Introduzione a 'Viaggio in Italia'
Libro
Viaggio in Italia
Bakunin
Cartaceo 15,20 € E-book 6,99 €
mer 25 gen 2023
INDICE DEL LIBRO:
Introduzione di Lorenzo Pezzica
Cronologia di Michail Bakunin
CAPITOLO PRIMO La situazione italiana
CAPITOLO SECONDO Le cinque nazioni
CAPITOLO TERZO Sporchi, brutti e cattivi
CAPITOLO QUARTO Nessuno può restare indefinitamente in preda alla disperazione
CAPITOLO QUINTO La valanga
APPENDICE Lettera a Giuseppe Dolfi, Torino, 13 gennaio 1864. Lettera a Agostino Bertani, Livorno, 26 gennaio 1864. Lettera a Elizaveta Vasil’evna Salias-de-Tournemire, Firenze, 1 febbraio 1864. Lettera a Karl Marx, Firenze, 7 febbraio 1865. Lettera a Giorgio Asproni, Napoli, 2 novembre 1865. Lettera a Ludmilla Assing, Napoli, 5 novembre 1865. Lettera a Aleksandr Ivanovič Herzen e a Nikolaj Platonovič Ogarëv, Napoli, 7 novembre 1865. Lettera a Carlo Gambuzzi, Napoli, seconda metà d’agosto 1866
Brevi note biografiche
Bibliografia
Se era un pazzo, era uno dei pazzi di Blake, che persistendo nella follia attingono la saggezza. George Woodcock1
In questo periodo l’Italia si trova in una condizione triste e pericolosa. Tutti sono spaventati dalle funeste certezze dell’oggi e dalle ancor più temibili incertezze del domani. Michail Bakunin
La valanga scende fatale e onnipotente, e voi ne sapete il nome: RIVOLUZIONE SOCIALE. Michail Bakunin
L’Italia, come è noto, è stata per lungo tempo una tappa obbligata del «Grand Tour»2 che spingeva l’intellighenzia europea a visitare i luoghi della classicità. Ogni uomo di cultura europeo che si rispettasse doveva aver compiuto almeno un viaggio in Italia. Anche l’aristocratico russo Bakunin decideva di intraprendere nel 1864 un «viaggio in Italia», ma i suoi interessi erano tutt’altro che classici. Non c’è alcun dubbio che Bakunin, uno dei padri fondatori dell’anarchismo, fosse non solo un grande pensatore3 e un indomito rivoluzionario, ma era anche un acuto osservatore dei mali italiani, di un paese sì unificato ma già afflitto da quei problemi (e vizi) con cui ancora oggi facciamo i conti: un meccanismo di prelievo fiscale non solo vessatorio ma oltretutto inefficace, una disinvolta gestione personale del potere da parte di chi era preposto all’amministrazione della cosa pubblica, una «questione morale» che già investiva la classe politica e i ceti dirigenti, una scarsa attenzione alle aree arretrate del paese coniugata alla scelta di risolvere come problema di ordine pubblico la nascente «questione meridionale», uno strapotere della burocrazia e delle varie consorterie, una presenza invasiva della Chiesa e altro ancora. Insomma, lo sguardo a volte ironico e a volte indignato del filosofo russo mette a nudo un’Italia che non facciamo affatto fatica a riconoscere. Sembra quasi che lo Stato unitario si sia ripetuto eguale a se stesso nel corso dei decenni, riproponendo nel tempo i tanti vizi e le scarse virtù che già Bakunin coglieva lucidamente oltre centocinquant’anni fa.
Nell’Italia del passato c’è dunque il racconto del suo oggi? Non si vuole certo ridurre l’intera storia italiana a un eterno presente. È stato giustamente sottolineato che «gli italiani di oggi sono divisi da sette-otto generazioni dai protagonisti del moto risorgimentale»4. Il paese si è trasformato radicalmente. Anche il Mezzogiorno è profondamente cambiato. Eppure si continua a parlare, come allora, del Mezzogiorno come di un’area complessivamente arretrata, sottosviluppata, dipendente da un nord ricco, industriale ecc. La questione meridionale periodicamente risorge dalle ceneri, come un’araba fenice, ponendosi al centro del dibattito nazionale. Sempre presente e sempre irrisolta. Nei momenti di crisi, le riflessioni sull’identità del paese si intensificano e si fanno acute, nel vivo di lacerazioni o di mutamenti inattesi. E sono riflessioni estreme. Si pongono domande sull’identità italiana nell’oggi, pensando a risposte da cercarsi in un passato che porta dritto dritto al 1861.
