Credere senza dogmi
Libro
Credere altrimenti
Vaccaro
Cartaceo 17,10 € E-book 8,99 €
dom 22 gen 2023
INDICE DEL LIBRO:
PREFAZIONE Credere senza dogma di Salvo Vaccaro
CAPITOLO PRIMO Credenza, anarchismo e modernità di Daniel Colson
CAPITOLO SECONDO Poesia vissuta: Stirner, l’anarchia, la soggettività e l’arte di vivere di John Moore
CAPITOLO TERZO L’Ascesi di Camus. Leggere Camus alla luce dei Carnets (e di L’Impromptu des Philosophes) di Matthew Sharpe
CAPITOLO QUARTO Mettere insieme le cose: Camus, Foucault e un’etica del sé di Geoffrey Parkes
CAPITOLO QUINTO Mahatma Gandhi e Michel Foucault di Max B. Cooper
CAPITOLO SESTO Potere, libertà e obbedienza in Foucault e La Boétie. La servitù volontaria come problema del governo di Saul Newman
Chi vuole dominare è sordo. Di fronte a lui bisogna combattere o morire. […] Per combattere, si deve credere in qualcosa. Albert Camus
La fede non è sempre stata e non sarà sempre identificabile con la religione, né – ed è ancora un’altra cosa – con la teologia. Non ogni sacralità e ogni santità è necessariamente, nel senso stretto del termine, sempre che ce ne sia uno, religiosa. Jacques Derrida
In cosa crediamo quando crediamo fortemente in qualcosa? Si danno credenze in forme dogmatiche, inconfutabili, e si chiamano fedi; si danno credenze in forme irrazionali, indiscutibili perché totalmente interne a una cerchia ristretta, e si chiamano superstizioni; è possibile credere altrimenti? Si possono intravedere forme di credenze che oltrepassano la dicotomia tra razionale e irrazionale, tra fede e ragione, come se esistesse davvero una base oggettiva che valida una credenza? La storia ci mostra tanti esempi di investimenti passionali in credenze contingenti, occasionali, in cui buttarsi anima e corpo sino a rischio della propria vita. Sono eventi che fuoriescono dagli schemi religiosi o irrazionali: che tipo di statuto possiedono? E sempre la stessa storia ci mostra altresì prese di posizione che si protraggono nel tempo, attraversando tempeste esistenziali e traversie singolari, la cui persistenza non vuol affatto dire testardaggine e ottusità, bensì scelte di vita, flessibili e intangibili, adattive e inaggirabili giusto al di qua di una misura impalpabile quanto invalicabile che attesta incorruttibilità e non-vendibilità mercificata.
Non faremo riferimento a saperi in cui credere, quanto meno non in senso esclusivo e unilaterale, bensì a credenze minori (in senso deleuziano) in cui i modi di conoscenza si trasfondono in tipi di agire, in cui sapere e potere si declinano congiuntamente, in cui la condotta singolare si staglia in forma plurale per forza costitutiva e non per accidente aristocratico. Una credenza incarnata è ethos, di cui rifletterne la potenza e l’ampiezza, l’esemplarità diffusiva e la profondità nel tempo. È minore perché singolarmente agita in una cornice mainstream, egemonica, contro la quale praticare l’eccedenza, la sovversione dei limiti di pensiero e di azione, la «deterritorializzazione [in cui] tutto è politica […] ogni fatto individuale [è] immediatamente innestato sulla politica [e] tutto assume un valore collettivo»1. È incarnata perché non si limita affatto a un’adesione intellettuale, culturale, raggiunta alla luce della ragione che ne conforta la giustezza ai propri occhi e davanti agli occhi di un pubblico (ma sappiamo che «una luce troppo forte acceca gli occhi»2, come spesso accade nei movimenti sociali e politici che coniugano lo slancio rivoluzionario con la ripetizione sostitutiva del sempiterno modello d’autorità), bensì incorpora ciò a cui si dà credito, ciò in cui si crede, sino a renderlo indistinguibile dal proprio posizionamento nel mondo della vita, al di là perfino della costruzione identitaria di sé, non inamovibile ma mobile, proiettata nel divenire perché, al limite, messianica senza essere escatologica.
