Stefano Boni
2022-10-11
INDICE DEL LIBRO:
Questo saggio esplora i rapporti tra culture (ovvero forme parzialmente standardizzate di condotta e pensiero), antropologie (ovvero discorsi sull’umanità) e poteri. Il potere, in una sua prima accezione, esprime la facoltà di fare. Nella gamma di possibilità del fare, rientra il far fare, ovvero il soggetto può intervenire in una relazione per condizionare la condotta altrui, ed è questo significato più ristretto che ha caratterizzato lo studio del potere nelle scienze sociali. Potere è un termine che, in una definizione enciclopedica, designa infatti la facoltà di qualcuno, colui che esercita potere, di produrre un comportamento in qualcun altro, colui che lo subisce; quest’ultimo, senza l’atto di potere, si sarebbe comportato diversamente. Lukes [1996: 723; cfr. 2005] intende l’esercizio del potere, in un significato ampio, come la capacità attiva di provocare effetti rilevanti, intenzionali e in linea con gli interessi di chi lo esercita, mentre «nell’accezione ristretta di potere, un agente sociale ha potere su un altro o su altri quando è in grado di assicurarsi la loro obbedienza limitandone la libertà». I meccanismi, ovvero le azioni concrete attraverso le quali il potere si dispiega, sono inseribili nelle rubriche di «forza», «coercizione», «manipolazione» e «influenza», coprendo uno spettro delimitato dall’imposizione, da un lato, e dalla persuasione razionale, dall’altro, passando per l’autorità.
Fino agli anni Settanta, se il processo di socializzazione non assumeva una dimensione esplicitamente repressiva, raramente si riteneva lecito utilizzare il concetto di potere per descrivere l’influenza del contesto sociale sul singolo [Fardon 1985a]. La continua definizione e trasformazione di specifiche configurazioni culturali era considerata il frutto dell’inevitabile produzione di diversità umana: di conseguenza, la «cultura» era raramente pensata come il prodotto di operazioni «politiche». L’ambito del potere era piuttosto studiato come una sfera, un dominio, un settore della cultura, quello delle istituzioni politiche. La politica nella cultura era individuata, a seconda dei contesti, nella ritualità divina, nelle assemblee comunitarie, nell’amministrazione dello Stato, nell’organizzazione della violenza interna (poliziesca) ed esterna (militare), nelle dinamiche di affiliazione ai partiti, nei comizi dei politici professionisti. Il concetto di potere era utilizzato quasi esclusivamente nell’analisi della sfera riconosciuta come politica, non ritenendolo adatto a caratterizzare la standardizzazione che ogni circuito culturale a volte propone, altre volte impone, a chi vi partecipa o vi transita. Eppure, il condizionamento generato dall’interazione in un gruppo è un’indiscutibile e potentissima influenza sulla vita del singolo e, come abbiamo visto, la definizione di «potere» comprende, nella sua accezione più ampia, il condizionamento.
Quale potere [è] maggiormente incisivo – quale potere più forte e imponente – di quello che riesce a mettere le mani sulle forme di umanità, a decidere e imporre un particolare tipo di foggiatura umana? [Remotti 2000: 53]
Espresso in altri termini, dallo stesso autore, «la cultura è modificazione della natura, e il potere è modificazione della vita sociale» [Remotti 1993: 48].