Detto questo, anche se molto, moltissimo, è cambiato in Italia da quando Bakunin scriveva questi brani, è un fatto incontestabile che le caratteristiche messe in evidenza dal rivoluzionario russo, nonostante le radicali trasformazioni sociali ed economiche intervenute nel frattempo, risultino essere ancora largamente diffuse, sia pure in modo non omogeneo, nelle diverse classi della società e nelle diverse regioni del paese. Stupisce quanto uno straniero abbia capito l’Italia post-risorgimentale nel profondo.
Una delle principali caratteristiche e attitudini di uno scrittore è senz’altro la capacità di osservazione, cioè quella particolare sensibilità (oggi si direbbe empatia) che gli consente non solo di interessarsi della vita altrui, ma anche, in certo senso, di confondersi con essa. E Bakunin dimostra ampiamente questa caratteristica di entrare in empatia con l’ambiente e con le persone che incontra, insieme a una capacità di analisi che, avulsa dagli stereotipi e dai pregiudizi sul «carattere nazionale»5, si rivolge piuttosto a considerare le possibili «configurazioni» della politica e della società italiana dell’epoca. Ne sono un esempio le lettere che scrive a Giorgio Asproni, Agostino Bertani e Carlo Gambuzzi, dove il ragionamento relativo alle possibili configurazioni «altre», che invita i suoi interlocutori a prendere in considerazione per agire di conseguenza, dimostra una conoscenza della politica italiana tutt’altro che superficiale. Sono aspetti della personalità di Bakunin che superano in un balzo quell’immagine stereotipata, divulgata dai suoi avversari politici, del rivoluzionario barricadiero avulso dalla realtà storica.
Al di là della classica lettura in chiave politica dei suoi scritti, è ormai possibile leggere Bakunin come filosofo politico, storico, osservatore e interprete della realtà, qui in particolare di quella italiana. Liberati dalle motivazioni storico-contingenti che li videro sorgere, i testi bakuniniani possono così tornare nuovi ed essere letti quali frammenti di un’analisi lucida di cui si coglie facilmente la stupefacente attualità. La loro lettura è un’occasione per riconsiderare non solo la condizione dell’Italia al momento dell’unità, ma anche per comprendere come un osservatore non banale e per di più straniero sia stato in grado di andare oltre ciò che era visibile nell’immediato, di cogliere il malessere profondo dell’Italia post-risorgimentale, in particolare del Mezzogiorno. Anzi, più che malessere, si tratta di una vera e propria «disperazione». Una differenza che a molti sembrò sfuggire e che Bakunin invece sottolinea con forza: «E tuttavia anche la miseria più atroce, pur colpendo milioni di proletari, non è ancora una motivazione sufficiente per far scoppiare la rivoluzione. L’uomo è infatti dotato dalla natura di una pazienza straordinaria, che a dire il vero talvolta sfocia nella disperazione. […] Ma quando si arriva alla disperazione, la sua ribellione diventa allora più probabile. […] In conclusione, nessuno può restare indefinitamente in preda alla disperazione» [cap. IV, p. 93].
Le parole sono importanti e incidono sul senso delle cose. E negli scritti, come nelle lettere, di Bakunin sono presenti molte parole: consorteria, casta, disonestà, moralità e immoralità, nullità, praticismo politico (poi definito, dal 1876, trasformismo), privilegi, bancarotta, pazienza, miseria, disperazione, contadini, giustizia, eguaglianza, felicità, libertà, rivoluzione, e molte altre ancora. Sì, in Bakunin ricorre spesso la parola rivoluzione, un concetto che oggi non è molto in auge tra gli storici, e non solo. Non è certo una novità. E lo fa anche per indicare il periodo risorgimentale. Infatti, come è stato recentemente osservato, il termine Risorgimento «rischia di imporci un’idea nazionale di ‘ferrea compattezza’, mentre la parola occulta le contraddizioni ben presenti in quel periodo e rischia di far comprendere poco di quegli eventi. Va dunque richiamato in servizio il termine rivoluzione, che divide anziché accomunare. Esso fu altrettanto centrale nel lessico dei protagonisti»6.
