Introduzione a ‘Conversazioni in alto mare’

Riccardo Gatti, Marco Aime

2021-09-17

INDICE DEL LIBRO:

Introduzione di Marco Aime // PRIMA CONVERSAZIONE // SECONDA CONVERSAZIONE // TERZA CONVERSAZIONE // QUARTA CONVERSAZIONE // QUINTA CONVERSAZIONE // Postfazione di Duccio Facchini

Siamo nella primavera del 2017 e sui media imperversa la polemica sui presunti contatti tra le ONG e i trafficanti. Ciò che più avvilisce è l’uso politico di questi discorsi, fatti da persone che dovrebbero avere responsabilità grandi, la cui statura, invece, scompare di fronte alle parole di un anziano pescatore di Lampedusa: «Oggi capita a loro, un altro giorno capita a noi. Intanto gli dai la prima assistenza. A me non è mai capitato di dover prendere a bordo gente, ma se succede, intanto li salvo, poi una volta a terra si vedrà».

I racconti a Lampedusa si rincorrono, storie simili: «A me è capitato tante volte di incontrarli, 40, 50, 60 persone, schiacciate, su barche malandate e ci preoccupavamo, ma ora no, da quando c’è ‘Mare Nostrum’ li vanno a prendere al largo». Ora, però, «Mare Nostrum» non c’è più. Fino al novembre del 2014 le navi della Marina militare italiana hanno superato più volte il limite delle acque territoriali, hanno violato confini internazionali, perché al di là di quelle linee immaginarie c’erano persone in pericolo, barconi che stavano affondando, vite che stavano finendo. Cinquecento volte in poco più di un anno e 170 mila vite salvate. Lo hanno fatto anche molti pescatori, che hanno un’anima migliore delle leggi scritte da qualche burocrate di Bruxelles.

Poi l’Europa dice basta con questo andirivieni e nasce «Triton», l’operazione europea, che a differenza di quella precedente rispetta pedestremente i confini di Schengen: le navi europee non possono intervenire a più di 30 miglia dalla costa. Lì si ferma l’umanità dell’Europa, a 55 km dalle nostre spiagge. L’Europa dei banchieri che ha stanziato, per salvare chi fugge dalla paura e dalla violenza, un terzo di quanto l’Italia da sola aveva investito e che al di là di quel «suo» confine non osa mettere piede – non vuole mettere piede – perché non ha un’anima abbastanza grande per farlo. «Un’epoca fraintende l’altra; e un’epoca piccola fraintende tutte le altre nel modo meschino che le è proprio» scriveva Ludwig Wittgenstein. Un biglietto aereo da Tunisi a Roma costa poco più di 100 euro. Ciascuno di quelle migliaia di donne, uomini, bambini che ora giacciono nel fondo del mare ne aveva pagati quasi 1000 a testa. Per morire al di qua di quel confine. L’ordine è ristabilito.

Nel corso dell’estate del 2017 il Mediterraneo è stato teatro di una strana «battaglia navale». Improvvisamente, il principale nemico dell’Italia e dell’Europa sono diventate le navi di molte ONG italiane ed europee, che tentavano di intercettare e soccorrere i barconi dei migranti. Le accuse che venivano loro mosse erano di favorire gli arrivi e per alcune di mantenere contatti con i trafficanti di esseri umani libici.

Bisogna risalire al 2015, quando l’Europa ha adottato l’approccio hotspot, che sostanzialmente imponeva ai paesi di primo arrivo di identificare i migranti. Il regolamento di Dublino prevede che i migranti possano chiedere asilo solo nei paesi di primo ingresso. Questo ha fatto sì che Grecia e Italia fossero subissate da domande di asilo e siano dunque andate in affanno. L’Europa allora ha ammonito: non potete continuare così, dovete identificarli tutti, in cambio della promessa di ricollocarli nei paesi membri dell’Unione. Italia e Grecia accettano e iniziano a identificare i migranti nei nuovi hotspot: 150 mila nel 2015 e 180 mila l’anno successivo.

Il progetto prevede di ricollocare 130-160 mila persone in Europa. Di fatto, molti paesi membri e in particolare i paesi del Gruppo di Visegrád (Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Ungheria) rispondono negativamente, rifiutano qualunque ricollocazione e minacciano di spaccare l’Unione europea. Seguono delle tensioni, per cui a Bruxelles si ferma tutto e la rilocation non va avanti. A oggi sono state ricollocate poche migliaia di persone in tre anni, contro le 160 mila previste. In queste trattative l’Italia ottiene una certa elasticità nel patto di bilancio, ma nulla di più, e questo a livello politico viene percepito come un fallimento, tanto più che l’allora premier Matteo Renzi aveva fatto dell’accoglienza un suo cavallo di battaglia. Basti vedere il grande rilievo dato al film di Franco Rosi Fuocammare (regalato a molti capi di Stato), che esalta i salvataggi della Marina militare italiana, o l’inserimento dell’allora sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini nella delegazione invitata alla Casa Bianca da Obama. Tutti elementi propedeutici a mostrare all’Europa e al mondo il grande impegno dell’Italia e del governo sul piano della migrazione. Constatato che non si riesce a ottenere nulla, dopo il referendum del 4 dicembre 2016 e il rimpasto, il governo cambia approccio. Entra in gioco Marco Minniti, nuovo ministro dell’Interno, e si decide di utilizzare le migrazioni come cavallo di battaglia non più in termini positivi, ma in termini negativi.

