Educare meno, educare tutti

Prefazione a ‘L’educazione libertaria’

Marcello Bernardi

2021-05-11

traduzione di Rossella Di Leo.

INDICE DEL LIBRO:

Prefazione Educare meno, educare tutti di Marcello Bernardi // Introduzione // CAPITOLO PRIMO La critica radicale della scolarizzazione // CAPITOLO SECONDO Padroni di se stessi // CAPITOLO TERZO La crescita della coscienza // CAPITOLO QUARTO La rivoluzione sessuale e Summerhill // CAPITOLO QUINTO Liberare il bambino dall’infanzia // CAPITOLO SESTO Realtà presenti e prospettive future // Postfazione Le sfide dell’educazione libertaria oggi di Francesco Codello

Per educazione si intende comunemente quel complesso di operazioni dirette a fornire a una persona, di solito al bambino, tutte le informazioni e le norme che lo rendano adatto a vivere secondo i suggerimenti e le esigenze del costume in cui quella persona è inserita. Scopo dell’educazione dunque non è quello di far evolvere un individuo verso la propria realizzazione e quindi renderlo felice, ma di far sì che l’individuo si adatti a quel tanto di infelicità che gli viene imposto da un sistema dato e considerato immutabile. In altri termini, come direbbe Marcuse, l’educazione tende a fare in modo che l’uomo viva liberamente la propria mancanza di libertà. Ne consegue che il cittadino bene educato non è colui che cerca di rendere felice la vita propria e altrui e che lotta a questo scopo anche contro la situazione esistente, ma colui che si è bene adattato al sistema dominante, che lo accetta e che, per sua propria scelta, vi partecipa, evitando i conflitti con l’ambiente in cui vive e i problemi collegati alle manifestazioni di dissenso.

È sorprendente il fatto che tutto ciò venga considerato come logico e naturale dalla maggior parte della gente, e che nessuno si accorga del profondo e insanabile contrasto esistente fra una simile mentalità e ciò che il termine «educazione» significa realmente. Se volessimo dare alle parole il loro vero senso, dovremmo intendere per educazione quell’insieme di azioni, di atteggiamenti e di comportamenti che aiutano un individuo a essere se stesso, a realizzare pienamente la propria personalità, a progredire secondo le proprie linee evolutive. Si tratta dunque di un’operazione delicata e difficile, fondata essenzialmente sui rapporti interpersonali e non inquadrabile in uno schema di prescrizioni e regolamenti.

Per essere chiari, dovremmo dire che l’educazione autentica è qualcosa che si muove in direzione opposta a quella seguita dall’educazione tradizionale. Educare, innanzi tutto, non vuol dire affatto fornire delle informazioni secondo un programma prestabilito e uguale per tutti. Ma è proprio questo che facciamo nella nostra realtà quotidiana. E infatti l’opinione più diffusa è che la prima mossa educativa debba essere quella di insegnare al cosiddetto educando tutto ciò che il sistema ritiene si debba conoscere. Gli educandi dovrebbero perciò apprendere tutti quanti le medesime cose e nello stesso tempo, allo scopo di essere tutti adeguatamente equipaggiati secondo le esigenze della società cui appartengono. Su questo principio si fonda il meccanismo scolastico. Si è venuto formando in tal modo uno stock di nozioni inevitabili che, nel loro insieme, costituiscono appunto i programmi scolastici.

Naturalmente, l’idea che gli educandi si impadroniscano, senza eccezioni, dell’intero materiale nozionistico preparato per loro è quanto mai illusoria, e di questo ci si è accorti. Si è provveduto di conseguenza all’elaborazione di un congegno selettivo, il cui fine è quello di eliminare coloro che non abbiano appreso una quantità sufficiente di informazioni. In questo modo vengono premiati l’adattamento acritico e il lavoro alienato, e vengono puniti gli interessi personali. Ma siccome sono proprio questi che stanno alla base di qualsiasi forma di vero apprendimento, si deve concludere che l’operazione informativa tradizionale, chiamata insegnamento, si oppone alla conoscenza propriamente detta.

