Introduzione alla nuova edizione di ‘Una fiamma nel buio. Conversazioni’

Giacomo Borella

2020-10-13

traduzione di Giacomo Borella e Daniella Engel.

INDICE DEL LIBRO:

Introduzione alla nuova edizione di Giacomo Borella // Prefazione di David Cayley // CAPITOLO PRIMO Il mito dell’istruzione // CAPITOLO SECONDO Una questione di testimonianza // CAPITOLO TERZO Una rottura catastrofica // CAPITOLO QUARTO Una fiamma nel buio // CAPITOLO QUINTO L’ultima frontiera dell’arroganza // CAPITOLO SESTO Il doppio ghetto // CAPITOLO SETTIMO La maschera dell’amore // CAPITOLO OTTAVO Camminando sullo spartiacque // CAPITOLO NONO Una generazione senza «roba» // CAPITOLO DECIMO Un cosmo nelle mani dell’uomo // Nota bibliografica

Nella gilda – e in epoca medievale ogni uomo apparteneva a una gilda o a una confraternita – due «fratelli» dovevano vegliare a turno un «fratello» che si ammalava; oggi sarebbe sufficiente dare al proprio vicino l’indirizzo dell’Ospedale dei Poveri più prossimo. Nella società dei barbari, chi assisteva a un combattimento tra due uomini scaturito da un litigio, e non impediva che avesse un esito funesto, veniva egli stesso trattato come un assassino; ma con la teoria dello Stato protettore di tutti, l’astante non ha più bisogno di intromettersi: è affare del poliziotto intervenire, oppure no. E mentre in una terra selvaggia, tra gli Ottentotti, sarebbe scandaloso mangiare senza aver chiamato ad alta voce tre volte per domandare se c’è qualcuno che voglia condividere il cibo, tutto ciò che un rispettabile cittadino deve fare oggi è pagare la tassa dei poveri e lasciare che gli affamati patiscano la fame. Pëtr Kropotkin, Il mutuo appoggio

[…] egli si denudò per essere a contatto diretto con la bellezza del creato. Simone Weil, Attesa di Dio

Queste conversazioni, che vengono pubblicate qui in una nuova traduzione e – dopo la prima pubblicazione edita da elèuthera nel 1994 in versione leggermente ridotta – per la prima volta in italiano in edizione integrale, occupano una posizione particolare nella bibliografia di Ivan Illich. Sebbene non si tratti di un’opera scritta di suo pugno ed egli, come racconta David Cayley, non abbia mai voluto rivederne e correggerne la trascrizione, è l’unico testo esistente in cui Illich ripercorre estensivamente il suo itinerario di vita e di pensiero. Questa sorta di riesame autobiografico e autocritico si spinge fino al 1992, quando viene registrata a Brema la conversazione che va ad aggiungersi come capitolo conclusivo a quella ben più lunga, svoltasi quattro anni prima in Pennsylvania, che costituisce il corpo principale del libro. L’arco di osservazione coperto da queste conversazioni potrebbe dirsi pressoché completo, almeno rispetto alla scansione della sua produzione editoriale: proprio il 1992 è l’anno che segna l’ultimo libro pubblicato in vita da Illich, la raccolta di interventi e discorsi tenuti nel decennio precedente In the Mirror of the Past, mentre il testo dedicato al Didascalicon di Ugo di San Vittore In the Vineyard of the Text (a cui egli fa qui più volte riferimento), pubblicato l’anno successivo, era già uscito nel 1991 in edizione francese. Nel decennio che intercorre tra l’ultima delle conversazioni qui raccolte e la morte di Illich, avvenuta a Brema il 2 dicembre del 2002 nella casa di Kreftingstrasse 16, durante un sonnellino, egli si dedica alla prosecuzione di quella particolarissima attività di insegnamento e di studio all’insegna della austere playfulness (giocosità austera) e incentrata sulla pratica e sul concetto di philia, un seminario aperto costituito da amici, colleghi e allievi raccolti attorno a una grande tavola, all’occorrenza imbandita con vino («ordinario ma decente»1), pastasciutta e una candela accesa. Una modalità praticata almeno fin dai tempi del CIDOC di Cuernavaca, raccontata incidentalmente da Franco La Cecla a proposito del periodo di Berkeley anche nei suoi aspetti meno idilliaci2, e consolidata alla Penn State University e poi a Brema, fino agli ultimi giorni, malgrado gli effetti sempre più invalidanti del tumore alla guancia che affliggeva Illich da molti anni. «Un’ospitalità colta e rilassata è l’unico antidoto all’atteggiamento di intelligenza mortifera che si acquisisce nel perseguimento professionale del sapere oggettivamente stabilito»3. È ancora oggi consultabile in rete il programma del seminario bremese dell’autunno 2002, dove Ivan dava appuntamento agli studenti per domenica 8 dicembre alle ore 11 per un incontro di lavoro «mit Mittagspause und ‘Spaghetti’ in der Kreftingstr. 16»4. Pochi mesi prima di morire, Illich riassumerà quest’ultimo periodo descrivendolo come «un decennio consacrato alla philia: coltivare il giardino dell’amicizia in mezzo all’Absurdistan in cui ci troviamo e progredire nell’arte di questo giardinaggio con lo studio e la pratica dell’askesis»5.