Né faremo riferimenti a tavole di valori meta-etici, che si pongono (per così dire) per natura, che si danno (per così dire) ontologicamente, che esistono (per così dire) da sé e che invocano unicamente la nostra adesione o il nostro diniego. Ciò a cui si crede, per riprendere la citazione di Camus in epigrafe, non è un atto di fedeltà, bensì un atto di creazione, di costruzione di pratiche singolari e plurali la cui ostinata reiterazione nel tempo conferisce una potenza di valorizzazione collettiva che, eventualmente, assume il nome sostantivato – e perciò equivoco – di «valore»: «Ciò che soltanto ha valore nel mondo attuale, non è che lo abbia in sé stesso, secondo la sua natura (la natura è sempre priva di valore): il fatto è invece che questo valore gli è dato, donato una volta, e noi fummo a dare e donare! Soltanto noi abbiamo creato il mondo che in qualche modo interessa gli uomini»3.
Come è noto, i diversi movimenti anarchici sparsi nel tempo e nello spazio del moderno hanno perseguito pratiche di lotta incarnate in una progettualità radicalmente inattuale rispetto a un ideale rivoluzionario di tipo mimetico, ossia teso a riproporre un modello di autorità politica pur di segno differente rispetto al regime spazzato via dall’evento sovversivo. L’agire destituente che depone l’autorità, nelle intenzioni delle anarchiche e degli anarchici in ogni tempo e luogo, non viene seguito da una ricostituzione d’autorità secondo un immaginario plasmato dall’istituito: è l’utopia anarchica che tende a farsi topica in un punto di differenza radicale rispetto alle altre concezioni di rivoluzione moderna – scissa (ma non tanto, a ben vedere) dalla genealogia del movimento astronomico dell’eterno ritorno del sempre-eguale…
Al di qua degli esiti di una progettualità che ha fatto fatica e fatica tuttora a farsi storia, se non episodicamente, per frammenti aforistici che si incendiano in un fiat e si spengono in un bit per non subire l’oltraggio di una reazione contraria, l’immensità dell’impresa anarchica non ha scoraggiato mai e in nessun luogo le anarchiche e gli anarchici da un impegno esemplare in tale direzione «ostinata e contraria» rispetto alla corrente impetuosa che rivendica la reiterazione dell’arché sotto ogni spoglia di eteronomia anche quando l’an-arché sembra per un attimo brillare autonomamente di luce propria. Nella passione militante si fonde, in un certo senso, la vita di un’esistenza singolare composta di azione e pensiero, di corpo e mente. A ogni costo possibile e immaginabile. Una vita esemplare anche nella quotidianità banale di chi ha incarnato e incarna un ideale proiettato nel pensiero, che riceve valore non in quanto ideologia, bensì perché incorporato nella vita, nelle pratiche giornaliere, non certo straordinarie ma talvolta anche in relazione a circostanze eccezionali o a tempi storici inusuali, in cui l’ethos anarchico segna l’indistinzione – tale dovrebbe essere – tra sfera pubblica, esteriore, dell’impegno sociale e politico, e sfera privata, della solidarietà tra eguali nella differenza, nella buona e nella cattiva sorte. Come se l’anarchia non sia solamente di là da venire, ma che possa divenire eventualmente solo perché la si pratica giorno dopo giorno. Un ethos politico singolare e plurale. Incurante del prezzo da pagare, che in tanti casi è stato alto e tragico, dato che a ciascuno/a è data una sola chance di esistenza al mondo.
In genere, si collega l’esemplarità a una serie di doti individuali che rilasciano del carisma, o che attengono al genere della testimonianza, o che si apparentano a una attitudine sacrificale sino a toccare il martirio per le proprie idee. O che intrecciano in misura differenziata, caso per caso, tali elementi. Se tuttavia pensiamo all’idealtipo, storicamente concreto, del militante anarchico ottocentesco e novecentesco, riterrei fuorviante l’uso di tali categorie per motivarne la passione e la traiettoria di vita, peraltro rinvenibile nelle biografie pressoché analoghe di «grandi» e «piccoli» personaggi del movimento anarchico e libertario di quei secoli. Ciò perché il carisma, per esempio, segnala una qualità di per sé extra-ordinaria che può essere specifica per qualcuno ma non per molti, e soprattutto non per l’ognuno di una comunità, al di qua di ruoli e funzioni ricoperti. La testimonianza delinea una categoria analitica di un posizionamento nel mondo che non sempre si incarna in un agire sul mondo, giusto o sbagliato che sia, efficace o inutile che sia, talvolta con un corredo di auto-beatitudine estetizzante che non collima con l’attivismo militante più o meno organizzato. Il sacrificio di sé nel martirio contraddice la gioia di vivere e l’utopia del mondo nuovo portato nei cuori del presente che caratterizza l’idea anarchica di sovversione delle relazioni sociali catturate dall’istituzione e dal pensiero statuale.