Questo testo è un’introduzione generale, seppur arricchita da approfondimenti etnografici, ai rapporti tra antropologie e poteri. Ha il taglio di un manuale nel senso che illustra le considerazioni di autorevoli pensatori che hanno affrontato tale questione. Si distingue, tuttavia, dai compendi di antropologia politica per diverse ragioni. Primo, il corpus di studi qui preso in rassegna – attento alla dimensione politica del condizionamento culturale ordinario e quotidiano – è, in genere, trattato brevemente dalla maggior parte dei manuali e delle rassegne di saggi disponibili in italiano, centrati sulle forme istituzionali di potere [Mair 1962; Balandier 1967; Service 1971; Lewellen 1975; Fabietti 1991; Li Causi 1993; Wolf 1994]. Secondo, il testo prende spunto da diverse discipline all’interno delle scienze sociali, cercando di mostrare convergenze nelle analisi di antropologi, storici, politologi e sociologi. Terzo, non si limita a un’esposizione del sapere consolidato: fa dialogare gli spunti di affermati studiosi con itinerari di riflessione di mia formulazione; questo percorso ha richiesto di ridefinire alcuni dei concetti-chiave – standardizzazione, selezione, dominio pubblico – nell’analisi di quello che ho chiamato sociopotere. Infine, il testo, a differenza della maggior parte dei trattati introduttivi di antropologia politica, non è organizzato né cronologicamente (per «scuole» disciplinari), né adotta un taglio «tassonomico-evoluzionista» (centrato su una rassegna dei diversi tipi di istituzioni politiche, dalla banda allo Stato, cfr. Service 1971). L’esposizione è piuttosto finalizzata a valutare il peso delle dinamiche di potere nel processo di standardizzazione, ovvero nel dispiegamento dei circuiti culturali Scheda 1. Culture e circuiti culturali.
Indico al lettore, fin da ora, i passaggi principali del testo per anticipare lo schema espositivo e facilitare la lettura. Nella prima e seconda parte vengono approfondite tre questioni cruciali che delineano il quadro teorico proposto. Il primo ambito di riflessione riguarda il processo di selezione di ciò che entra a far parte della cultura: alcune prassi diventano diffuse, accettate, legittime; altre, invece, rimangono marginali; altre ancora, che erano state comuni, scompaiono. La nozione di potere è adatta a descrivere questi processi di produzione delle abitudini prevalenti, ovvero di vaglio di ciò che diventa condotta diffusa e senso comune o, piuttosto, dobbiamo considerare «spontanei» questi processi, ovvero privi di un’agenzia politica? Il secondo approfondimento concerne il grado di standardizzazione presente nelle diverse culture, ovvero quanto le soggettività siano vincolate alle norme dominanti – considerate giuste, legittime, sacre – o quanto invece siano libere di sperimentare vissuti che sovvertono gli orientamenti prevalenti. I processi di standardizzazione della prassi sono egualmente pervasivi e costrittivi nelle diverse società o possono essere più o meno marcati, lasciando più o meno autonomia alle divergenze soggettive? Il terzo campo di riflessione in merito al rapporto tra culture e poteri riguarda la distribuzione del protagonismo nella formulazione delle regolamentazioni collettive. Ogni circuito culturale esercita una qualche forma di controllo su ambiti che, si ritiene, interessino la comunità, e in particolare sui processi comunicativi, organizzativi e deliberativi. Le procedure decisionali che determinano l’estensione di tali ambiti, i loro contenuti e le forme di sanzione ritenute appropriate per salvaguardarne le caratteristiche, possono essere considerati espressioni di potere?
Avendo discusso il quadro teorico in astratto e avendolo applicato a diversi circuiti culturali, nella terza parte gli strumenti analitici vengono applicati all’Italia contemporanea. Oggi, lo studio della politica in Italia rivela una cesura tra il campo del politico definito dai mass-media, e sostanzialmente recepito dal corpo sociale, e il potere effettivamente attivato nella società per plasmare la cultura. Se nella terza parte la teoria viene applicata a quello che viviamo nel periodo attuale, nella quarta il dispiegamento del potere viene esaminato, con un’ottica comparativa, nella capacità di indirizzare le credenze di senso comune sul comportamento umano. Le rappresentazioni di cosa siano i diversi gruppi che compongono la società e come possano essere descritti e classificati vengono esaminate come potenti forze di condizionamento sociale, strettamente legate al processo di politicizzazione della cultura. La forza di tale influenza appare ancora più evidente quando si nota che tali discorsi di senso comune propongono rappresentazioni sistematicamente distorte, banalizzate, stereotipate e falsate dei processi sociali.