I due libri che testimoniano quest’ultima fase della sua ricerca usciranno postumi: la raccolta di discorsi e conferenze pubblicata in francese con il titolo La Perte des sens, da lui stesso curata e licenziata proprio nel 2002, che uscirà solo nel 2004; e una seconda serie di conversazioni registrate dallo stesso Cayley tra il 1997 e il 1999, poi trascritte, in buona parte in forma di monologo, e pubblicate nel 2005. Quest’ultimo testo, giustamente definito da Cayley nel sottotitolo un «testamento», per la tonalità conclusiva che lo pervade, differisce dalle nostre Conversazioni in modo sostanziale. Qui Illich accetta, non senza resistenze, dinieghi e divagazioni, di lasciarsi condurre da Cayley a ripercorrere quasi passo dopo passo l’itinerario della sua vita, delle sue opere e dei suoi incontri. In The Rivers North of the Future, invece, Cayley lascia campo libero a Illich perché egli possa esplorare in profondità lo spazio vasto e complesso dischiuso dalla formula corruptio optimi pessima, cui dieci anni prima aveva accennato due volte nelle interviste raccolte nel presente libro, e che sigilla l’ultima stagione delle sue riflessioni, riconnettendo i suoi argomenti a una dimensione apertamente teologica che per almeno due decenni aveva apofaticamente velato dopo aver rinunciato all’esercizio pubblico del sacerdozio nel 1969, pur rimanendo fino alla fine un prete.

«Non c’è niente di peggio della corruzione del meglio» (infra, capitolo settimo, p. 180): è la sua libera traduzione dell’adagio latino. Verso questa idea convergono le riflessioni che attraversano l’intero arco della sua ricerca circa l’interpretazione degli sviluppi della cultura occidentale come pervertimento del messaggio cristiano. Le istituzioni e le tecnologie moderne, la scuola, gli ospedali, la pianificazione, i trasporti, sono i riti e le liturgie di una religione universale che celebra la società industriale e i suoi miti di sviluppo e di progresso. Attraverso la sua disincarnazione e istituzionalizzazione la Rivelazione diviene un sistema che assicura e garantisce prestazioni, assistenza, servizi e merci. Illich identifica il lungo cammino verso la modernità con questo progressivo disseccamento e rovesciamento dell’amore cristiano in sistema burocratico. Negli anni Settanta, nella sua stagione di massima risonanza, e addirittura di successo internazionale, dopo aver rinunciato al sacerdozio attivo, concentra le sue analisi al di fuori della Chiesa, e passando in rassegna alcuni tra i fattori cruciali della società industriale – tecnologia, scuola, medicina, trasporti, energia – declina questo principio del rovesciamento, che si ritorce contro le finalità originarie, utilizzando due figure diverse e parallele: la nemesi e la controproduttività. La prima è un’immagine che, nel descrivere gli effetti collaterali dello sviluppo, evoca la punizione per la hybris di Prometeo: «La nemesi è diventata strutturale ed endemica. […] I malesseri più diffusi, lo smarrimento e l’ingiustizia di cui soffriamo, sono in gran parte conseguenze non volute di strategie intese a produrre una migliore istruzione, migliori alloggi, una migliore alimentazione, una migliore salute. […] Alla barriera mitologica dovrà sostituirsi una limitazione politica della crescita industriale»6.