Più in generale, non credo che il processo di valorizzazione della vita che la passione anarchica (ma potrebbe valere anche per altri tipi di movimenti che si richiamano ad altre costellazioni di pensiero) innesca nelle proprie componenti singolari sia leggibile attraverso le lenti della religione, sino a comparare il messaggio religioso del proto-cristianesimo o addirittura cristico (della stessa figura più o meno storica di Gesù) all’anarchismo propriamente inteso. Già la finzione etimologica dell’attribuzione del collante sociale e comunitario alla religione – anziché più correttamente rinviare all’obbligazione di «raccogliere» ciò che viene tramandato nel culto, anche attraverso l’adesione alla figura incarnata del verbo divino4 – ci induce a considerare che non è necessario regalare alla spiritualità religiosa una serie di pratiche individuali e collettive praticate in senso dichiaratamente ateo e agnostico, ma non di meno cariche di tensioni immateriali: «La carità, la temperanza, la compassione, la misericordia, l’umiltà, così come l’amore verso il prossimo e il perdono delle offese, […], il disinteresse per i beni di questo mondo, l’ascesi etica che rifiuta il potere, gli onori, le ricchezze, al pari di tanti altri falsi valori […]»5.
Inoltre, nonostante i numerosi lavori tesi ad annodare le affinità tra anarchismo e religioni (dal cristianesimo al buddhismo, dall’ebraismo al daoismo)6, ben al di qua della loro eventuale istituzionalizzazione in Chiesa e in gerarchia ecclesiastica, riterrei non opportuno appiattire la pratica della convinzione in un ideale – appassionata e autocritica al contempo, tenace e sempre all’erta del dubbio della ripetizione sterile – con il culto della fede che incorpora il dogma nel vissuto del fedele, sino al limite estremo del fanatismo. Forse nella lingua italiana credenza è maggiormente assimilabile alla superstizione che non al Belief inglese, così che ricorrere alla fede sembra una scorciatoia terminologica più adeguata. E Derrida soccorre in tale direzione, quando si sforza di sganciare la fede dalla religione, privandola dell’aura di dogmaticità e riavvicinandola a una razionalità non tanto cerebrale, quanto calda di sensazioni ed emozioni7. Come se un ethos laico possa egualmente trattenere in sé istanze singolari e plurali che valorizzano pratiche di intoccabilità della vita prossime agli ideali concreti di eguaglianza nelle differenze, di solidarietà tra diversi, di affinità condivise e non impilabili gerarchicamente, di antiautoritarismo fedele a una concezione reticolare e orizzontale dei rapporti sociali a-statuali. Una sorta di «santa anarchia», «comunità senza autorità, […] una comunità che per durare non ha bisogno di nessuno che la governi», cui però Buber aggiunge in via teocratica: «nessuno tranne Dio solo»8…
In italiano credere evoca non solo convinzioni tenute per vere, ma anche congetture con le quali azzardare letture sul mondo e sul suo significato. Suoi strumenti di percorso metodologico sono il dubbio e una certa attitudine scettica, non credulona. Mentre le ipotesi possono essere verificabili, con il paradosso che il credere privo di riscontri rafforza superstizioni e fedi in ogni «cosa», le congetture non sempre sottostanno al principio di realtà della sua verifica oggettiva, per cui credere senza il filtro di verità significa poter sognare mondi diversi e migliori, senza alcuna certezza che essi potranno darsi sul piano del principio di realtà, in qualunque termine di misurabilità (breve-medio-lungo). Ma non tutte le credenze senza fondamento, ossia «quelle che non possono essere validate, o perché sono false, come spesso accade, o perché nulla permette né di confermarle né di confutarle»9, sono necessariamente religiose. Lo spazio per credere altrimenti si istruisce proprio a partire dall’elusione di tale dilemma vincolante, così prossimo a scambiare scetticismo per fanatismo, a interpolare dubbio e certezza.
