2022-09-05
traduzione di Alberto Prunetti.
INDICE DEL LIBRO:
Il testo che avete in mano è un compendio sintetico e leggibile di uno dei più importanti scienziati sociali contemporanei. Gli scritti di David Graeber (1961-2020) hanno spaziato sulle tematiche più disparate: il valore, lo scambio e il debito (2001, 2011, 2017b); la democrazia intesa come storia e uso del termine (2012a, 2013); le politiche dal basso contemporanee e l’uso dell’azione diretta (2009, 2012b); la regalità, in particolare quella divina (Graeber e Sahlins 2017a); la burocrazia e l’inibizione della creatività interpretativa (2015); i lavori contemporanei e la loro utilità (2018); l’emergere delle disuguaglianze nel Neolitico (Graeber e Wengrow 2021); la creatività delle forme orizzontali di organizzazione, cui sarà dedicato un approfondimento nella seconda parte della prefazione. Questo libro discute tutti i temi citati perlustrando in modo trasversale l’intera produzione di Graeber, dai suoi esordi fino agli ultimi scritti. È un testo che a un lettore non avvezzo alle riflessioni dell’autore offre un utile sguardo retrospettivo in grado di riassumere in modo sintetico e provocatorio molti dei principali spunti contenuti nelle varie opere monografiche. A un lettore che già conosce alcuni degli scritti di Graeber permette di apprezzare gli aggiornamenti di certe tesi rispetto alla loro formulazione originaria, l’ampliamento di certi passaggi con nuove riflessioni o con documentazione inedita, l’applicazione di concetti e interpretazioni al vissuto mediante aneddoti o riferimenti storici. Spesso la trattazione dei singoli temi prende la forma di accenni, bozze, piste; a volte il lettore rimane sospeso e gradirebbe un approfondimento che troverà nelle opere tematiche, più rigorose e profonde nella loro argomentazione.
Quest’opera è innovativa perché adotta un metodo dialogico che coinvolge oltre a Graeber altre tre persone che si stimolano intellettualmente in maniera vicendevole e spesso feconda. La produzione di conoscenza è qui proposta come frutto di confronto e crescita nella differenza piuttosto che come un prodotto autoriale, emanazione di un singolo. Graeber spiega nella chiusura di queste conversazioni che alimentare dialoghi è un processo anarchico in quanto riconosce le potenzialità della cooperazione tra pari: «In questo senso il dialogo è l’elemento fondativo su cui si può costruire [l’anarchismo]. È una forma che consente l’emergere di pensieri che nessun individuo da solo avrebbe mai potuto avere, e in definitiva l’anarchia è proprio questo» (infra, p. 247).
Il principale pregio degli scritti di Graeber è la sua capacità di sconvolgere sedimentate letture dei fenomeni sociali con tesi a una prima lettura scandalose ma che risultano convincenti o per lo meno stimolanti una volta seguita la sua sapiente argomentazione. Le proposte ermeneutiche possono essere ritenute più o meno convincenti, ma difficilmente lasciano indifferenti. L’intento è quello di erodere verità egemoniche (coloniali, classiste, maschiliste, statali, finanziarie, accademiche, ecc.) facendole apparire, se non assurde, arbitrarie e al contempo di ampliare lo spettro del pensabile (2007): esemplificative in tal senso la corrosiva critica allo scontro di civiltà formulato da Huntington (2012a) oppure la messa in discussione della tesi che i debiti vadano sempre saldati (2011). In questa impresa sovversiva, i grimaldelli di Graeber sono concetti-chiave personalizzati, piegati o rielaborati per consentire inedite e fertili perlustrazioni teoriche. Per Graeber (2015) le «zone morte dell’immaginazione» sono le ottusità prodotte dall’anonima procedura burocratica che rende impossibile una dialettica interpretativa. La nozione di «comunismo della vita quotidiana» o «comunismo di base» permette di traghettare il «comunismo» oltre le rigidità dell’ideologia a cui è associato, riconoscendolo in forme tangibili di collaborazione comunitaria, solidarietà tra vicini e cooperazione ordinaria (2011; infra, pp. 62-63, 246). La sedicente «democrazia» delle repubbliche elettorali contemporanee viene decostruita minuziosamente nella sua genealogia storica per mostrare l’uso distorto e svilente del concetto proposto oggi dai governi e dalle scienze politiche (2012a; infra, pp. 69-73). L’«azione diretta», in genere intesa come modalità di conflitto nelle mobilitazioni, viene ridefinita come condotta che procede «come se lo Stato non esistesse»; o detto altrimenti «agire come se si fosse già liberi» (2009, p. 203; infra, p. 246). L’organizzazione aziendale contemporanea, che si presenta come se fosse fondata su un meritocratico efficientismo produttivo, viene ridicolizzata come «feudalesimo manageriale», associandola a una nozione collocata nel Medioevo: la disamina dell’odierna simbologia gerarchica professionale spiega perché molti di noi sono pagati per svolgere mansioni assolutamente inutili (2018). In queste conversazioni Graeber propone di sondare le possibili implicazioni rivoluzionarie di ripensare l’economia non come produzione ma come etica della cura (infra, pp. 57-59, 107-110, 184-186).