Sulla seconda declinazione, la controproduttività, Illich torna a più riprese, dandole il carattere di elemento strutturale e specifico della modernità. Ogni attività intrapresa per raggiungere un fine, passata una determinata soglia di intensità tecnologica, di capitale, di istituzionalizzazione, comincia a produrre effetti opposti a quelli desiderati. «Al pari dell’accelerazione che fa perdere tempo, dell’istruzione che istupidisce, della difesa militare che si autodistrugge, dell’informazione che disorienta, dei piani urbanistici che creano disordine, la medicina patogena è il risultato di una sovrapproduzione industriale che paralizza l’azione autonoma»7. Non c’è bisogno di sottolineare che questa intuizione rimane uno degli strumenti di analisi più imprescindibili per cercare di capire qualcosa del nostro tempo, e che a mezzo secolo dalle sue prime formulazioni ha acquistato una profondità non meno che profetica. Essa contiene la nozione cruciale di soglia, di limite, e pone in termini morali e politici la questione dimensionale, il fattore di scala, su cui molti anni dopo, in queste Conversazioni, Illich ritorna ripetutamente, anche riconoscendo il suo fondamentale debito verso Leopold Kohr. A un tentativo di definizione e valutazione precisa di questa idea di soglia dimensionale massima Illich dedicherà molte energie durante la sua fase più «militante». La necessità di un limite massimo condiviso8 che consenta di rifiutare l’imperativo tecnologico smisurato, l’urgenza di una controricerca che si interroghi su come individuare la soglia massima di sviluppo auspicabile o il limite massimo di velocità negli spostamenti (all’incirca quella della bicicletta), viene ribadita e approfondita a più riprese lungo gli anni Settanta. Vediamo così che, con un rovesciamento paradossale tipicamente illichiano, proprio nello stesso periodo in cui il resto del mondo progressista, rivoluzionario o cristiano si impegna nel contrasto al sottosviluppo dei paesi poveri, Illich si mobilita per additare lo scandalo del sovrasviluppo di quelli ricchi, i suoi letali effetti collaterali e la violenza e l’inganno impliciti nel voler imporre lo stesso fallimentare modello ai primi. È sostanzialmente il proposito su cui aveva fondato il suo quindicennio di lavoro a Cuernavaca, in Messico, prima aprendo il cif e poi il ben più noto cidoc, le cui elaborazioni porteranno Illich a costruire lungo gli anni Settanta i fondamenti di quella che nel suo insieme rimane a tutt’oggi una delle pochissime vere e credibili ipotesi di alternativa alla società industriale, che ancora costituisce una delle sue eredità più preziose per il nostro presente. Egli sostiene che «la crisi planetaria in corso […] ha le sue radici nel fallimento dell’impresa moderna, cioè la sostituzione della macchina all’uomo9», e che – come già avevano sostenuto Weil, Mumford, Anders, Gandhi e altri pensatori refrattari alla civiltà industriale – non c’è reale differenza tra una società capitalista e una collettivista, se sono entrambe fondate sul monopolio radicale dell’industria, sugli stessi dispositivi e sulla medesima tecnica con cui la macchina asservisce l’uomo e l’ambiente. «L’interpretazione esclusivamente industriale del socialismo fa sì che comunisti e capitalisti parlino lo stesso linguaggio, misurino in maniera analoga il grado di sviluppo raggiunto da una società»10. Se «il monopolio del modo di produzione industriale riduce gli uomini a materia prima lavorata dagli strumenti»11, non c’è alternativa che non passi per un’idea alternativa della tecnica e dei suoi modi di impiego. Questa ricerca impegna Illich a lungo: in modo più operativo e propositivo negli anni Settanta, prima di tutto con l’idea di strumento conviviale – «lo strumento veramente razionale [che] genera efficienza senza degradare l’autonomia personale, non produce né schiavi né padroni, estende il raggio di azione personale»12–, con la limitazione dell’energia esogena il più possibile a mero supporto di quella metabolica. E quindi in seguito, nel meraviglioso pamphlet Energy and Equity (qui non bisogna dare troppo retta a Illich quando, nelle pagine di queste Conversazioni, lo maltratta ingiustamente) con la distinzione tra motori dominanti e motori ausiliari. Tutti aspetti in cui la rivendicazione coraggiosamente «anacronistica» dell’irrinunciabile fondamentalità dell’energia metabolica prodotta dal corpo umano rimanda alla centralità della dimensione somatica e sensoriale, su cui torneremo tra poco. Questa ricerca attraversa poi l’intero percorso illichiano e, alla fine degli anni Ottanta, si allarga fino a proporre la necessità radicale di trovare forme alternative all’economia13, una prospettiva in cui è per Illich fondamentale il riferimento a Karl Polanyi, come si vedrà dalle pagine che seguono.