Credere per fede comporta infatti non soltanto un atto di obbedienza a un corpus dogmatico, che pur tuttavia non esclude una razionalità, ma segna uno scarto qualitativo tra fede e ragione, come se quest’ultima fosse costitutivamente insufficiente – perché contrassegnata dal peccato originario permanentemente a vita che invalida la pienezza ontologica del «politikon zoon […] logon de monon anthropos echei ton zoon» aristotelico – a motivare il senso dell’esistenza di fronte all’angoscia della nostra finitudine umana, incapace di proiettarsi riflessivamente nell’al di là della vita, e che pertanto necessita di ricorrere a una potenza supplementare dettata dalla fede che salva l’umano dalla perdizione esistenziale della sua finitezza. Quindi, come se a fronte del nulla da cui proveniamo e verso cui ci dirigiamo, l’unica salvezza consista nell’obbedienza a dogmi e riti liturgici che anestetizzano la carica nichilistica, cancellando preventivamente la capacità, razionale ed emotiva insieme, di reggere esistenzialmente sul filo dell’abisso del nulla, dando senso allo spazio temporale di vita nel mondo che ci è dato casualmente da vivere. Infatti, credere senza dogma significa innanzitutto puntare del tutto le proprie chances esistenziali nell’arco di vita concentrandoci su cosa fare, come agire, con chi vivere, in che modo convivere, quali pratiche singolari e plurali adottare, e via continuando. Altro che insufficienza! Proprio dare significato alla vita e alla sua forma plastica e mobile – gli anarchici sono contro la statualità che fissa la forma all’interno di una cornice di inamovibilità dettata dal dominio come arché, principio e comando insieme – innerva il nostro stare al mondo sfuggendo all’ossessione della morte che Heidegger attribuisce al nostro essere-per, appunto depistandoci dal compito di colmare di senso la vita senza però poterci appoggiare a un fondamento onto-teo-logico che ci offra un ancoraggio di stabilità (in questo caso sinonimo di statualità) da cui ricavare un’unica verità redentrice dell’esistenza.
Scindere la religione come forza di senso dalla ritualità con cui si tramandano riti e verbi rischia di separare arbitrariamente la potenza dell’arché come principio da cui tutto deriva dalla potenza dell’arché come comando che induce obbedienza, spesso volontaria, come ben sappiamo da de La Boétie in poi: «Non è per ragionamento o per mezzo del nostro intelletto che abbiamo ricevuto la nostra religione, è per autorità e per comandamento estraneo»10. Tradizione e comando, riti e gerarchia, appunto. Del resto, è il preciso significato dell’ortodossia: «Sottomettere sé stessi, compresa la propria mente scettica e priva di fede, agli insegnamenti della Chiesa. ‘Eresia? significa letteralmente ‘scelta’, la scelta di seguire i propri pensieri ribelli. Essere ortodossi, allora equivale a opporsi a quei pensieri e a ubbidire»11.
Il duro percorso dall’eteronomia all’autonomia di pensiero e di azione si nutre di convinzioni profondamente innervate nel singolo o in gruppi, è un percorso di liberazione e, al contempo, di acquisizione di libertà. Sbarazzarsi di certezze ritenute vere da tempo sovente immemore, tradotte in tradizione attraverso le comunità di socializzazione, non è mai stato un compito agevole e leggero, significando porsi contro corrente, percepire nettamente l’ostilità della propria comunità di riferimento a causa del tradimento della tradizione, correre il rischio dell’estraneazione culturale, talvolta fisica maturando l’esperienza dell’esilio forzato, affrontare il pericolo del bando e della morte in casi estremi (ma familiari in date epoche). Eppure, chi ha osato affrontare coraggiosamente tale percorso verso l’autonomia si è nutrito di convinzioni altre rispetto a quelle consolidate, magari aprendo la strada ad altri ma non per sé. Ha creduto altrimenti. Quasi mai tali convinzioni, avendo decostruito le fondamenta sulle quali si erano erette verità credute vere e ora in via di essere invalidate e denegate, affondano a loro volta su basi di certezza sulle quali contro-erigere nuove verità. Spesso, lo spazio interstiziale che si apre a voragine nel tempo di esodo da una fede e di adesione a un convincimento non fideistico, non dogmatico, si offre privo di un assioma di riferimento cui ancorare le proprie fragilità, in cui incanalare il proprio percorso di autonomia, in cui perimetrare lo sforzo di orientarsi in un ambito di pensiero e di azione cui credere senza legami indiscussi perché indiscutibili, appunto dogmatici.