Questa affermazione non è paradossale. Credo che ormai siano innumerevoli le documentazioni che dimostrano l’insostituibilità della propensione individuale come molla di ogni apprendimento. L’essere umano impara ciò che lo interessa e che gli piace, e rimuove il resto. Non solo, ma tende anche a cancellare dalla propria mente un’informazione che gli sia diventata sgradita. È un fenomeno di osservazione abbastanza comune per chi si occupa di infanzia: succede con una certa frequenza di avere a che fare con bambini di tre o quattro anni che imparano, per conto loro, a leggere e a scrivere, e che dimenticano tutto non appena vanno a scuola. L’imposizione oppressiva di una tecnica, il ripercorrere per obbligo la stessa strada che era stata percorsa per curiosità o per diletto, la trasformazione di una ricerca autonoma in un’esecuzione coatta, tutto questo produce un vero e proprio blocco dell’apprendimento. O tende a produrlo.

La contraddizione fra il vero e il falso atteggiamento educativo appare ancora più stridente quando si arriva a parlare di norme. Dicevo che la prima mossa dei sedicenti educatori è quella di imporre un certo bagaglio nozionistico. È la prima, infatti, ma non la più importante. Lo sforzo maggiore è riservato all’imposizione delle norme. Ciò che conta di più nel nostro mondo è, a quanto pare, l’obbedienza alle regole del gioco. E su questo non si transige. Si può tollerare che qualcuno cerchi di sottrarsi all’insegnamento, ma al regolamento no. Chi non assorbe le nozioni previste e predisposte per lui è un individuo inutile, ma chi non rispetta le regole è un individuo pericoloso. E la regola principale, anche se qualche volta non lo si vuole ammettere, è quella dell’adattamento al costume vigente. È veramente difficile immaginare qualcosa che sia altrettanto incompatibile con una libera evoluzione della personalità, obiettivo ultimo, e unico, di ogni sincero impegno educativo.

Se si vuole essere onesti, si deve riconoscere che non c’è nulla di meno educativo di ciò che generalmente viene chiamato educazione. Mi sembra che i binari su cui si muove questo discutibile procedimento siano sostanzialmente i due cui ho accennato: l’erogazione di informazioni selezionate secondo un preciso criterio di funzionalità al sistema, con obbligo di apprenderle, e l’imposizione di norme atte a garantire un determinato impiego di quelle informazioni. E dato che queste due operazioni vengono attuate mediante l’uso di dispositivi automatici di persuasione di tipo ricattatorio, oserei dire che esse equivalgono a un vero e proprio condizionamento, morale, ideologico e culturale. Ma mi sentirei anche di aggiungere che lo scopo precipuo di un vero rapporto educativo è proprio quello di non condizionare e di fornire invece alla persona i mezzi per una sua evoluzione pienamente autonoma. Si potrebbe allora formulare l’ipotesi che l’educazione tradizionale altro non sia che una scuola di adattamento, e perciò un’operazione diretta alla dissoluzione della personalità. E di fatto pare che questo stia accadendo: l’ansia, sempre più palese, di adeguarsi alle consuetudini e agli imperativi sociali sta portando l’uomo non tanto verso la rinuncia alla critica, quanto verso l’incapacità alla critica.

Lo smantellamento dell’educazione tradizionale, e della sua tetra consorella chiamata pedagogia, credo sia da considerare come uno dei fini primari dell’evoluzione civile. Se è vero, come a me sembra e come è stato esplicitamente detto da qualcuno (per esempio da Gustav Nass nel suo lavoro Weder Opfer Noch Täter Durch Richtige Sexualerziehung del 1967, pp. 15 e segg.), che lo scopo al quale tende l’educazione tradizionale è l’adattamento dell’individuo al costume, allora è evidente che sulla base di una tale educazione nessun progresso potrà mai essere realizzato dall’uomo. L’accettazione incondizionata di un presente, cioè appunto l’adattamento al sistema dominante e alle sue pretese, esclude evidentemente l’ipotesi di un futuro diverso. Ora, a me pare che tutti abbiamo bisogno, almeno, di sperare in un futuro diverso. La condizione umana attuale deve essere migliorata, quindi cambiata. Su questo direi che non ci possono essere incertezze.