Ma se queste sono alcune delle sue analisi e proposte «tecniche», politiche o pre-politiche, il luogo a cui tornerà sempre, come a una fonte, o a un detonatore, per capovolgere il rovesciamento controproduttivo, per scardinare gli strati di astrazione della corruptio che ha pervertito la celebrazione dell’umano in un «management globale totale» (infra, capitolo decimo, p. 231), è la parabola del Samaritano, o ancora più semplicemente la «storia» del samaritano, come in queste pagine, per togliere fin dall’inizio ogni ammantamento catechistico. «La familiarità […] maschera lo scandalo inaudito del racconto evangelico. Forse l’unico modo in cui oggi potremmo recuperarlo sarebbe di immaginare il Samaritano come un palestinese che soccorre un ebreo ferito. Quello non solo trascura la sua preferenza etnica, che prevede di soccorrere il proprio simile, ma compie anche una sorta di tradimento, aiutando un nemico. Così facendo, esercita una libertà di scelta, la cui radicale novità è stata spesso trascurata»14. Ogni volta che ritorna a questa sorta di epicentro, egli ricorre a tutta la sua enorme capacità di spiazzamento per sgomberare il campo da tutte le incrostazioni, edulcorazioni e astrazioni che si sono depositate su questa vicenda, e rimetterci davanti ai corpi del Samaritano e del «tizio» disteso sul ciglio della sua strada: «Questo non è un rapporto spirituale. Non è una fantasia. Non è semplicemente un atto rituale che genera un mito. Questo è un atto che prolunga l’Incarnazione. […] Elimina dalla storia del Samaritano questa carnosa, corporea, carnale, densa, umorale esperienza del sé, e quindi del Tu, e avrai una bella fantasia liberal, che è qualcosa di orrendo»15. Per Illich, in qualsiasi condizione, di fronte a qualsiasi mutazione, dentro a qualsiasi Absurdistan, rimane sempre la possibilità di «riconoscere, perfino se siamo palestinesi, che c’è un ebreo steso nel fosso che posso prendere tra le mie braccia e stringere a me» (infra, capitolo ottavo, p. 207). Ma dal momento che si fonda sulla dimensione corporea, somatica, sensoriale, questa possibilità viene occultata e schiacciata dalla perdita dei sensi, dalla progressiva virtualizzazione in cui egli riconosce un tratto dominante della tarda modernità. Proprio negli anni in cui sono state raccolte le nostre Conversazioni, periodo che corrisponde a una fase nascente della mutazione informatica, Illich è impegnato a prefigurare gli effetti atrofizzanti sulla percezione del corpo e dei sensi prodotti dalla crescente algoritmizzazione del mondo, fino a quella disincarnazione che, alla luce di ciò che abbiamo visto, per lui costituisce molto semplicemente un tramonto dell’umano.