Non siamo in presenza di un fondamento teologico o di un ancoraggio ontologico che ci scolpiscono il panorama programmatico di riferimento. L’altrimenti si presenta instabile, precario, sul precipizio di un abisso senza fondo in cui non cadere e dal quale non arretrare, pena il regresso all’eteronomia da cui si cerca di sfuggire. Difficile equilibrio, vissuto sulla propria pelle, inciso nella carne dell’esperienza, segnato nel corpo-mente di cui siamo fatti. Difficile ricerca di bussole di orientamento, di prese provvisorie cui agganciarsi di volta in volta senza unirsi a esse una volta per tutte, di costellazioni nelle quali operare linee di connessione contingenti, pronte a essere ritracciate configurando altri profili di pensieri e di azioni convinte.
Credere intensamente in convinzioni altre maturate in percorsi accidentati e pericolosi significa pertanto compiere un «atto performativo» che implica un investimento corporeo tanto sul piano razionale quanto su quello emotivo, che non rinvia a nulla di trascendente bensì «autocreazione collettiva»12, traducendosi alla fine in un ethos cui attenersi perché ritenuto vero, almeno per quel sé singolare o plurale. Secondo Simon Critchley, «l’idea di un’unione senza peccato è al centro di un anarchismo mistico»13, indebitandosi così esplicitamente a Landauer, per il quale «lo Stato è un rapporto, è una relazione tra gli uomini, è un modo in cui gli uomini si rapportano tra di loro, lo si distrugge adottando altre relazioni, comportandosi l’uno con l’altro in maniera diversa»14. Quindi un ethos politico che reinventa il conflitto con il dominio e le sue istituzioni gerarchiche muovendo dal proprio campo di significazione, da protagonista autonomo e non da antagonista sceso sul terreno altrui.
L’assenza di fondamento – cui saldare il credere in qualcosa – non ci precipita nel vuoto del nulla. Tutt’altro. A metà degli anni Novanta dello scorso secolo, sulla rivista «Liberal», venne pubblicato uno scambio di lettere tra Carlo Maria Martini, fine teologo, allora cardinale e vescovo di Milano, e Umberto Eco, proprio, tra i tanti temi affrontati, sul fondamento di un’etica laica «tanto determinata e inflessibile, tanto saldamente fondata quanto quella di coloro che credono nella morale rivelata, nella sopravvivenza dell’anima, nei premi e nei castighi». Eco la poggiava su «un fatto naturale […] quale la nostra corporalità e l’idea che noi sappiamo istintivamente che abbiamo un’anima (o qualcosa che ne fa funzione) solo in virtù della presenza altrui»15. Mettendo un attimo tra parentesi il ricorso alla naturalità, peraltro problematico, l’accento sulla relazionalità tra corpi singolari, solitari e intrinsecamente solidali perché legati da una relazione costitutiva mi sembra un investimento etico che si apre alla contingenza dell’esperienza e del suo rapporto con il mondo della vita nelle sue varie sfaccettature, rimanendo ancorato, o forse meglio: sospeso, sul vuoto della medesima contingenza, senza possedere certezze assolute, trascendenti, né essere esposto all’arbitrio delle forze impetuose che orientano le condotte umane ora di qua, ora di là, precludendo un’etica perché la violenza rompe ogni relazione possibile. Un investimento privo di garanzie che sfida il posizionamento di ciascuno nel mondo, inducendo a una presa di posizione quale tratto etico inerente l’umanità. Che poi tale investimento, immateriale e pertanto denominato spirituale, sia ricondotto a una salvezza trascendente è proprio ciò contro cui si oppone Derrida quando si sforza di sganciare il sacro dalla religione. Ma è anche ciò contro cui lotta Foucault quando introduce un elemento immateriale, spirituale, nella lotta politica, indicando come poste spirituali possano ben giocare un ruolo cruciale nello scegliere un codice di condotta etico, una posizione parresiasta contro il potere, un indirizzo singolare a un conflitto politico che non si risolve solamente e meramente in uno scontro tra fazioni o tra interessi o tra autorità in cerca di sostituirsi una all’altra16.
