Kpama

Prime pagine di ‘Il patto delle colline’

Marco Aime

2024-03-12

INDICE DEL LIBRO:

IKpama // Tra i Taneka // Lawa, Céline, Dagpedo e altri amici // Montagne rifugio // Migranti e invasori // Gli antenati venuti da lontano // Una frontiera fluida // Etnie nella nebbia // Segni sul terreno // Villaggi sulla collina // Yakà, le origini // Seseirhà, le case sovrapposte // Al di là della collina: Dur e Karhu // Case rotonde e case quadrate // Villaggi come mappe // Conoscere il passato // La grotta sacra e il villaggio degli spiriti // L’uomo della terra // I padri degli altari // Sawa, il capo straniero // Gens de l’argent et gens de la viande // Sedere sulla pelle // Saper discutere // Tra le colline e la capitale // Indipendenza // Il carbone e la cenere // Come una valigia // Demni/dembiha, un legame per la vita // Spazio e tempo del mercato // Classi d’età // Kumpara, la giovinezza // Dafara, il sale e la bellezza // Sakpana, il sacrificio // Buoi per gli antenati // Verso la vecchiaia // Intrecciare storie // Confini mobili // Il patto mantenuto // Convivere per sopravvivere

La terra vibrava sotto il passo pesante di oltre duecento buoi. La sentivano bene gli anziani che sedevano accanto a me sotto il grande baobab, che troneggiava al centro del villaggio. Stavano arrivando. Il disco del sole si affacciava pallido al fondo della pianura e dall’alto della collina se ne percepiva già la prima tiepida luce. L’eccitazione saliva, le voci si facevano più acute, le parlate più veloci, partiva ogni tanto qualche gridolino, i più anziani scherzavano tra di loro. Qualcuno si alzava in piedi per cercare di vederli nel primo apparire del giorno. Avevano lasciato il villaggio di notte. Mi avevano concesso di assistere, ma nessuna fotografia.

Era da più di un mese che nel villaggio si vedevano i sakpana, uomini sulla trentina che dovevano partecipare al rituale, portare un lungo bastone ciascuno e appoggiarlo a un albero di fronte all’abitazione del sacerdote del proprio quartiere. Ogni bastone significava che il bue era pronto per il sacrificio. Guardando quell’ammasso, il sacerdote capiva a che punto era la preparazione della cerimonia. Da molti mesi ogni famiglia accumulava cibo e bevande da consumare nel corso dei festeggiamenti del kpama, la cerimonia più importante per i Taneka, piccolo popolo del Benin settentrionale, quella che riunisce tutti e quattro i villaggi di collina. Quegli stessi villaggi, che normalmente appaiono semi abbandonati, in quei giorni si erano riempiti di gente. Come mi ha detto un anziano: «Non importa dove vivano, quando c’è kpama tutti i Taneka tornano al villaggio. Non possono non farlo». La notte precedente i sakpana avevano lasciato il villaggio, guidati dai sacerdoti per imboccare il sentiero che porta verso est. Scesi dalla collina avevano attraversato la piana fino a Copargo. «Li senti passare vicino alle case al buio, in silenzio» mi aveva detto Aruna. «Nessuno osa uscire di casa quando passano. È come se stesse per arrivare una catastrofe o una epidemia. Camminano fuori dalla strada, attraverso i campi, e sono armati come se dovessero recarsi alla guerra». E un altro anziano, con tono entusiasta: «È un momento in cui i cuori si stringono per la forza che senti attorno a te. Sembra che stia per accadere qualcosa di grande».

Nessuno parlava, infatti. Il corteo aveva attraversato il piazzale del mercato e poi tutti avevano camminato fino a raggiungere un boschetto chiamato Foung-nor. Era qui che originariamente sorgeva il villaggio di Seseirhà, che venne poi spostato sulla collina per difendersi da invasori e razziatori di schiavi. Per i più giovani era come seguire un cammino che li riportava alle origini, agli antenati. Si erano subito messi di gran lena, ma sempre in silenzio, a ripulire il terreno e a scavare per dissotterrare una giara piena di dam, la tradizionale birra di sorgo. Quella giara era stata seppellita cinque anni prima, in occasione del kpama precedente. I sacerdoti avevano bevuto la birra e ne avevano offerta anche ad alcune donne che avevano seguito la processione. Si dice, infatti, che quella bevanda abbia il potere di restituire la fecondità alle donne, così come la restituisce alla terra. Dagpedo mi raccontò che «a volte vengono anche donne musulmane. Se non riescono ad avere figli si rivolgono ai nostri sacerdoti». Terminata l’operazione, la giara era stata riempita nuovamente con birra fresca e tutti avevano preso la via del ritorno.

La notte successiva i sakpana avevano nuovamente lasciato il villaggio per andare a prendere ciascuno il suo bue. La lunga fila di animali, che prima pascolavano sparsi nella brousse, ora si snodava lungo la pista che sale a Seseirhà, offrendo un colpo d’occhio spettacolare. La gente iniziò a danzare, i tamburi a suonare, le donne a portare birra di sorgo per tutti. I buoi vennero esposti nei rispettivi quartieri. Ci si affollava davanti agli animali e ogni proprietario si vantava del proprio bue, lodandone la bellezza e la forza. Giunta la sera, tutto avvenne in un attimo, quasi senza preavviso, un colpo di coltello alla giugulare e ogni bue stramazza a terra. Circa duecentocinquanta animali vennero sacrificati. Subito la carne fu divisa, secondo una gerarchia ben precisa e ciascuno tornò a casa con un pezzo di carne. Le danze proseguirono per quattro giorni.