Bakunin trascorre in Italia tre anni della sua esistenza, dal 1864 al 1867, visitandola in lungo e in largo, a piedi, sui piroscafi, in carrozza e in treno. Sono gli anni in cui si gettano le fondamenta dello Stato unitario ed è tutto un fermento di nuove idee, di istanze e di rivendicazioni laiche, emancipatrici e umanitarie. Bakunin familiarizza molto rapidamente con la società italiana. Capisce subito che la piccola e media borghesia, gli operai e gli artigiani, sono influenzati dal mazzinianesimo. È consapevole dell’importanza ma anche dei limiti del Risorgimento. Individua una sorta di religione politica del processo risorgimentale che poggia su due pilastri: da un lato il partito costituzionale, con la sua lenta e progressiva adesione a Casa Savoia, dall’altro l’idea di un’Italia diversa, rappresentata dal garibaldinismo e dal partito d’azione.
Nei suo scritti Bakunin avverte, e non solo sul terreno politico, il distacco tra «paese legale» e «paese reale». E infatti parla di cinque nazioni: «In Italia vi sono almeno ‘cinque nazioni’: 1. I clericali, dal papa all’ultima beghina. 2. La consorteria, ovvero la grande borghesia, compresa la nobiltà. 3. La media e la piccola borghesia. 4. Gli operai delle fabbriche e delle città. 5. I contadini. Ora, io vi domando, come è possibile affermare che queste cinque nazioni – e volendo potrei annoverarne anche di più, cioè: a) la corte, b) la casta militare, c) la casta burocratica – possano avere una medesima fede e aspirazioni comuni?» [cap. II, p. 73].
Si rende ben conto che l’Italia, uscita dal Risorgimento nel segno dell’egemonia dei moderati, affronta i primi decenni della sua vita unitaria non come un organismo omogeneo e solido, ma come una realtà percorsa da linee di frattura. In questi anni, mentre si definisce il potere dei moderati, prende avvio un’Italia dissidente, antagonista e contestatrice che interpreta stati d’animo diffusi nelle masse popolari, anche del Mezzogiorno, che ha le sue roccaforti in un gran numero di circoli e periodici locali sparsi per la penisola, e che segnerà con una lunga scia di proteste, di scontri violenti e spesso di moti i decenni successivi all’unità. Un’Italia dissidente che si configura come fortemente anticlericale, antimilitarista, antiautoritaria.
È in queste linee di frattura che Bakunin scorge la possibilità di una rivoluzione sociale capace di cambiare la realtà delle cose. E si rivolge ai cosiddetti «sconfitti» del Risorgimento che «all’indomani della proclamata unità, anziché alzare le mani in segno di resa, consegnarsi prigionieri ai vincitori, adattarsi al regime monarchico, insomma capitolare, iniziano con accresciuto vigore la loro battaglia per un’Italia diversa, più avanzata, più civile e libera, cominciando dove gli altri avevano finito»7. Sono gli eretici del Risorgimento, spesso scomodi, irregolari e refrattari alla logica di ogni partito.
La presenza di Bakunin in Italia ha certamente significato il confronto e il conflitto con l’ideologia mazziniana, ma anche la definizione iniziale della fisionomia del movimento operaio e socialista, attraverso la diffusione dell’Internazionale in Italia, soprattutto occupandosi, per primo, delle «masse agricole del Mezzogiorno, senza considerarle strumenti di reazione e non deplorando l’avvenuta unificazione nazionale»8. A Bakunin spetta un posto di primo piano nella storia delle origini del movimento socialista italiano e internazionale. Chi voglia penetrare quel movimento non può astrarre da lui.
Giunge nel «Bel Paese», assieme alla moglie Antonia Kwiatkowska, nel gennaio del 1864 dopo una fuga rocambolesca dalla Siberia dove era stato confinato dal governo russo. Il 1864 segna una svolta decisiva nel pensiero politico di Bakunin. A partire da quell’anno, infatti, si dedica completamente alla causa del socialismo rivoluzionario. Da quel momento la questione sociale costituisce la sua principale preoccupazione.
La fredda Torino è la sua prima tappa. Poi raggiunge Genova e da lì si imbarca per Caprera a far visita a Garibaldi. Di quei tre giorni di visita, delle persone e dell’ambiente dell’isola, abbiamo un’importante fonte di informazione: la testimonianza diretta di Bakunin. In una lettera alla contessa Elizaveta Vasil’evna Salias-de-Tournemire il russo, infatti, descrive dettagliatamente la sua permanenza sull’isola, tratteggiando la figura politica e umana di Garibaldi.
