Introduzione a ‘Che fine ha fatto il futuro?’
2020-11-17
traduzione di Guido Lagomarsino.
INDICE DEL LIBRO:
Il primo paradosso del tempo è inerente alla consapevolezza che ognuno ha di vivere in un tempo che precedeva la sua nascita e che continuerà dopo la sua morte. Questa consapevolezza individuale del finito e dell’infinito vale simultaneamente per il singolo e per la società. Infatti l’individuo che si trasforma, cresce e poi invecchia, prima di scomparire un giorno o l’altro, assiste in quel mentre alla nascita e alla crescita degli uni e all’invecchiamento e alla morte degli altri. Invecchia in un mondo che cambia, se non altro perché gli individui che ne fanno parte invecchiano anche loro e vedono generazioni più giovani prendere progressivamente il loro posto.
Ci sono spiegazioni di tipo intellettuale per questo primo paradosso: sono tutte le teorie che, in un modo o nell’altro, inscenano il ritorno del medesimo. Nella maggioranza delle società studiate dall’etnologia tradizionale esistono rappresentazioni dell’eredità molto elaborate che tendono a ritenere la morte degli individui non una fine in sé quanto l’occasione per ridistribuire e riciclare gli elementi che li compongono. Le teorie della metempsicosi sono solo un tipo particolare di tali rappresentazioni. In Africa, per esempio, l’idea del ritorno degli elementi liberati dalla morte non è associata a quella del ritorno degli individui in quanto tali, anche se, nelle grandi chefferies o nei regni, la logica dinastica spinge in quella direzione. Altre istituzioni, come le classi di età, o taluni fenomeni religiosi ritualizzati, come la possessione, rientrano in quella visione immanente del mondo che tende a relativizzare l’opposizione tra vita e morte in virtù di un’intuizione non lontana dal principio scientifico secondo il quale nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma.
Il secondo paradosso del tempo è quasi l’inverso del primo e riguarda la difficoltà per uomini mortali, e quindi tributari del tempo e delle idee di inizio e fine, di pensare il mondo senza immaginarsene una nascita e senza assegnargli un termine. Le cosmogonie e le apocalissi, in varie modalità, sono una soluzione immaginaria per rispondere a questa difficoltà.
Il terzo paradosso del tempo rimanda al suo contenuto o, se vogliamo, alla storia. È il paradosso dell’evento, del fatto sempre atteso e sempre temuto. Per un verso sono gli eventi che rendono sensibile il passaggio del tempo e che servono anche a datarlo, a ordinarlo secondo una prospettiva diversa dal semplice ripresentarsi delle stagioni. Ma per un altro verso l’evento comporta il rischio di una rottura, di una lacerazione irreversibile con il passato, di un’intrusione irrimediabile del nuovo nelle sue forme più pericolose. Per un lungo periodo della storia umana le catastrofi ecologiche, meteorologiche, epidemiologiche, politiche o militari avevano il potere di minacciare l’esistenza stessa del gruppo, e lo sviluppo delle società non ha fatto svanire la consapevolezza di rischi del genere: li ha solo collocati su una scala diversa. Il controllo intellettuale e simbolico dell’evento è sempre stato al centro delle attenzioni dei gruppi umani. Lo è ancora oggi; cambiano solo le parole e le soluzioni. È anzi possibile che il paradosso dell’evento sia al suo culmine: mentre la storia accelera sotto la spinta di eventi di ogni genere, noi pretendiamo di negarne l’esistenza, come nelle epoche più arcaiche, per esempio celebrandone la fine.
È proprio con la configurazione, la delimitazione o l’esplicitazione di questi tre paradossi che si sono misurati, nei contesti storici più vari, tutti i tentativi di simbolizzazione del mondo e delle società. Se, come afferma Claude Lévi-Strauss nella sua Introduzione all’opera di Marcel Mauss1, la comparsa del linguaggio ha comportato ipso facto la necessità di rendere il mondo significante, è ben evidente che la categoria del tempo, più ancora di quella dello spazio, ha fornito una materia prima ideale per quell’operazione, perché è la più sperimentabile, la più immediatamente percepibile e, in questo senso, la meno arbitraria dei dati simbolici. La padronanza del calendario è stata una delle forme più efficaci di controllo religioso e/o politico esercitato sulle società, perché il tempo, dato immediato della coscienza, appare simultaneamente una delle componenti essenziali della natura e uno strumento privilegiato per capirla e governarla. I poteri religiosi e politici si sono sempre serviti del tempo per dare alla cultura l’apparenza di un fatto naturale. Tutte le rivoluzioni hanno dovuto fare i conti con la necessità di ridefinire l’impiego del tempo e di rifondare il calendario per cercare di cambiare la società.