Per comprendere e valutare la figura di Graeber non si può tacere sulla sua dichiarata simpatia anarchica: la sua carriera accademica e il percorso scientifico entrano in sinergia – e a volte confliggono – con il suo impegno militante. Ricordiamo l’allontanamento dalla Yale University nel 2007, riconducibile a una personalità poco disciplinabile e al suo impegno in difesa di studenti attivisti; da allora non troverà più impiego nelle università statunitensi. Le opere che hanno reso noto Graeber sono quelle in cui miscela sapientemente riflessioni politiche e sapere antropologico e in particolare Frammenti di antropologia anarchica e Possibilities: Essays on Hierarchy, Rebellion, and Desire. Oltre a sistematici interventi nel dibattito pubblico, l’impegno politico di Graeber è stato anche pratico e tangibile: «Un bel pezzo della mia vita l’ho speso all’interno di gruppi organizzati su principi anarchici» (infra, p. 22). È presente nelle assemblee organizzative e nelle mobilitazioni di inizio millennio in Nord America e diventa uno dei principali promotori del movimento Occupy nel 2011, contribuendo a formulare uno degli slogan più amati dai manifestanti: «Siamo il 99%» (infra, p. 106); agisce come portavoce del movimento nei media mainstream per denunciare le ipocrisie del sistema elettorale e al contempo produce come ricercatore una documentazione etnografica ricca e dettagliata sulla pratica assembleare degli attivisti (2009). Ultimamente seguiva con attenzione i movimenti nascenti come Extinction Rebellion e i Gilet Gialli, oltre a sostenere apertamente la rivoluzione nel Rojava siriano (infra, p. 226). La biografia politica innesca e struttura ricerche, teorie e pubblicazioni (2012b, 2013, 2015).
Il testo che avete in mano nasce dall’idea di Mehdi Belhaj Kacem e della collana «Anarchies» di problematizzare «il concetto di anarchia in molteplici sfere […]. Ma per mettere in discussione questo concetto nella sfera che forse abbraccia tutte le dimensioni appena evocate, vale a dire la sfera politica, ho pensato che al mondo non ci fosse interlocutore migliore di te, David» (infra, p. 21). In effetti Graeber ha offerto numerosi spunti innovativi sia rispetto a quelle che in antropologia sono state spesso denominate società «acefale» o «senza Stato», sia rispetto alla genealogia dell’anarchia atlantica contemporanea. Di seguito illustro quelle che mi paiono le riflessioni più interessanti sui contesti caratterizzati da uno spiccato egualitarismo e da un ridotto utilizzo di mezzi di coercizione sociali in modo da offrire al lettore alcuni strumenti per comprendere più agevolmente taluni passaggi.
Graeber (2004a, p. 25) esplora le dinamiche politiche in contesti in cui «il mantenimento dell’ordine sociale [avviene] al di fuori delle strutture dello Stato», distinguendo tre forme di accezioni del termine anarchico. Come «dottrina e […] visione delle possibilità umane» è un discorso proposto dai «padri fondatori» in Europa a partire dall’Ottocento; come «atteggiamento» si esprime invece in ribellioni, diffuse su tutto il globo, che «rifiutavano l’autorità dei governi e ritenevano auspicabile un mondo senza gerarchie»; infine, si concretizza come «istituzioni, usanze e pratiche […] caratterizzate da forme egualitarie di organizzazione». Il modo migliore di pensare l’anarchismo è «proprio come il movimento dall’una all’altra di queste realtà […] una relazione, un processo di purificazione, ispirazione e sperimentazione» (2009, pp. 39-41). O detto altrimenti in questo libro:
L’anarchia non è un atteggiamento, non è una visione, non è neanche un insieme di pratiche: è un processo in continuo movimento tra queste tre cose. Quando un gruppo di persone si oppone a una determinata forma di dominio, e questo li induce a immaginare un mondo senza quel dominio, e tutto ciò a sua volta li porta a riesaminare e cambiare le loro relazioni reciproche… questa è l’anarchia, che vogliate o meno affibbiarle un nome e qualsiasi sia quel nome (infra, p. 31).