Dopo Caprera, Firenze, dove, fra una riunione e l’altra, ha anche la possibilità di visitare la città e di conoscere le sue opere d’arte. Conosce molti esponenti dell’ambiente democratico e massonico toscano. Nell’estate del 1865 si trasferisce a Napoli, città che amerà profondamente e dove resterà fino al 1867.
Quando Bakunin parla dei contadini riesce a offrirne una lettura penetrante, quasi da etnografo o antropologo culturale, attenta in particolare al rapporto che passa tra mentalità e aspetti della vita collettiva e quotidiana. In particolare sottolinea la presenza pervasiva della Chiesa nelle campagne e la colpevole assenza di un dialogo tra città e campagna, tra le energie democratiche ed emancipatrici del paese e un mondo contadino di cui si ha un’immagine preconcetta; o meglio, che non si vuole affatto conoscere: «I contadini sono l’immensa maggioranza della popolazione italiana, rimasta quasi completamente vergine perché non ha avuto ancora una sua storia, dato che tutta la storia del vostro paese, come ho già osservato e come voi sapete meglio di me, si è finora esclusivamente concentrata nelle città, ben più che negli altri paesi europei. I vostri contadini non hanno partecipato a questa storia, e non la conoscono se non per i contraccolpi che hanno ricevuto a ogni nuova fase del suo svolgimento, per la miseria, la schiavitù e le sofferenze innumerevoli che essa ha loro imposto. A causa di tutte queste sventure che sono piovute loro addosso dalla città, i contadini naturalmente non amano le città né i loro abitanti, compresi gli stessi operai, i quali li hanno sempre trattati con una certa supponenza, cosa che ora pagano con la diffidenza. Ed è questo rapporto storicamente negativo dei contadini italiani con la politica della città quello che nelle campagne conferisce potere ai vostri preti, e non la religione. I vostri contadini sono superstiziosi, ma niente affatto religiosi; amano la Chiesa per la sua messinscena scenografica, per le sue cerimonie recitate e cantate che interrompono la monotonia della vita rurale. La Chiesa è per essi come un raggio di sole in una vita di stenti e di lavoro omicida, di dolori e di miseria […].
La massa dei contadini italiani rappresenta già di per sé un esercito immenso e onnipotente per la vostra rivoluzione sociale. Guidato dal proletariato urbano e organizzato dalla gioventù socialista rivoluzionaria, questo esercito sarà invincibile. Di conseguenza, cari amici, quello che dovete fare, nel momento stesso in cui organizzate gli operai urbani, è trovare i mezzi per rompere il ghiaccio che separa il proletariato delle città dal popolo delle campagne, e così unire questi due popoli in un popolo unico. Sta qui la salvezza dell’Italia» [cap. II, p. 81].
Al momento dell’unità l’Italia, popolata da circa 25 milioni di abitanti in larga parte analfabeti, è un paese essenzialmente agricolo, e prevalentemente agricola l’Italia sarebbe rimasta ancora a lungo, fino alle soglie della seconda guerra mondiale. È noto che al processo di unificazione, che come quasi tutti i grandi eventi storici non era ineluttabile, restano estranei i contadini, che costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione, con atteggiamenti che vanno dall’indifferenza all’aperta ostilità. Il distacco delle masse rurali dalla causa risorgimentale è stato spiegato dagli storici sia attraverso motivazioni complesse che affondano le radici nella storia del paese (la subalternità della campagna rispetto alla città, la funzione di conservazione sociale svolta dalla Chiesa, la tradizionale diffidenza del contadino nei confronti delle novità), sia, sul piano più immediato di quegli eventi, dalla miopia politica del movimento democratico che non capisce quanto sia centrale il coinvolgimento delle masse contadine per il tentativo rivoluzionario di trasformazione del paese.