Giacché il nichilismo rappresenta il brodo di coltura del conformismo, della soggezione, del fatalismo atavico che, lungi dal negare il presente, ripiomba nella destinazione ineluttabile. La co-originarietà in Camus del No ribelle contro la «disperazione dell’esistenza» e del Sì «al divenire», all’«amore per la vita»17 nel segno della comunanza solidale tra esseri umani, valore indubbiamente provvisorio, intermedio, non assoluto, comunque sufficiente a «guidare la [loro] condotta», tratteggia la scommessa etho-politica su un oltre-passamento di sé e del mondo verso un orizzonte liberato e di liberazione in cui sperimentare forme di valorizzazione della condotta umana organizzata e associata: «Se l’assurdo annienta tutte le mie probabilità di libertà eterna, mi restituisce, invece, esaltandola, la mia libertà d’azione. Questa privazione di speranza e di avvenire significa un accrescimento nelle disponibilità dell’uomo»18. La forza dell’immaginario libertario in «un’altra vita» – «vivere il più possibile»19 – che crea conflitto nella realtà si esprime in una tensione congiuntamente etica e politica tesa a sottrarsi da «questo fantasma di libertà che sopravvive fra noi circondato da maestri di servitù»20.
In Camus i percorsi sociali di valorizzazione di pratiche etiche e politiche si collocano in una dimensione comune che eccede le frontiere, materiali e simboliche, di frammentazione del genere umano in tante appartenenze (nazionali, partitiche, etniche, ecc.). L’assonanza linguistica che in francese risuona tra solitaire e solidaire implica una concezione della singolarità umana che si compie solo nella forza del collettivo: «Ogni etica della solitudine implica la potenza»21. Lungi da un’estraneazione dal mondo in una nicchia individualista – il ribelle che dice No al tempo presente per dire Sì «al divenire»22 – lottare per qualcosa significa non tanto piegare il futuro a un proprio interesse di parte, quanto mettersi in gioco personalmente, denunciare, rischiare: «Si tratta di prendere posizione»23. Ecco la sfida parresiasta di Camus: «Mi riservo il diritto di dire quello che ormai so di me e degli altri, con l’unica condizione che questo non contribuisca ad aggravare l’insostenibile infelicità del mondo, ma serva solo a individuare, tra le buie pareti entro le quali ci aggiriamo a tentoni, i luoghi ancora invisibili ove possano spalancarsi le porte. Sì, mi riservo il diritto di dire quello che so, e lo dirò»24.
È precipuo compito dell’intellettuale porsi da parresiasta nei confronti del mondo, sul palcoscenico della storia, avverso ai poteri costituiti? A ben guardare, dai filosofi dei Lumi e dell’Encyclopédie a Zola dell’affaire Dreyfus, dire la verità si è declinato in tante varianti che articolano il senso linguistico della critica in una dimensione estetica spesso impolitica, peraltro talvolta più forte nella denuncia di quanto non risultasse da un testo letterario dall’impatto politico, vuoi di parte, vuoi pretenzioso. Per restare nella scena italiana, senza pretesa di esaustività ed estremamente in sintesi, sul finire dello scorso secolo Pasolini e Sciascia, con modalità differenti, si sono posti da parresiasti nei confronti del potere politico a essi coevo, il primo con una serrata indagine, multilinguistica e transdisciplinare, sulla sessualità e sul potere che incide sul corpo di sé e della nazione – come ricorda il celebre articolo sul «Corriere della sera» del 1974: Io so; il secondo attraverso una ricerca tagliente sui riti e sulle aporie del potere politico, specialmente in rapporto alla verità, nel suo gesto costitutivo della divorazione sacrificale25. Né andrebbe trascurato, in questo contesto, il drammaturgo e saggista Michele Perriera, i cui testi rappresentano una critica acuta del potere che muove da un a-topos incollocabile in termini di assenza di potere26. Più in generale, laddove i costi potenziali della scelta parresiasta sono più alti in termini di garanzia della vita e della libertà personale, ogni dissidente del potere istituzionale sotto qualunque latitudine si fa latore di una credenza incompatibile e inaccettabile, grazie alla quale eventualmente guadagnare credito nella sfera pubblica non addomesticata.