Sebbene Graeber insista a più riprese sulla centralità dell’«ethos egualitario» (2004a, pp. 40-41; cfr. 2009) nelle varie forme di anarchismo, correttamente nota che
nessuna di queste società [quelle che adottano modi di vita anarchici] è completamente egualitaria: rimangono sempre alcune forme di dominio, quanto meno quelle dei maschi sulle femmine e degli anziani sui giovani. La natura e l’intensità di queste forme varia enormemente.
L’anarchia è quindi una tendenza mai pienamente realizzabile. Quello che interessa a Graeber (2004a, pp. 32, 33) non è esaltare un ideale utopico di anarchia ma riconoscere la continua tensione espressa da chi non vuole «concedere ad altri il potere di minacciarli fisicamente se non fanno ciò che viene loro ordinato». Caratterizzata in negativo, l’anarchia è quindi «il rifiuto assoluto di ogni forma di bullismo» (infra, p. 204); definita in positivo, è la volontà di praticare «auto-organizzazione, associazione volontaria, mutuo appoggio» (2012a, p. 31), o detto in modo sintetico: «La cosa migliore è chiamarle semplicemente ‘società libere’» (infra, p. 157).
Per Graeber l’anarchia è incompatibile con forme di governo e pianificazione centralizzata: è quindi negli interstizi fuori dal controllo di istituzioni autoritarie che l’egualitarismo può esprimersi al meglio e consolidarsi come modo di vita, proponendo «valori di tolleranza e di mutuo accordo […] sorti in un complesso spazio interculturale esterno a un qualsivoglia potere statale» (2012a, pp. 70-71). Per Graeber (2004a, p. 81), la storia è costellata di queste «piccole utopie […] marginali»: si tratta di «oasi» commerciali nell’Oceano Indiano, ma anche di città portuali atlantiche in cui «trova rifugio […] un gruppo eterogeneo di liberti, marinai, prostitute, rinnegati, antinomiani e ribelli» (2012a, pp. 81, 85); di navi pirata e zone forestali come l’Amazzonia di Lévi-Strauss e Clastres o del Chiapas contemporaneo; di frontiere e in particolare di quella nord-americana, dove tra Seicento e inizio Settecento interagiscono orizzontalmente coloni e indiani, ma anche della costa del Madagascar nord-orientale dove si ibridano pirati e comunità malgasce (2020a). Anche lì dove Stato e Capitale prevalgono in modo pervasivo, come oggi su gran parte del globo, spazi di anarchia interstiziali e fuggevoli si ripropongono ostinatamente come insieme di valori messi in pratica quotidianamente (2004a, pp. 44-45; 2009).
In contesti anarchici il rapporto tra parti e tutto, tra componenti sociali e visione di insieme, non si struttura sull’identità ma sulla differenza: «[nelle assemblee] non cerchi di spingere le persone verso una definizione comune della realtà, bensì ti muovi a partire dall’ipotesi che le prospettive di ognuno sono in certo modo incommensurabili. Il che è una cosa positiva, perché le differenze di questo tipo sono di per sé un valore» (infra, pp. 59-60). L’anarchia delle mobilitazioni contemporanee è presentata come «una miriade di comunità, associazioni, reti, progetti, su scala quanto mai variata, che si sovrappongono e intrecciano in ogni maniera immaginabile» (2004a, p. 52). Non si tratta quindi di essere tutti uguali ma di riconoscere l’irriducibile diversità dell’umano, e di conseguenza pensarlo come di pari valore: «La diversità era funzione della forma decentrata di organizzazione, e questa forma di organizzazione era l’ideologia stessa del movimento» (2004a, p. 107). Liberata da forme di categorizzazione statale, da un governo che classifica il reale in cerca di dati su cui tarare pianificazioni centralizzate, la produzione di affinità assume un carattere transitorio e caotico. La dinamica politica anarchica quindi richiede e genera «spazi di improvvisazione interculturale» (2012a, p. 80), intesi come fecondo e pacifico meticciato, fluida ibridazione e frammentazione nel molteplice: «In un processo decisionale consensuale non cerchi di spingere le persone verso una definizione comune della realtà […]. Ed è questo per me l’anarchismo: una comunità di scopo senza una comunità di definizione» (infra, pp. 59-60, 61).