Bakunin pone la questione sociale, in particolare nel Mezzogiorno, al centro della sua riflessione storico-politica per la trasformazione socialista anarchica della società italiana. La questione sociale è una questione di miserie per le grandi masse della popolazione, di analfabetismo, di fame, di malattie da denutrizione o cattiva alimentazione, di disoccupazione e bassi salari, di sfruttamento e di forzata emigrazione, in Val Padana come nel Mezzogiorno; una questione aggravata in quel periodo da una situazione ambientale drammatica: l’epidemia di colera che, scoppiata nel luglio 1865 ad Ancona, si propagherà soprattutto nel Meridione d’Italia e a Napoli in particolare, causando più di 160.000 morti.
Bakunin mette in evidenza il carattere strutturale dell’arretratezza delle masse contadine e incita a non sottovalutare i movimenti di protesta e di rivolta, a non leggerli solo come una reazione al cambiamento. In questo senso, sul piano politico sottolinea l’incapacità dei democratici, che fanno capo a Mazzini, di scorgere la centralità che nell’Italia di quei decenni riveste la questione contadina, cosa che impedisce di elaborare un programma capace di scuotere le popolazioni rurali, di prospettare una trasformazione dell’assetto sociale tale da eliminare gli squilibri e le ingiustizie, a partire dal brutale sfruttamento di milioni di contadini.
Due sono le manifestazioni più clamorose delle tensioni sociali di quel periodo: il brigantaggio, che sconvolge la vita del Mezzogiorno tra il 1861 e il 1865, stendendo le sue ultime propaggini fino al 1870, e i moti del «macinato», entrambe risolte come un problema di ordine pubblico, attraverso l’applicazione di una legislazione speciale. È questa la prima preoccupazione delle classi dirigenti liberali, oltretutto allarmate dalla presa che avrebbero potuto avere le idee socialiste in un tale contesto di disperazione. La lotta sarà lunga e sanguinosa, e lo Stato potrà portarla a termine con successo soltanto con un massiccio spiegamento di forze (più di 100.000 uomini), con il ricorso a leggi eccezionali e con l’invio su larga scala dei sospetti al domicilio coatto. Tuttavia, questa linea di intervento non farà altro che aggravare ulteriormente il divario Nord-Sud e confermare l’ingovernabilità politica del Mezzogiorno, diffondendo la percezione di un’alterità antropologica delle regioni del Sud Italia. Stereotipo e pregiudizio cui contribuirà anche quella branca della scienza positivista connessa all’antropologia criminale di Lombroso che, teorizzando una particolare conformazione anatomica dei crani dei briganti, identificati come «delinquenti-nati», alimenta l’idea di una «diversità» connaturata ai meridionali che si colora di motivazioni razziali.
Il brigantaggio, al di là dei tentativi di strumentalizzazione operati da borbonici e clericali e degli episodi di criminalità comune, appare nel suo complesso a Bakunin come una grande occasione di lotta popolare9, intuendo le radici sociali del fenomeno così come le ha intuite anche Garibaldi. Al di là della mitizzazione (attribuita a Bakunin) della figura del brigante come eroe positivo, il rivoluzionario russo coglie con acutezza come il brigante non sia solo un bandito, ma un attore sociale che rispecchia i profondi malesseri della società.
Due anni prima dell’arrivo di Bakunin a Napoli, un altro famoso personaggio, Alexandre Dumas, lascia la città partenopea dopo un soggiorno di due anni. In un gran numero di articoli lo scrittore francese descrive e denuncia la miseria del Mezzogiorno e la cancrena della camorra, invocando un’iniziativa di riforme dall’alto che possa rispondere alla disperazione che porta alla scelta del brigante1010. Bakunin tradurrà questa analisi in un progetto politico che riassume soprattutto in Stato e Anarchia, dove sottolinea l’importanza di un’organizzazione politica, di un preciso progetto per un attore sociale (i contadini e gli operai uniti), e di una lotta per l’affermazione della sua autonomia. La miseria del Mezzogiorno e la disperazione delle plebi meridionali su cui Bakunin si dilunga accantonano definitivamente l’atteggiamento paternalistico nei confronti della questione e segnano un passaggio di testimone, come Nello Rosselli nel suo Mazzini e Bakunin non manca di rilevare. Quelle pagine nascono proprio dalle molte note che Bakunin scrive durante il suo periodo italiano.