Alla ricerca delle origini di questo processo di astrazione, con lo studio sul Didascalicon di Ugo di San Vittore egli giunge a osservare nel dodicesimo secolo la soglia in cui inizia ad avvenire il passaggio dalla lettura come pratica vocale e corporea – ad alta voce, in cui Ugo succhia e assapora le parole colte dalla pagina come gli acini d’uva da un filare – alla lettura come attività mentale, e la tecnologia della pagina e del testo si trasforma e si attrezza perché ciò accada. Se la tradizione a cui Illich appartiene originava dal momento in cui il Verbo si era fatto carne, quello in cui la parola inizia il suo percorso di disincarnazione è un punto cruciale.

Siamo qui in una delle zone più dense della ricerca illichiana, in cui si sovrappongono molte delle sue polarità fondamentali (incarnazione e disincarnazione, corpo e cura, oralità/scrittura/alfabetizzazione/scolarizzazione, plurilinguismo e monolinguismo, strumenti e tecnologie), che in più punti si incrociano con la sua stessa biografia (il plurilinguismo, la formazione non scolarizzata, la malattia…). Ed è proprio attorno a questo nucleo denso e fittamente intrecciato che queste Conversazioni costituiscono un documento insostituibile, perché è Illich stesso a condurci da un registro all’altro e a proporre cortocircuiti inattesi tra piani diversi, ma anche per il carattere non scritto bensì verbale del testo, che grazie alla trascrizione quasi letterale effettuata da Cayley, restituisce in tutta la sua singolarità il discorso parlato di Illich. Come più volte egli stesso qui rileva, esso è molto diverso dal suo discorso scritto. Il carattere rapsodico, la ricerca di uno scarto semantico, di uno spiazzamento, che dissipi l’abitudine all’astrazione e dilegui il disseccamento della lingua scolastica, l’attrito prodotto dall’innesto improvviso di termini volgari o ridicoli in contesti eruditi, o viceversa, sono aspetti di un tentativo di risvegliare la lingua dall’appiattimento della «comunicazione», opponendosi alla disincarnazione del linguaggio attraverso la riattivazione di una sua dimensione somatica.

La critica dell’astrazione è uno dei molti temi che legano profondamente Illich a Paul Goodman, certo una delle più fondamentali e meno ricordate tra le tante figure di amici e compagni di strada evocate in queste Conversazioni. Sebbene Illich considerasse l’intellettuale anarchico un «padre spirituale»16, e «uno dei più grandi pensatori» che avesse incontrato (infra, capitolo settimo, p. 168), il breve e affettuoso ricordo che gli viene tributato in queste pagine è una delle poche testimonianze dirette del loro legame, un rapporto di straordinario interesse che rimane in gran parte da ricostruire e approfondire. Non risultano rimandi diretti a Illich negli scritti di Goodman, tuttalpiù il riferimento all’albero di amate sotto il quale amava sdraiarsi a Cuernavaca, durante i suoi soggiorni al CIDOC1717. Mentre Illich si limita a ricordare nella nota introduttiva a Deschooling Society che Goodman è stato, «tra i critici, chi mi ha costretto a una revisione più radicale delle mie riflessioni», e nelle prime righe di Limits to Medicine che il libro sviluppa le ultime conversazioni avute con lui. Comunque sia, l’esigenza di «ripristinare la matrice dell’esperienza primaria in una società tormentata dalle astrazioni politiche, sociali e morali»18, affermata da Goodman, è la stessa che muove Illich.