Grazie all’avanzamento tecnologico saremmo in grado di fare del nostro pianeta un paradiso. Potremmo eliminare il lavoro alienato, cancellare la fame e la maggior parte delle malattie, ottenere dalla terra una produzione ricca e abbondante senza comprometterne gli equilibri, evitare l’agglomerazione delle masse umane, godere di una sessualità finalmente liberata e gioiosa, coltivare l’arte, soddisfare tutte le nostre esigenze primarie e vitali, e anche molte altre. E invece abbiamo costruito intorno a noi un inferno, un marchingegno perverso e mortifero dal quale non riusciamo più a liberarci. Viviamo sotto l’incubo di una catastrofe atomica; la guerra divampa ovunque, rovinosamente; la fame uccide milioni di persone all’anno; non abbiamo più energia sufficiente, né acqua, né spazio; l’ambiente naturale viene devastato ogni giorno di più da una folle indiscriminata industrializzazione; il lavoro alienato è diventato la norma per tutti; l’inurbamento provoca continuamente nuove manifestazioni patologiche, sia a livello individuale che a livello sociale; la burocratizzazione sta distruggendo rapidamente ogni genere di rapporto umano; la paura ha avvelenato ogni forma di convivenza producendo il terrorismo da un lato e la caccia alle streghe dall’altro; il piacere, a cominciare da quello della sessualità, viene velocemente represso da qualsiasi tipo di potere. E l’ingegno umano, invece che essere impegnato nella soluzione dei problemi che ci travagliano, viene pazzescamente investito in quella operazione di consolidamento del sistema, di annientamento di ogni capacità critica e di condizionamento consumistico chiamata pubblicità.

Un cambiamento si impone, credo di poterlo dire, con evidenza drammatica. Forse non tanto per ragioni di sopravvivenza, quanto per ragioni di civiltà.

Ma, per cambiare, bisogna essere capaci di cambiare. E sarà difficile che l’uomo possa raggiungere questa capacità finché sarà sottoposto a un’educazione come quella che ancor oggi va per la maggiore, orientata a fabbricare individui disciplinati, perennemente consenzienti e rassegnati. La rassegnazione del cittadino, e forse non occorre nemmeno ricordarlo, è la piattaforma su cui si regge la conservazione del potere e del costume voluto dal potere. Anzi, più che la conservazione, il rafforzamento delle istituzioni esistenti. Ma sono appunto queste istituzioni che assicurano al potere, e dunque al sistema, quella stabilità che, tutto sommato, appare assai poco desiderabile.

Nessuno che io sappia, fatta eccezione per i pazzi e i maniaci, si augura il trionfo permanente della guerra, dell’ingiustizia sociale, della fame, del dolore, della paura e della disperazione. E questi sono i frutti ineluttabili, passati, presenti e futuri, della nostra organizzazione sociale. Un miglioramento, che è come dire un cambiamento, della condizione umana non può partire da un consolidamento della realtà istituzionale di oggi. Deve fondarsi sull’uomo del domani, su colui che, speriamo, riuscirà a realizzare un rapporto educativo e auto-educativo che sia veramente tale. Deve fondarsi su un uomo evoluto e ragionevole, e soprattutto libero.

Come abbiamo visto, dell’educazione si ha in genere un’idea molto vaga. Viene per lo più concepita come un insieme di interventi più o meno autoritari e invasivi indirizzati a «plasmare», «forgiare», «formare», ecc., l’educando, ed è straordinariamente arduo proporre definizioni diverse. Di solito non si è capiti o, peggio, si è giudicati come malfattori e corruttori di costumi. In effetti, non appena ci si libera dei pregiudizi, dei luoghi comuni, delle interpretazioni semplicistiche e di comodo, ci si trova a dover impiegare un linguaggio che ha poco o nulla a che fare con quello abitualmente riservato a questo argomento.

Che dire, per esempio, della figura dell’educatore? Mi sembra indubitabile che l’educatore non esista. L’educazione, ripetiamolo, è un rapporto, non un’azione esercitata da una persona su un’altra. Ogni educatore, in altre parole, è anche educando. Il rapporto interpersonale crea di per sé una reciprocità. Se un individuo ritiene di poter influenzare lo sviluppo di un’altra persona, senza esserne influenzato, costui è un ottuso prepotente, non un educatore. L’educatore come parte «attiva» e l’educando come parte «passiva» sono incompatibili con l’educazione.

Il concetto mi sembra chiarissimo, e non so chi possa sostenere in buona fede e ragionevolmente l’ammissibilità del mestiere di educatore, nel senso di modellatore della persona umana. Né so chi potrebbe mai negare che colui che educa viene a sua volta educato. Eppure il dire che l’educatore, nel senso tradizionale della parola, non esiste e non può esistere, viene giudicato poco meno che criminale. E questo è solo un esempio degli ostacoli, immensi, che si incontrano quando si affronta il problema della comunicazione su questi temi. Cercherò tuttavia di chiarire la mia opinione, nel modo meno ambiguo e più accettabile per tutti.