Le raccolte antologiche contengono in sé un carattere necessariamente limitato dei brani proposti. Per questo motivo la selezione dei brani, tra i tanti possibili, ne ha verosimilmente escluso altri egualmente importanti. Nonostante ciò, la scelta di questa breve antologia non dovrebbe aver intaccato gli intenti informativi e critici che si proponeva. I brani presentati abbracciano un arco cronologico che va dal 1864 al 1873. A ognuno di essi è stato attribuito un titolo. Questo ha permesso di dar conto di un legame argomentativo tra i diversi brani. L’antologia comprende anche un’Appendice di lettere, presentate in ordine cronologico, scritte da Bakunin durante il suo soggiorno italiano.
I testi sono accompagnati da alcune immagini, tra cui spiccano tre disegni, fino a questo momento inediti, ripresi dall’«album italiano» di Natalja Bakunina, cognata di Michail, che lo ritraggono durante il suo soggiorno partenopeo. Nel primo di questi Bakunin è ritratto, come nota l’appunto manoscritto della cognata, mentre assiste all’esecuzione dell’inno garibaldino da parte di alcuni scugnizzi napoletani.
Note all’Introduzione
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George Woodcock, L’Anarchia. Storia delle idee e dei movimenti libertari, Milano 1968, p. 127.↩
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Nei secoli XVIII e XIX visitare l’Italia è considerato dalle classi colte europee, specialmente da quella britannica, una parte essenziale dell’educazione di ogni giovane gentiluomo. Il picco di quella che è una vera e propria istituzione si ha nel corso del XVIII secolo, ma il fenomeno si estende fin oltre la metà del XIX secolo. Progressivamente la base sociale dei viaggiatori si allarga: i «turisti» appartengono ora anche alla borghesia. E cambia al contempo il valore del «Grand Tour», che diventa sempre più un’esperienza di vita, un momento di accrescimento intellettuale e quindi di arricchimento personale. Il termine «Grand Tour» compare per la prima volta nella traduzione in francese dell’opera An Italian Voyage dell’inglese Richard Lassels, pubblicata nel 1670 come guida per studiosi, artisti e collezionisti d’arte in visita in Italia. Tra i grandi viaggiatori anche Johann Wolfgang von Goethe, che effettuò il suo «Grand Tour» italiano dal 1786 al 1788, riportato nel suo famoso Viaggio in Italia pubblicato in tre volumi: il primo nel 1816, il secondo nel 1817 e il terzo nel 1829.↩
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È impossibile ormai non riconoscere la statura intellettuale, morale e politica di Bakunin e non c’è più alcun dubbio, almeno nel mondo degli studi (anche se qualche oca ancora starnazza sul campidoglio), che il pensiero e l’azione di Bakunin costituiscano un tassello ineliminabile del patrimonio storico del movimento operaio e socialista italiano e internazionale, e specificamente del suo filone rivoluzionario e libertario, di cui Bakunin è stato fondatore e teorico di eccezionale valore. Il suo pensiero è inseparabile dalla sua attività pratica rivoluzionaria, anche se in passato il primo è stato spesso considerato subalterno alla seconda, assai più «appariscente», rendendone più ardua e problematica la «lettura». Pochi pensatori infatti sono stati così mal compresi e sottovalutati come Bakunin, tanto che fino a qualche anno fa nessuno aveva dedicato uno studio sistematico al suo pensiero. L’aver stravolto le sue modalità originali e la sua espressione storica autentica ha comportato una lunga sequela di contraddizioni che hanno impedito di formulare una critica coerente. D’altronde, gli stessi «critici» sono in completo disaccordo tra loro. Dopo aver fatto una «caricatura storica» di Bakunin, con una ricostruzione fondata su alcuni dati completamente falsi e su altri manomessi o alterati in modo decisivo, taluni hanno creduto di averlo definitivamente relegato nel campo della curiosità e dell’aneddotica sociale. Disinvolti utilizzi a fini di battaglia politica, usi e soprattutto abusi del suo pensiero e della sua stessa figura, dispute smaccatamente ideologiche e irrimediabilmente datate, nonostante alcuni spunti seri e interessanti, appaiono oggi in tutta la loro evidenza. Molto è stato scritto dagli avversari politici di Bakunin anche sulla scarsa organicità dei suoi testi, utilizzata come stereotipo per descrivere un rivoluzionario disordinato e inconcludente tanto nei suoi pensieri quanto nelle sue azioni. È vero che il pensiero di Bakunin ha nell’aspetto formale un carattere non sistematico, a volte persino confuso (anche se mai contraddittorio), ma una lettura attenta