È in questa chiave che va interpretata la durezza con cui Illich nelle pagine che seguono si rivolge ai movimenti ambientalisti – proprio lui che era un riferimento fondamentale per molti grandi ecologisti, tra cui Wolfgang Sachs e Alex Langer – che già in quegli anni protestano contro il riscaldamento globale (sono «danze della pioggia» [infra, capitolo decimo, p. 246]): si tratta di un invito a uscire dall’astrazione e a entrare in una dimensione di critica più radicale, un invito a rifiutare anche in ambito ecologico l’idea di cura disincarnata e burocratizzata che «mi impedisce di […] andare a incatenarmi alla porta di qualche industria di New York che ha responsabilità nel disastro ecologico del Sahel» (infra, capitolo settimo, p. 183). Nella stessa chiave va vista la sua totale avversione per l’«ipotesi Gaia» di James Lovelock, a cui è dedicata una parte dell’ultimo capitolo, che ai suoi occhi rappresenta l’estensione in versione cibernetica di quell’ideologia di astrazione sistemica che è tra le cause stesse della catastrofe ambientale. La critica illichiana di questa ipotesi è quanto mai attuale, dal momento che c’è chi negli ultimi anni torna a ispirarsi all’ecologismo cibernetico (e nuclearista) di Lovelock.

Di fronte alla densità, singolarità e profondità della sostanza magmatica che qui si è solo frettolosamente evocata, appare piuttosto risibile la disputa affiorata in anni recenti tra chi voglia rivendicare in Illich principalmente un pensatore cattolico e chi invece lo voglia collocare tra i liberi iconoclasti. Il suo itinerario è stato quello di una meteora misteriosa, che ci ha lasciato un’eredità ricchissima e non di rado indigesta (la critica alle vacche sacre della scuola, della medicina, ma anche quella al welfare state; le tesi sulle differenze di genere), che oggi si rivela in tutta la sua profondità.

Quando è stato costretto a definirsi, egli stesso ha sempre usato formule enigmatiche. In queste pagine, per farlo sembra voler usare la poesia di Huidobro: «Io sono un po’ luna e un po’ commesso viaggiatore / La mia specialità è trovare le ore che hanno perduto il loro orologio…» (infra, capitolo ottavo, p. 204). In seguito, nel 1996, dirà: «Sono uno che sta a cavalcioni di una siepe, uno Zaunreiter, che è un vecchio termine per dire stregone. Con un piede sto sul mio terreno, quello della tradizione filosofica cattolica, nella quale più di due dozzine di generazioni hanno devotamente coltivato un giardino i cui alberi sono stati innestati con germogli pagani greci e romani. L’altro piede, quello che penzola all’esterno, è appesantito da zolle di fango e profuma delle erbe esotiche attraverso cui ho vagato»19. Quasi trent’anni prima, riferendosi al CIDOC di Cuernavaca, aveva affermato: «Talvolta ci chiedono cos’è che siamo. Io rispondo che siamo fantasmologi: studiamo i fantasmi della gente»20. E un paio d’anni dopo preciserà: «Penso che quello di cui dobbiamo preoccuparci qui al CIDOC sia di essere degli umoristi. Ossia gente continuamente consapevole dei vincoli e dei limiti delle categorie con cui pensiamo, continuamente cosciente che sviluppando l’immaginazione e osservando i fiori si possa cercare di immaginare un analogo di ogni sistema sociale che sia leggermente stonato, e che perciò ti fa sorridere»21.