Dicevo sopra che i due pilastri dell’educazione tradizionale, di quella che potremmo chiamare «falsa educazione», sono l’imposizione di nozioni e l’imposizione di norme. Ancora una volta, per esprimersi senza dannose nebulosità, si deve ricorrere a un linguaggio piuttosto aspro, comprensibilmente urtante per chi è legato al conformismo verbale che ci è solito. Cominciamo dalle nozioni.

L’incrollabile convincimento che l’unica realtà possibile sia quella esistente, quella in cui il profitto economico è l’organizzatore primario della vita umana e in cui la ragione viene asservita al meccanismo economico, induce ovviamente l’educatore a somministrare quelle informazioni che sono utili o necessarie al buon funzionamento di un tale meccanismo. Chi distribuisce l’informazione non lo fa per arricchire la conoscenza altrui, ma per addestrare l’altro a inserirsi utilmente nell’ingranaggio produttore di ricchezza. Il destinatario dell’informazione, a sua volta, non impara per conoscere, ma per guadagnare. Che lo voglia o no. Quello che si deve sapere è soprattutto ciò che serve ai fini economici.

Esiste in tutto questo una logica, certo. Ma è una logica mostruosa, disumanizzante e letale. Un razionalismo arido e ristretto ha preso il posto della ragione, alla speranza si è sostituito il programma, all’invenzione il calcolo, alla creatività la pianificazione, alle idee le nozioni. Non voglio dire che i programmi, i calcoli, i piani, ecc., siano da respingere. Ma dico che non possono costituire l’unica base dell’attività umana. Invece è proprio in questa direzione che si muove la nostra cultura economica e meccanicistica. Ed è in questa direzione che si muove anche l’insegnamento.

Ma come si fa a pretendere che un bambino, non ancora del tutto deformato dalle pressioni dell’ambiente mercantile che lo circonda, accetti di buon grado un indottrinamento di questo genere? Che cosa gliene può importare di tutta quella massa di notizie che servono ad assicurargli un impiego ben remunerato o una professione redditizia, quando non ha ancora la più pallida idea della dimensione economica dell’esistenza? Quando era più piccolo, prima di andare a scuola, imparava una sterminata quantità di cose con velocità sbalorditiva. Ma erano cose del suo mondo, cose che lo interessavano, che lo divertivano, che lo affascinavano. Probabilmente continuerebbe a imparare con prontezza stupefacente anche adesso, se potesse imparare quello che vuole e che realmente gli serve. Ma non può. Pare che l’estraniazione dello scolaro dall’oggetto del suo apprendimento sia il principio fondamentale, e irrinunciabile, della scuola. E questo, d’altronde, vale anche per l’adulto. Se qualcuno si dedica a imparare ciò che gli piace, si dice che ha un hobby. Non è un vero imparare. Non è quell’imparare finalizzato a ottenere un profitto, che è l’unico giudicato «serio».

La vocazione all’insegnamento dei nostri educatori è comunque assai meno radicata e robusta di quanto non sia la vocazione a stabilire norme. Può accadere, e accade infatti nella maggior parte dei casi, che gli educatori di una determinata categoria, per esempio i genitori, affidino a quelli di un’altra categoria, per esempio gli insegnanti, il compito di introdurre nelle teste dei bambini quella quantità, e qualità, di nozioni che sono ritenute indispensabili. Ma la norma no. Alla norma non rinuncia nessuno. L’elaborazione e la prescrizione delle norme non si affidano mai ad altri. Ogni educatore che si rispetti domina la situazione dall’alto di una sua personale piramide di leggi, ricette, regole e indicazioni. La norma è considerata da tutti come il fondamento essenziale di qualsiasi manovra educativa e ciascuno è fermamente convinto di avere il diritto, inalienabile, di inventare e imporre tutte le norme che vuole. È mia opinione, per contro, che l’imposizione di norme non c’entri affatto con un autentico atteggiamento educativo, e anzi sia un intervento squisitamente anti-educativo.