di tutta la sua opera fa emergere con grande nettezza uno sviluppo logico e una sostanziale unità. Eppure, questa mancanza di compiutezza formale ha fatto scrivere a moltissimi critici di diversa estrazione ideologica che il pensiero di Bakunin è un pensiero impressionistico, episodico e sostanzialmente poco originale. Per loro, il rivoluzionario russo sarebbe solo un grande assimilatore con letture oltretutto superficiali. E invece la sua dimensione originale nasce proprio da questa natura solo apparentemente disorganica, una provvisorietà e transitorietà che esprimono non solo il momento storico in divenire ma anche il farsi di un pensiero politico inedito come quello anarchico. La mancanza di sistematicità rappresenta dunque non il limite ma la grandezza del suo pensiero, che gli ha consentito di elaborare alcune intuizioni folgoranti che sono andate ben oltre la sua epoca. Per lo studio del pensiero di Bakunin, cfr. Giampietro N. Berti, Un’idea esagerata di libertà. Introduzione al pensiero anarchico, Milano 1996, e dello stesso autore, Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento, Manduria-Bari-Roma 1998. Sulle dispute storico-ideologiche del passato, in particolare sulla questione dell’influenza di Bakunin nella formazione del nascente movimento operaio e socialista italiano, cfr. per esempio Pier Carlo Masini, Testimonianza del soggiorno napoletano di Michele Bakunin, in Michele Bakunin, Scritti napoletani (1865-1867), Bergamo 1963, pp. 101-106.↩
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Salvatore Lupo, L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile, Roma 2011, p. 5.↩
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Giulio Bollati, L’italiano, in AA.VV., Storia d’Italia. I caratteri originari, Vol. 1, Torino 1972. Nel suo celebre saggio, lo storico Bollati contesta la fondatezza della nozione di «carattere nazionale» non solo mostrando come questa sia il frutto di una semplificazione storica e di generalizzazioni indebite, ma soprattutto che ciò che un popolo è coincide, in verità, con ciò che si vuole debba essere. Nel caso dell’«italiano», la costruzione del suo preteso carattere si manifesta in modo evidente alla vigilia e durante il processo di formazione dello Stato nazionale.↩
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Salvatore Lupo, op. cit., p. 10.↩
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Sui cosiddetti «sconfitti» del Risorgimento, vedi le illuminanti pagine scritte da Pier Carlo Masini in un libro poco noto ma molto importante nel percorso di indagine storica che lo storico toscano dell’anarchismo aveva intrapreso fin dalla fine degli anni Quaranta. Pier Carlo Masini, Eresie dell’Ottocento. Alle sorgenti laiche, umaniste e libertarie della democrazia italiana, Milano 1978, pp. 9-10.↩
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Nello Rosselli, Mazzini e Bakunin, Torino 1973, p. 81.↩
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Bakunin, a differenza dei marxisti, non parla mai di «lotta di classe», ma di «lotta popolare». L’espressione chiarisce un tema centrale del suo pensiero: l’alleanza operai-contadini. Mentre per i marxisti le masse contadine dovevano seguire la strategia della classe operaia, per Bakunin esse erano e dovevano restare in una posizione di parità. E questo per due motivi. Il primo rimandava alla convinzione che la lotta della classe operaia, separata da quella contadina, avrebbe favorito la logica del capitalismo industriale, aumentando così il divario città-campagna e isolando maggiormente il movimento operaio dalla lotta generale degli sfruttati. Il secondo rimandava alla convinzione che tale lotta non dovesse perdere il carattere storico che gli sfruttati gli avevano assegnato: quello di essere una lotta sociale. Il termine «lotta sociale» era diventato cruciale nel linguaggio bakuniniano, in quanto comprendeva anche il senso rivoluzionario di lotta politica. La differenza di linguaggio rispetto ai marxisti nascondeva dunque una questione di fondo. Infatti riguardava non solo la diversa interpretazione del significato storico della Prima Internazionale, ma anche il significato, la funzione e il fine della lotta generale di tutti gli sfruttati. Affinché tale lotta non costituisse il trampolino di lancio di una nuova classe per la conquista del potere, cambiando solamente la forma dello sfruttamento, occorreva una lotta più generale, portata avanti contemporaneamente da tutti gli sfruttati.↩
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Alexandre Dumas, La Camorra e altre storie di briganti, Roma 2012.↩