L’umorismo è una pietra angolare nascosta del discorso di Illich, e anche in queste Conversazioni lo vediamo sovente riaffiorare in diverse tonalità, dalla scelta di una parola inattesa che perturba il contesto, allo scherzo, alla battuta fulminante. La gamma di atti che va dalla risata al sorriso allo scherzo fa certo parte di quell’insieme di espedienti con cui egli sbaraglia il disseccamento di una comunicazione standardizzata e burocratizzata, ma è anche molto di più. L’hilaritas illichiana è il segno dell’autentica presenza nel qui e ora, la manifestazione di una rivelazione, una celebrazione del presente.

«Da anni mi sottopongo a un test, quando leggo il Vangelo: se sono in grado di sorridere, probabilmente ho capito»22.

L’esperienza mistica «rende più umano chi l’ha fatta, al punto che in seguito questi è in grado di leggere il cuore altrui e sorridere in modo speciale»23.

«L’unica maniera per invertire la disastrosa tendenza a un crescente sottosviluppo, per difficile che sia, è di imparare a ridere delle soluzioni comunemente accettate, così da modificare le domande che le rendono necessarie»24.

«Ho sempre pensato che se dovevo intervenire in controversie pubbliche, l’unico tipo di violenza intenzionale che potevo utilizzare era di demolire le bugie con le risate» (infra, capitolo secondo, p. 68).

Qualcosa di simile avviene forse in Elsa Morante laddove, di fronte allo «scandalo che dura da diecimila anni» de La storia, gli uccellini tornano a ricordare a Useppe che «È uno scherzo / uno scherzo / tutto uno scherzo!»25. Così come Heinrich Böll, a proposito dell’umorismo di Dickens, ci ricorda che egli «aveva occhi eccellenti, gli occhi di un uomo che, di norma, non sono del tutto asciutti ma nemmeno bagnati, bensì un poco umidi: e in latino umidità si dice humor»26, spesso nell’umorismo di Illich il riso è in qualche modo contiguo al pianto: «Da questa situazione scaturisce l’esperienza delle benedizioni, il cui spettro si estende dalle altezze del riso alla profonda amarezza delle lacrime»27.

«Illich paragona più volte», ha scritto di recente Giorgio Agamben, «la presenza del regno (scritto significativamente con la minuscola) alla comprensione di una barzelletta o di uno scherzo: il credente e il non credente, egli scrive, sono come due uomini che ascoltano una barzelletta: ‘Tutti e due capiscono il senso delle parole, ma solo uno ride, e cioè capisce la storia’. L’esperienza dell’evento del regno non implica per Illich – secondo il paradigma che ha dominato la politica occidentale, compresa quella della Chiesa – un ulteriore evento storico da realizzare nel futuro. Essa coincide integralmente con l’istante presente, in cui colui che ha compreso l’annuncio ne testimonia ridendo»28.

Note all’Introduzione


  1. Ivan Illich, The Rivers North of the Future, The Testament of Ivan Illich as told to David Cayley, Anansi Press, Toronto, 2005 [trad. it. I fiumi a nord del futuro. Testamento raccolto da David Cayley, Quodlibet, Macerata, 2009].↩︎

  2. Franco La Cecla, Ivan Illich e l’arte di vivere, elèuthera, Milano, 2018.↩︎

  3. Ivan Illich, The Cultivation of Conspiracy, in Lee Hoinacki, Carl Mitcham (ed.), The Challanges of Ivan Illich, State University of New York Press, Albany (ny), 2002.↩︎

  4. https://www.pudel.samerski.de/archiv/652en_hb_ws02_03.html.↩︎

  5. Ivan Illich, Préface, in La Perte des sens, Fayard, Paris, 2004 [trad. it. La perdita dei sensi, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 2009]↩︎

  6. Ivan Illich,Limits to Medicine. Medical Nemesis: the Expropriation of Health, Marion Boyars, London, 1976 [trad. it. Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Mondadori, Milano, 1977].↩︎