Resta il fatto che non avrebbe senso dissociare una riflessione sul tempo da una sullo spazio. Tutti i sistemi simbolici che si possono osservare nel mondo attestano invece il legame sempre intuitivamente avvertito tra queste «forme a priori della sensibilità», come le definisce Kant. Le culture dell’immanenza individuano, segnalano e ordinano gli spazi di socialità con estrema minuzia, sia per distinguerli dagli spazi non umani, sia per tracciare le linee di partizione che ordinano il gruppo sociale stesso (norme di residenza, sistemi di divisione, spazio pubblico e spazio privato, spazio sacro e spazio profano…). Queste suddivisioni sono intimamente correlate alle rappresentazioni del tempo sociale. Alcune di queste si manifestano solo in occasione di riti stagionali. La residenza cambia con le varie età della vita (ingresso nell’età adulta, matrimonio…). Si potrebbe così parlare di uno spazio-tempo sociale il cui grado più o meno forte di coesione corrisponde alle diverse modalità organizzative.
La prova dell’altro, nelle forme della conquista e della colonizzazione, è spesso stata tanto più dolorosa quanto più ribaltava l’ordine spazio-temporale preesistente, da quel momento in poi considerato obsoleto. Agli occhi dei colonizzati tale prova era perciò, prima di tutto, un evento ingovernabile che segnava una rottura irreversibile tra presente e passato e che imponeva loro, tanto in termini politici quanto religiosi, una reinterpretazione del passato e una visione dell’avvenire. Parallelamente, quell’evento trasformava da cima a fondo la loro organizzazione spaziale. L’urbanizzazione, le nuove suddivisioni amministrative, la creazione di colture industrializzate destinate all’esportazione, l’integrazione forzata nello spazio del colonizzatore (per esempio in occasione della prima guerra mondiale o delle stesse guerre coloniali) hanno costituito un abbozzo su scala regionale di quella che oggi viene chiamata globalizzazione.
Non è escluso che, per un curioso ribaltamento della situazione, l’Occidente colonizzatore oggi si trovi davanti alle stesse difficoltà che non molto tempo fa ha provocato tra i colonizzati, quando pretendeva di imporre la propria concezione più o meno evoluzionista della storia. In effetti, nel corso del xx secolo, si sono trovati a mal partito tutti quegli schemi intellettuali sui quali, con maggiori o minori dubbi, certezze e buona fede, si era costruita l’ideologia coloniale e postcoloniale (il senso della storia, il volontarismo rispetto all’evento, il rifiuto della contingenza e quell’eredità dell’Illuminismo che è l’ineludibile legame tra progresso scientifico, progresso materiale e progresso morale). A questo proposito si cita spesso, e non a torto, il fallimento dei sistemi comunisti, ma bisogna anche insistere sul disorientamento morale provocato dall’ampiezza dei massacri resi possibili dal progresso tecnologico, sulla fine disastrosa delle avventure coloniali, che toglie ogni senso a una parte della storia occidentale, e sulle incertezze intellettuali che oggi accompagnano il movimento accelerato della globalizzazione.
Questo movimento, tanto evidente quanto imprevedibile, riguarda non solo l’economia ma anche la scienza, la tecnologia e la politica; e comporta manifestazioni del tutto inedite di violenza e di nazionalismo, convulsioni religiose e politiche senza precedenti che sanciscono il fallimento dell’impresa coloniale come primo abbozzo della globalizzazione.
Sono dunque il nostro passato più recente, la nostra storia più vicina (quella misurabile sulla durata di un’esistenza individuale), che ci diventano enigmatici. Dal 1989, dopo la caduta del muro di Berlino, comincia una nuova storia che fatichiamo a capire, perché procede troppo in fretta e riguarda direttamente e immediatamente tutto il pianeta.