È stato senza dubbio Foucault a rinvigorire il concetto di parresìa nelle sue ultime ricerche, sottolineandone le varianti in era classica ma spingendosi pure in avanti sino a individuare tipi contemporanei di parresìa proprio nei dissidenti: «Il cinismo – l’idea di un modo di vita che sarebbe irruzione e manifestazione violenta, scandalosa, della verità – fa parte e ha fatto parte della pratica rivoluzionaria e delle forme assunte dai movimenti rivoluzionari nel corso del XIX secolo. La rivoluzione nel mondo europeo moderno […] non è stata semplicemente un progetto politico, ma anche una forma di vita. O, più precisamente, la rivoluzione ha funzionato come un principio che ha prodotto un certo modo di vita. E se volete chiamare, per comodità, ‘militantismo’ la maniera in cui è stata definita, caratterizzata, organizzata, regolata la vita come attività rivoluzionaria, o l’attività rivoluzionaria come vita, possiamo dire che il militantismo, come vita rivoluzionaria, come vita consacrata totalmente o parzialmente alla Rivoluzione, ha assunto, nell’Europa del XIX e del XX secolo, tre grandi forme»27. Forme reciprocamente intrecciate, non esclusive o escludenti l’una dall’altra, ossia una socialità solidale e segreta, clandestina; un’agibilità politica nella sfera sociale e pubblica, più o meno stabilmente organizzata; un’esperienza esemplare, testimoniale, in cui la coerenza tra dire e fare, tra fini e mezzi, viene assunta come misura etho-politica. L’«anarchismo europeo e americano» viene esplicitamente citato da Foucault in quel 29 febbraio 1984, a pochi mesi dalla sua prematura scomparsa.
Parlar franco, dire il vero costi quel che costi, alto rischio della propria vita, irriducibilità etica, avversione all’autorità: sono i segni distintivi che, specialmente nel caso del cinismo, esplicitano un’attitudine etho-politica che immette il gesto parresiasta nell’agone pubblico e nella conflittualità politica, esonerandola dai limiti della speculazione esclusivamente gnoseologica, o dell’ascetismo spiritualmente religioso o dell’intimismo psicologico della coscienza stoica. «Laddove c’è obbedienza non può esserci parresìa»28. È questa scelta attitudinale a porsi come motivazione immanente, priva pertanto di un quadro di riferimento trascendentale da cui attingere le ragioni del dissenso al potere costituito. Un’immanenza gratuita, ossia non dipendente, non eteronoma, ma al contempo non meramente arbitraria o capricciosa, dato il rischio di nudità di fronte alla forza sovrastante dell’autorità. Uno stile di vita «non dissimulata, indipendente, diritta, […] una vita radicalmente altra»29. È la forza della vulnerabilità assoluta che decide di non acquisire potere, ma solo potenza espressiva, effettiva, come di coloro che si trovano spalle al muro o sul ciglio di un burrone e tale posizione ne moltiplica i motivi di resistenza, senza alcuna aspirazione a cercare luoghi sostitutivi tramite i quali ribaltare i rapporti di forza per ergersi a nuova, meglio: rinnovata autorità. Il vecchio gioco della revolutio nell’eterno ritorno dell’identico sotto mutate spoglie…
Giusto ciò che l’an-archismo rigetta nella sua selvaggia negazione del comando e del cominciamento, dell’autorità istituita e dell’autorità originaria30.