Si dice che non è possibile preparare un individuo alla vita comunitaria senza inculcargli delle norme. Anche a costo di essere accusato di incoerenza, devo dire che su questo sono d’accordo, almeno in parte. Cercherò di spiegarmi meglio. Innanzi tutto, si deve distinguere fra norma e norma. Ci sono regole che non si può non seguire. Per esempio quelle di carattere tecnico: attraversare la strada con il verde e non con il rosso, mangiare a certe ore e comunque con un minimo di regolarità, allacciare la cintura di sicurezza in aeroplano, non guidare l’automobile in stato di ubriachezza, ecc. Mi si potrà dire che nemmeno in questo caso si tratta di regole puramente tecniche, che c’è anche qui un contenuto etico. È vero. Ma l’inosservanza di simili norme ha come conseguenza immediata un effetto tecnico. Chi passa con il rosso viene investito, chi mangia in modo sregolato fa indigestione, chi non si allaccia la cintura di sicurezza si rompe la testa, chi guida con il cervello ottenebrato dall’alcool si ammazza, e così via. Tutte queste regole devono essere insegnate a chi non le sa, e su questo non ci sono dubbi. Ma è parimenti fuor di dubbio che, fin qui, non si può parlare di educazione. Un individuo può essere evolutissimo, civilissimo e responsabilissimo, e non essere capace di guidare una macchina. Se vuol farlo, deve imparare. Deve cioè imparare le regole della guida. E qualcuno gliele deve insegnare. Magari uno assai meno evoluto, meno civile e meno responsabile di lui.

Poi c’è un’altra categoria di norme che secondo me sono inevitabili in una comunità civile: quelle estetiche. Il trascurare queste norme non produce effetti catastrofici, come invece accade di frequente per le norme tecniche, ma rende difficile e sgradevole la convivenza. Il mangiare con una certa compostezza, l’esprimersi con un minimo di cortesia, il non avere un aspetto ripugnante, e così via, tutto questo non è assolutamente indispensabile per sopravvivere, ma lo è per campare alla meno peggio e con un po’ di decenza. Confesso di non apprezzare affatto quel certo tipo di contestazione che si manifesta con il non lavarsi, con i cattivi odori, con gli abiti luridi e trascurati, con le vociferazioni, con la rozzezza dei gesti e del linguaggio e con la più assoluta noncuranza per il disagio che si può provocare intorno a sé. Questa volta sì che si tratta di educazione, ma sostengo che tutte queste regole di vita civile non possono essere insegnate né, tanto meno, imposte. Una persona che abbia potuto godere di un clima educativo vero, onesto e sincero, queste cose le impara da sola, se può disporre di modelli cui fare riferimento. Voglio dire che se io desidero che mio figlio non mangi con i gomiti sul tavolo, è inutile che continui a ripeterglielo o, peggio, a ordinarglielo. Basta che io non mangi con i gomiti sul tavolo. Poi, se fra mio figlio e me esiste un felice rapporto educativo, sarà lui stesso a scegliere il comportamento che gli sembrerà più opportuno e più rispettoso nei confronti altrui. Le medesime considerazioni valgono, a mio avviso, anche per le norme più propriamente morali. Non si può indurre una persona ad agire onestamente solo dicendole che bisogna essere onesti. Se c’è una norma che deve nascere, e imporsi, dall’interno dell’individuo e che non può mai essere data dall’esterno, questa è proprio la norma etica. Si agisce con bontà se si è buoni, non se qualcuno ci comanda di compiere una buona azione. È ben noto che nell’America degli anni Venti una buona fetta di beneficenza la facevano i gangster. Non certo per amore degli uomini, ma solo perché il costume e l’opportunità li costringevano a farla.

Ma vorrei dire di più: la norma morale, se appiccicata addosso a un individuo dal di fuori, come un’etichetta, è spaventosamente dannosa. Innanzi tutto perché è matrice di ipocrisia, falsità, cinismo e frode. È un’esperienza che, se non erro, stiamo vivendo nel nostro tempo. A parole, le regole morali non hanno forse mai goduto tanto credito quanto ne godono oggi. Non si fa che parlarne, sempre e dappertutto. E da ogni parte si seguita a inventarne di nuove, in ogni campo. Si producono regolamenti morali in campo fiscale, politico, economico, amministrativo, commerciale, televisivo e sessuale. Pulpiti e cattedre di ogni sorta, quotidianamente, rovesciano sui cittadini torrenti di precetti morali. Con effetti modesti, si direbbe. Gli scandali si moltiplicano e ingigantiscono smisuratamente, la dirigenza del paese si abbandona alle manovre più bieche, la Grande Astuzia nazionale ha raggiunto livelli prodigiosi sia nei governanti che nei sudditi, la corsa alla speculazione non conosce più alcun freno, si devasta il bene pubblico, si inquina, si trafuga, si dissesta, si distrugge. E tutto, beninteso, sotto la santa bandiera della moralizzazione.