Dal punto di vista intellettuale, questo cambiamento di scala ci prende alla sprovvista. Siamo ancora nella fase di critica dei vecchi concetti e delle visioni del mondo che li sottendevano. A questi si sostituiscono da un lato una visione pessimista, nichilista e apocalittica, secondo la quale non c’è più niente da capire, e dall’altro una visione trionfalista ed evangelica per la quale tutto è compiuto o sta per esserlo. In entrambi i casi, il passato non è più portatore di alcuna lezione e dall’avvenire non c’è più niente da aspettarsi. Tra queste due visioni estreme, c’è posto per un’ideologia del presente caratteristica di quella che per convenzione è definita società dei consumi. Sotto la marea di immagini e di messaggi, sotto l’effetto di tecnologie della comunicazione istantanea e della mercificazione di tutti i beni materiali e culturali, sembra che agli individui resti solo la scelta tra un consumismo conformista e passivo, anche quando le possibilità di consumo sono ridotte, e un rifiuto radicale al quale solo le espressioni religiose esasperate sembrano in grado di fornire un’apparente armatura teorica. Sullo stesso piano ideologico, vediamo inoltre formarsi connubi sostanziali tra ideologia religiosa e ideologia consumista, più in particolare nel caso dell’evangelismo di origine nordamericana. Per il resto, le nuove forme di esclusione, delle quali la globalizzazione è nello stesso tempo il contesto generale e uno dei principali fattori, generano, attraverso diverse mediazioni come quella del fondamentalismo religioso, atteggiamenti di rigetto o di fuga che hanno senso solo in rapporto all’ordine dominante. Quest’ultimo provoca insieme odio e seduzione. La contestazione, la rivolta o la protesta sembrano così prigioniere di quegli stessi schemi di pensiero ai quali si oppongono, sia a livello della vita politica sia sul piano intellettuale e artistico.
Ogni impero ha avuto la pretesa di fermare la storia, tanto che è possibile sostenere che altre globalizzazioni abbiano preceduto l’attuale. L’unica differenza, che però è di dimensioni, sta nel fatto che la globalizzazione presente è coestesa al pianeta come corpo fisico. Ogni giorno di più prendiamo coscienza di occupare «un angolo dell’universo», come diceva Pascal. In questo universo le categorie di tempo e di spazio alle quali siamo assuefatti non funzionano più, e qualcosa di quella vertigine provocata dalle esplorazioni dell’astrofisica può avere delle ricadute sulla nostra percezione della storia umana.
Tutto contribuisce dunque a mettere in discussione le categorie tradizionali dell’analisi e della riflessione, che pure ci hanno permesso di capire come funziona l’ideologia e, in particolare, di individuarne una caratteristica essenziale: la sua capacità di sottrarsi in parte alla coscienza non solo di coloro che ne sono vittime, ma anche di chi la sfrutta per dominare gli altri. Può allora essere utile riprendere la categoria di tempo per interrogare nuovamente le false evidenze dell’attuale ideologia del presente. Queste evidenze assumono la forma di un triplice paradosso. Primo paradosso: la storia, intesa come fonte di nuove idee per la gestione delle società umane, sembra terminare proprio nel momento in cui riguarda esplicitamente l’umanità nel suo insieme. Secondo paradosso: noi dubitiamo della nostra capacità di influire sul nostro comune destino proprio nel momento in cui la scienza progredisce a una velocità sempre più accelerata. Terzo paradosso: la sovrabbondanza senza precedenti dei nostri mezzi sembra vietarci di riflettere sui fini, come se la timidezza politica dovesse essere lo scotto da pagare per l’ambizione scientifica e l’arroganza tecnologica.
Questi tre paradossi altro non sono che l’odierna forma storica dei tre paradossi del tempo citati all’inizio. In questo senso attengono tutti all’ideologia. Ogni sistema di organizzazione e di dominio del mondo – sia che quest’ultimo abbia limiti geografici più o meno estesi o che lo si voglia, come oggi, coesteso al pianeta – ha prodotto teorie dell’individuo, del mondo e dell’evento. Il sistema della globalizzazione non si sottrae a questa regola. L’ideologia che gli è sottesa, che lo anima e che gli consente di imporsi alle coscienze dei singoli, può essere analizzata in quanto tale, nonostante la complessità delle sue determinazioni e dei suoi effetti. Le riflessioni qui proposte, che si inseriscono nell’ottica di un’antropologia comparata delle rappresentazioni del tempo, vorrebbero dare un contributo a questa analisi.
Esse dunque prenderanno in successione come oggetto i concetti di immanenza (riguardo alle società o alle culture dell’immanenza), di sviluppo (a livello delle teorie e delle azioni di sviluppo), di globalizzazione (e, in correlazione, di comunicazione e urbanizzazione), di contemporaneità, di modernità, di memoria e, infine, di utopia, nel tentativo di rispondere alla domanda in apparenza ingenua che ossessiona ogni giorno di più i vari ambiti del fare e del pensare: che fine ha fatto il futuro?
Note all’Introduzione
Marcel Mauss, Sociologie et anthropologie, puf, Paris, 1950 [trad. it.: Sociologia e antropologia, Newton Compton, Roma, 1976].↩︎