Questa dinamicità identitaria, restia a essere incasellata in etichette, permane nel terzo millennio. Graeber nota che non solo il movimento anarchico (inteso come dottrina) – a differenza di quello marxista che distingue le sue correnti in base all’identificazione in un leader (stalinisti, maoisti, leninisti, trotzkisti, ecc.) – si frammenta su linee tematiche o programmatiche (anarco-sindacalisti, primitivisti, individualisti, ambientalisti, ecc.), ma che la maggior parte degli attivisti tende a percepirsi come «anarchici con la a minuscola», ovvero riluttanti ad affiliazioni settarie e proprio per questo in grado di promuovere momenti assembleari inclusivi (2004a, 2009). Si è anarchici se e quando si portano avanti i principi di uguaglianza e libertà fondati sull’auto-determinazione del singolo: ciò comporta riconoscere come pratiche anarchiche anche esperienze proposte da chi non si identifica con tale etichetta.
Una delle caratteristiche distintive dell’anarchismo è l’attenzione alla radicale diffusione del potere nei processi decisionali, che spesso prendono la forma di assemblee sostenute da un’estesa partecipazione inclusiva. Descrivendo l’emergere della pratica di democrazia diretta sulle navi e negli insediamenti pirata di inizio Settecento, Graeber (2012a, p. 79) nota che l’incontro di tradizioni diverse permette il consolidamento di processi assembleari:
C’erano verosimilmente conoscenze di prima mano su un’ampia gamma di istituzioni basate sulla democrazia diretta, che andavano dai things svedesi alle assemblee di villaggio africane e ai consigli dei nativi americani come quelli che avrebbero portato alla Lega delle Sei Nazioni.
La confederazione che si afferma nel Madagascar nord-orientale adotta come forma organizzativa assemblee dette kabary che ibridano pratiche ed elementi simbolici autoctoni e pirati (2020a). L’assemblea è lo strumento che permette – spesso unendo sensibilità che bilanciano raziocinio ed emozioni – di promuovere decisioni collettive e di disinnescare i conflitti:
Queste società anarchiche non ignorano la propensione umana alla vanità e alla rapacità, non più di quanto gli americani contemporanei ignorino la propensione umana all’invidia, all’ingordigia o all’infingardaggine. Molto semplicemente, non reputano questi sentimenti un buon fondamento per la loro civiltà. Di fatto considerano questi fenomeni moralmente pericolosi e dunque organizzano gran parte della loro vita sociale intorno a un progetto teso a limitarne i danni (2004a, pp. 33-34).
I presupposti alla base dell’organizzazione assembleare sono, da un lato, il ripudio dell’individualismo esasperato e, dall’altro, la «reale convinzione che la gente comune, seduta insieme a deliberare, sia capace di gestire le proprie faccende meglio delle élite che le gestiscono a loro nome e che impongono le decisioni prese con la forza delle armi» (2012a, p. 106). La procedura su cui convergono i processi assembleari egualitari è la lenta costruzione del consenso, attraverso la mediazione e la negoziazione pubblica, «finalizzate a trasformare questa agitazione in quelle situazioni sociali (o, se preferite, in quei valori) che la società considera più desiderabili: convivialità, unanimità, fertilità, prosperità, bellezza […] comunque le si voglia chiamare» (2004a, pp. 47-48).
Uno dei temi su cui Graeber ha più insistito è stata l’incompatibilità tra Stato burocratico retto da un sistema elettorale repubblicano e democrazia diretta, sinonimo di anarchia. Questo distinguo attraversa molte delle opere di Graeber tra il 2002 e il 2013 quando un’ondata di movimenti portavano a maturazione la critica all’interpretazione istituzionale della democrazia (2012a, 2012b, 2013; Grubačić e Graeber 2004b). Negli scritti è palpabile un entusiasmo inaspettato nel vedere che varie mobilitazioni in giro per il mondo convergono su un’organizzazione interna costituita da «reti orizzontali […] fondate sui principi di una democrazia decentrata, non gerarchica e consensuale» (2002, p. 70).