C’è però un secondo aspetto della norma morale imposta che mi sembra ancora peggiore: la propensione persecutoria. Si tenga presente che la norma morale è quanto mai soggettiva. Ognuno si fa la propria, non di rado molto differente da quella degli altri. E questo dipende dall’ambiente in cui si è vissuti, dalle pressioni subite, dalla cultura, dal carattere, e da mille altre cose. Certo è che la norma morale di un anarchico si discosta per molti versi da quella di un cattolico, quella di un buddhista da quella di un comunista ortodosso, quella di un ragazzo da quella di un ex comandante del sid, quella di un petroliere da quella di una femminista, quella di un bambino da quella di un mafioso. Però tutti, tranne il bambino, pretendono che la propria sia quella giusta e che tutti gli altri debbano accettarla. O almeno che la accetti l’educando, cioè il figlio, o l’allievo, o il sottoposto. Non solo, ma si pretende anche che l’educando, portatore, si spera, dell’idea giusta in quanto nostra, muova guerra a coloro che hanno l’idea sbagliata. Cioè a tutti gli altri.

Ora, è curioso il fatto che di una norma morale la prima cosa che si impara non è la sua sostanza, bensì la sua caratteristica di essere diversa da quella altrui. Anzi, di essere incompatibile con quella altrui. Quando si insegna o si impara, poniamo, la norma dell’onestà, non si insegna e non si impara a essere onesti, ma a odiare i disonesti. Infatti, una norma alla quale solitamente si accorda ben poca attenzione è quella della tolleranza. Nasce così il razzismo ideologico. E da questo alla follia persecutoria il passo è breve. E anche questa è una realtà che stiamo vivendo in modo, direi, abbastanza drammatico.

In sintesi, penso che la norma sia necessaria, ma che non possa essere somministrata nell’ambito di un comportamento educativo. Se è indispensabile e se deve essere insegnata, allora si tratta di una norma tecnica che è estranea all’educazione. Le altre, le norme estetiche, civili, morali, non possono e non devono essere insegnate, fornite dall’esterno, in nessun caso. Esse devono nascere all’interno di ciascuno, come spontanea conseguenza di un valido rapporto educativo. Devono formarsi, semmai, sulle indicazioni derivanti da un buon modello di comportamento di cui si disponga. Mai, comunque, imposte.

Credo che di fronte all’impegno educativo si possano assumere due diversi atteggiamenti, l’uno opposto all’altro. Si può cercare di dare all’altro i mezzi utili per il suo evolvere: l’opportunità di fare esperienza, l’affetto, l’esempio, e soprattutto la libertà. In tal caso si opera per far sì che l’uomo sia se stesso, compiutamente, e quindi che sia originale, indipendente, autonomo, «nuovo», capace di fare ciò che non è mai stato tentato prima. Per essere in grado di fare una simile scelta, mi pare ovvio che bisogna essere sostenuti dalla speranza che la condizione umana possa cambiare. Ancor più: bisogna aver fede nel miglioramento delle nostre sorti e nella possibilità di ottenerlo.

Oppure si può cercare di rendere l’altro del tutto simile a un modello esistente, ricorrendo a qualsiasi mezzo. In questo caso si lavora per produrre individui servili, rassegnati, dipendenti sempre da un qualche potere, ripetitivi, sprovvisti di creatività e di capacità inventiva, obbedienti e passivi. Abbracciare questa scelta significa aver paura che la condizione umana possa cambiare, perché ogni mutamento sarebbe una porta aperta al peggio.

Personalmente, credo che il peggio sia già stato raggiunto da un pezzo e che, senza il coraggio della ribellione e del rinnovamento, seguiteremo a consumarci nell’inferno che abbiamo creato. Credo che senza coraggio sia impossibile vivere da uomini. Credo che la paura sia la peggiore condanna dell’uomo, e che sia immorale rovesciare i nostri terrori sulle spalle dei nostri figli. Magari sotto forma di educazione.

Milano, marzo 1981