Aderendo alla Convenzione di Amburgo, che regola i salvataggi in mare, l’Italia non può però sottrarsi all’impegno di salvare le persone. Si tratta di regole molto complesse, il salvataggio è permesso solo se la nave è in distress, cioè in pericolo. La domanda è: quando una nave è in pericolo? Chi lo decide? Sui media italiani si scatena la campagna contro le ONG – per certi versi basata anche su elementi reali – e si accende la polemica, come spesso accade, senza mai fornire tutti i termini della questione, che è di tipo giuridico.

Un gommone che parte per attraversare il Mediterraneo è in pericolo fin dalla partenza, ma spesso nei processi mediatici si sostiene che le navi delle ONG prendano l’iniziativa senza aspettare l’intervento della Guardia costiera. In un rapporto di Frontex (Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera) del febbraio 2017 si è cominciato a parlare delle ONG, sostenendo che queste, operando al largo delle acque territoriali, agivano come fattore di attrazione. In altri termini, le partenze erano incentivate dal fatto che a 12 miglia dalla costa c’erano le loro navi. Le dichiarazioni del direttore di Frontex, Fabrice Leggeri, sono subito state strumentalizzate da alcuni politici, tra di loro Luigi Di Maio e Matteo Salvini, che hanno cominciato a parlare di «taxi del mare» anche se nei rapporti di Frontex non viene mai citata questa espressione. Successivamente è stato il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro a sostenere che aveva motivi di pensare che ci fossero rapporti tra le ONG e i trafficanti stessi. Cosa poi smentita dal magistrato stesso, costretto a precisare che erano solo ipotesi di lavoro e non c’erano prove. Si accusavano anche le imbarcazioni di accendere grandi fari per farsi vedere dai barconi, oppure di agire in condizioni che non erano di vero pericolo e di entrare nelle acque territoriali libiche per salvare delle persone, cosa peraltro non vietata.

Ai primi di agosto del 2017 scoppia il caso «Iuventa», nave di soccorso della ONG tedesca Jugend Rettet, che insieme a Medici senza frontiere (MSF) si era rifiutata di firmare il Codice di condotta espresso dal governo italiano. La «Iuventa» aveva salvato due siriani, recuperandoli in mare. Solitamente quelli della Jugend Rettet evitavano di sbarcare i rifugiati in Italia, ma quella volta la Guardia costiera intimò loro di sbarcare. La nave fu sequestrata, perquisita e tutto l’equipaggio interrogato.

Pochi giorni dopo uscirono i materiali probatori di cui parlava Zuccaro, dove si vedevano immagini riprese dalla «Vos Hestia», nave di Save the Children, che mostravano il salvataggio effettuato dalla «Iuventa». Si vedeva che l’equipaggio aveva scambi con i trafficanti. Fu subito montato un castello di ipotesi, ma da un’inchiesta condotta da «Famiglia Cristiana» emerge però che quelle immagini erano state riprese da due agenti della sicurezza della «Vos Hestia» che lavoravano per l’agenzia investigativa IMI, i cui capi sono collegati all’organizzazione di estrema destra Defend Europe. La stessa che ha finanziato la missione della nave «C-Star», gestita dall’organizzazione Generazione Identitaria, che si poneva come fine quello di ostacolare i salvataggi. Dopo un po’ si è anche provato, che quelli ripresi nel video non erano neppure della «Iuventa», che comunque è ancora sotto sequestro a Trapani, anche se a nessuno dell’equipaggio è stato notificato alcun atto.

Nel giugno 2019 il braccio di ferro tra l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini e Carola Rackete, comandante della Sea Watch 3, che aveva salvato dei migranti e rifiutato un approdo in Libia, non ritenendolo un porto sicuro, occupò le prime pagine dei giornali per settimane. Seguirono altri casi, fino a quando l’arrivo della pandemia fece scomparire dai nostri schermi e dai nostri giornali i migranti. Di colpo, il silenzio. Quel «problema» che appariva così determinante per le sorti dell’Italia e dell’Europa, di colpo non interessava più a nessuno.

È in questo continuo rincorrersi e sovrapporsi di retoriche, sguaiate da un lato, semplicistiche dall’altro, che il cittadino trova difficile orientarsi in modo obiettivo.

Questa è la cornice entro la quale si svolgono le conversazioni con Riccardo Gatti, ex presidente di Open Arms Italia, ex capo missione e comandante a bordo delle navi della stessa ONG, prima ancora pilota di lance da soccorso in MSF, e ora nuovamente membro del SAR team di MFS (1 settembre 2021).