Un tratto ricorrente dell’opera di Graeber (2002, 2004a, 2007, 2012a, 2020a) è mostrare come istituzioni, valori e dottrine nobilitanti di cui «l’Occidente» rivendica la paternità (quali la democrazia, la tolleranza, la libertà e l’Illuminismo), siano state innescate da interazioni tra diverse tradizioni culturali. Questo fertile dialogo è spesso negato in ricostruzioni storiche parziali, se non faziose, che tendono a presentare le innovazioni moderne come frutto di genealogie culturali «pure». Graeber (2009; infra, pp. 73-86) mette in discussione un approccio coloniale anche all’anarchismo inteso come innovativa ideologia politica atlantica, notando che un egualitarismo libertario si era già abbondantemente espresso in ribellioni e prassi culturali ordinarie che avevano assunto forme culturalmente variegate e storicamente sedimentate:
Molti storici dell’anarchismo […] presentano l’anarchismo come il parto delle menti di alcuni pensatori del XIX secolo – Proudhon, Bakunin, Kropotkin, ecc. – che ha poi ispirato le organizzazioni operaie […]. I «padri fondatori» del XIX secolo non pensavano peraltro di avere inventato niente di nuovo. I principi fondamentali dell’anarchismo – l’autogestione, l’associazione volontaria e il mutuo appoggio – facevano riferimento a forme del comportamento umano che erano considerate vecchie quanto l’umanità (2004a, pp. 8-9).
Il nesso tra creatività interculturale e anarchismo viene riproposto in varie declinazioni per contrastare un persistente eurocentrismo che riconduce le innovazioni più feconde sempre all’«Occidente». Il passo successivo è ammettere che, ad esempio per quel che riguarda le procedure assembleari, abbiamo tratto ispirazione da chi aveva più pratica ed esperienza. Con riferimento all’internazionalizzazione delle mobilitazioni di inizio millennio nota:
C’è un contrasto evidente tra l’internazionalizzazione attuale e quelle precedenti. Quelle passate normalmente esportavano modelli organizzativi occidentali al resto del mondo; in questa il flusso è stato in direzione opposta. Molte, forse la maggior parte delle tecniche caratteristiche – tra cui la stessa disobbedienza civile – sono state per prima sviluppate nel Sud globale (2002, pp. 65-66).
Gli spunti che Graeber ci lascia sull’anarchia sono frutto di un pensiero-azione in continua implementazione e correzione, impedendo qualsiasi teoria forte dell’anarchia, come destino, identità pura, perfezione o anche solo come forma di organizzazione totalitaria. Le riflessioni qui contenute hanno il pregio di esemplificare la coerenza tra il contenuto, ovvero l’anarchia come frutto di una creatività interculturale, e il metodo sperimentale e polifonico che ha generato il libro che avete in mano.
Bibliografia essenziale di David Graeber
2001, Toward an Anthropological Theory of Value: The false coin of our own dreams, Palgrave, New York. 2002, The new anarchists, «New Left Review», 13, pp. 61-73. 2004a, Frammenti di antropologia anarchica, elèuthera, Milano, 2020. 2004b, con Andrej Grubačić, Anarchism, or the revolutionary movement of the 21th century, «Znet». 2007, Possibilities: Essays on Hierarchy, Rebellion, and Desire, ak Press, Oakland. 2009, Rivoluzione: istruzioni per l’uso, Rizzoli, Milano, 2012. 2011, Debito. I primi 5000 anni, il Saggiatore, Milano, 2012. 2012a, Critica della democrazia occidentale, elèuthera, Milano, 2019. 2012b, La rivoluzione che viene. Come ripartire dopo la fine del capitalismo, Manni, Lecce, 2012. 2013, Progetto democrazia. Un’idea, una crisi, un movimento, il Saggiatore, Milano, 2014. 2015, Oltre il potere e la burocrazia. L’immaginazione contro la violenza, l’ignoranza e la stupidità, elèuthera, Milano, 2013. 2017a, con Marshall Sahlins, Il potere dei re. Tra cosmologia e politica, Cortina, Milano, 2019. 2017b, «Introduzione» in Marshall Sahlins, L’economia dell’età della pietra, elèuthera, Milano, 2020, pp. 7-21. 2018, Bullshit Jobs, Garzanti, Milano, 2018. 2020a, L’utopia pirata di Libertalia, elèuthera, Milano, 2021. 2021, con David Wengrow, L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità, Rizzoli, Milano, 2022.