fondamento. L’assenza di Heidegger è dunque un’assenza marcata.
Ho trovato molto riusciti e, sotto diversi aspetti, molto convincenti i capitoli dedicati a Levinas e a Derrida, che costituiscono forse il nucleo portante del libro, la parte più valida. Con grande equilibrio Malabou analizza i testi di questi due filosofi, i cui pensieri sono legati a doppio filo, sottolineando la carica an-archica della decostruzione – decostruzione del soggetto, che in Levinas apre a un’altra etica, decostruzione come via della filosofia con ripercussioni non da ultimo politiche in Derrida.
Devo confessare tuttavia che, accanto all’assenza marcata di Heidegger, lamento un’altra assenza, per alcuni aspetti più significativa: quella di Hannah Arendt. È noto che si tenta – già da alcuni anni – di addomesticare Arendt facendone quasi la pioniera del pensiero liberale e antitotalitario. Ma basta ricordare il pensiero di Arendt sui rifugiati per sapere che le cose stanno in modo ben diverso. Personalmente ritengo che Arendt faccia parte della filosofia che riconosce la propria vena an-archica. E in fondo è proprio lei a denunciare già negli anni Sessanta (ben prima di Schürmann) il sodalizio tra principio e comando – l’arkhé raddoppiata – sodalizio ripreso direttamente da Agamben prima e da Rancière poi (che le riconoscono il merito). Si comprende quindi la critica allo Stato, alla sovranità, al regime totalitario che nega la possibilità di cominciare e ri-cominciare. Per quanto, dunque, sia lecito che ciascuno scelga un proprio percorso interpretativo, ed è giusto che sia così, nel caso di Arendt mi permetto di sottolineare questa assenza.
Penso – sia detto per inciso – che un posto si debba trovare per Miguel Abensour. Non solo per la sua lettura an-archica di Marx e per i suoi decisivi saggi sull’anarchia, ma anche per il ruolo dirompente che ha avuto. Pur essendo cantieri in fieri quelli di Agamben e di Rancière, i due capitoli di Malabou mettono a fuoco le questioni più significative – anche in questo caso con lucidità ed equilibrio critico.
Restano alla fine molte questioni aperte e, da lettrice ed estimatrice di Catherine, avrei desiderato nelle pagine conclusive un timbro più personale, una più decisa presa di parola da parte sua, che giungerà certamente nel prosieguo della sua riflessione. Resta soprattutto il grande problema del rapporto tra filosofia e politica, che affiora un po’ ovunque. Come si traducono politicamente quei pensieri? Molti dei filosofi trattati – soprattutto Schürmann – restano al di qua della linea. In tal senso credo che la tradizione anarchica, in particolare quella rimasta più ai margini del racconto dominante (penso a Landauer) abbia molto da dire. Ma l’operazione compiuta da Malabou è per noi imprescindibile perché offre lo spaccato della filosofia, anche quella contemporanea, mostrando come si lavori, ad esempio, alla decostruzione: della sovranità, del potere inteso in senso strumentale e metafisico, di una messa in scena pubblica che resta archica. Se non si pensano e ri-pensano questi concetti si continuerà a difendere la sovranità dei cittadini contro i migranti, a ricadere negli stereotipi della politica statuale, ad affrontare il potere in modo ingenuo e perdente. Grazie, dunque, a Catherine per questo volume che ci impegnerà nel prossimo periodo.