  7. Illich, Limits to Medicine, cit.↩︎

  8. Valentina Borremans, Ivan Illich, La necesidad de un techo común; el control social de la tecnología, in Ivan Illich, Obras reunidas, vol. I, Fondo de Cultura Economica, México df, 2006 [trad. it. La necessità di un limite massimo condiviso, in Ivan Illich, Celebrare la consapevolezza, vol. I, Opere complete, a cura di Fabio Milana, Neri Pozza, Vicenza, 2020].↩︎

  9. Ivan Illich, Tools for Conviviality, Harper and Row, New York, 1973 [trad. it. La convivialità, Mondadori, Milano, 1974].↩︎

  10. Illich, Tools for Conviviality, cit.↩︎

  11. Illich, Tools for Conviviality, cit.↩︎

  12. Illich, Tools for Conviviality, cit.↩︎

  13. Ivan Illich, Alternatives to Economics: Toward a History of Waste, in In the Mirror of the Past, Marion Boyars, New York-London, 1992 [trad. it. Alternative all’economia, in Nello specchio del passato, Red, Como, 1992].↩︎

  14. Illich, The Rivers North of the Future, cit.↩︎

  15. Illich, The Rivers North of the Future, cit.↩︎

  16. Si vedano le parole di Illich riportate in Bernard Vincent, Paul Goodman, prophète du présent. Un precurseur d’Ivan Illich, «Esprit», ottobre 2004. Tra le poche altre sue testimonianze su Goodman, si veda anche l’intervista a Illich raccolta da Francesco Codello e pubblicata su «A rivista anarchica», a. X n. 3, aprile 1980.↩︎

  17. Paul Goodman, Little Prayers and Finite Experience, Harper and Row, New York, 1972.↩︎

  18. Goodman, Little Prayers and Finite Experience, cit.↩︎

  19. Ivan Illich, Philosophy… Artifacts… Friendship, discorso tenuto il 23 marzo 1996 a Los Angeles, diffuso in rete dall’Università di Brema https://www.pudel.samerski.de/pdf/Illich96PHILARPU.pdf.↩︎

  20. Intervista a Ivan Illich, The Meaning of Cuernavaca, «Jesuit Mission», vol. 41, aprile 1967 [trad. it. Il senso di Cuernavaca, in Illich, Celebrare la consapevolezza, cit.].↩︎

  21. Wayne H. Cowan, An Interview with Ivan Illich, in «Christianity and Crisis», vol. 29, 4 agosto 1969 [trad. it. Celebrare il cambiamento, in Illich, Celebrare la consapevolezza, cit.].↩︎

  22. Ivan Illich, Concerning Aesthetic and Religious Experience, in The Powerless Church and Other Selected Writings, The Pennsylvania State University Press, University Park (pa), 2018 [trad. it. Su esperienza estetica ed esperienza religiosa, in Illich, Celebrare la consapevolezza, cit.].↩︎

  23. Illich, Concerning Aesthetic and Religious Experience, cit.↩︎

  24. Ivan Illich, Outwitting the «Developed» Nations, in Towards a History of Needs, Pantheon Books, New York, 1978 [trad. it. Superare i paesi sviluppati, in Ivan Illich, Per una storia dei bisogni, Mondadori, Milano, 1981].↩︎

  25. Elsa Morante, La storia, Einaudi, Torino, 1974.↩︎

  26. Heinrich Böll, Bekenntnis zur Trümmerliteratur, in Erzählungen, Hörspiele, Aufsätze, Kiepenheuer & Witsch, Köln, 1961 [trad. it. Adesione alla letteratura delle macerie, in Rosa e dinamite, Einaudi, Torino, 1979].↩︎

  27. Illich, Alternatives to Economics, cit.↩︎

  28. Giorgio Agamben, Prefazione, in Illich, Celebrare la consapevolezza, cit.↩︎