Note alla Prefazione
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Gilles Deleuze, Félix Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, trad. it. Quodlibet, Macerata, 1996, pp. 29, 30, 31.↩
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Theodor W. Adorno, Fragment über Musik und Sprache, in Gesammelte Schriften, Band 16, Musikalische Schriften I-III, Suhrkamp, Frankfurt a/M, 2017, p. 254.↩
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Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, 301, trad. it. Mondadori, Milano, 1971, p. 168. «In verità, gli uomini hanno dato a sé stessi tutto il loro bene e male. In verità, essi non lo presero, non lo trovarono, né cadde loro come una voce dal cielo. Per conservarsi, l’uomo fu il primo a porre dei valori nelle cose, – per primo egli creò un senso alle cose, un senso umano! Perciò si chiama ‘uomo’, cioè: colui che valuta. Valutare è creare: udite, creatori! Valutare è di per sé il tesoro e il gioiello di tutte le cose valutate. Solo valutando egli conferisce valore: e senza di ciò la noce dell’esistenza sarebbe vuota. Udite, creatori! Mutamento dei valori – è mutamento dei creatori. Sempre distrugge chi è costretto a creare» (Così parlò Zarathustra, Dei mille e uno scopo, trad. it. Adelphi, Milano, 1976, p. 68). Tra l’immensa mole di commentari sull’idea nietzscheana di valore, seleziono a mo’ di esempio solamente Paolo Stellino, Problemi di metaetica nietzscheana, «Rivista di estetica», n. 58, 2015, pp. 175-190.↩
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Émile Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, trad. it. Einaudi, Torino, 1976, vol. II, cap. VII, pp. 485-496.↩
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Michel Onfray, Traité d’athéologie, Grasset, Paris, 2005, pp. 84-85, trad. it. Trattato di ateologia: fisica della metafisica, Fazi, Roma, 2009.↩
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La letteratura sul tema è sterminata; per una visione generale, cfr. Alexandre Christoyannopoulos (cur.), Religious Anarchism: New Perspectives, Cambridge Sch. Publ., Newcastle, 2009; Alexandre Christoyannopoulos, Matthew S. Adams (Eds.), Anarchism and Religion, 2 voll., Stockholm University Press, Stockholm, 2018; Nicolas Walter, Anarchism and Religion (1991),
; Peter Lamborn Wilson, «Anarchist Religion»? (2009), ; Paul-François Tremlett, On the Formation and Function of the Category «Religion» in Anarchist Writings, «Culture and Religion», V, n. 3, 2004, pp. 367-381. Per le connessioni teoriche tra anarchismo e buddhismo, cfr. Gary Snyder, Buddhist Anarchism (1961), ; Justin R. Ritzinger, Dependent Co-Evolution: Kropotkin’s Theory of Mutual Aid and Its Appropriation by Chinese Buddhists, «Chung-Hwa Buddhist Journal», 2013, 26, pp. 89-112. Per le connessioni teoriche tra anarchismo e cristianesimo, cfr. Jacques Ellul, Anarchia e cristianesimo, elèuthera, Milano, 1993/2021; Vernard Eller, Christian Anarchy, Wm. B. Eerdmans Publ. Co., Grand Rapids, 1987. Per le connessioni teoriche tra anarchismo e islamismo, cfr. Patricia Crone, Ninth-Century Muslim Anarchists, «Past and Present», n. 167, maggio 2000, pp. 3-26; Mohamed Jean Veneuse, Anarcha-Islam (2009), ; Anthony T. Fiscella, Varieties of Islamic Anarchism. A Brief Introduction (2012), . Per le connessioni teoriche tra anarchismo e taoismo, cfr. John Rapp, «Taoismo e anarchismo», trad. it. in Eterotopie anarchiche, a cura di Salvo Vaccaro, elèuthera, Milano, 2020; Giuseppe Aiello, Taoismo e anarchia, La Fiaccola, Ragusa, 2017. Per le connessioni teoriche tra anarchismo ed ebraismo, cfr. Amedeo Bertolo (cur.), L’anarchico e l’ebreo, elèuthera, Milano, 2001; Paul-Mendes Flohr, Anya Mali, in collaboration with Hanna Delf von Wolzogen (Eds.), Gustav Landauer: Anarchist and Jew, De Gruyter, Oldenbourg, 2015; Bernard Susser, The Anarcho-Federalism in Martin Buber, «Publius», autunno 1979, pp. 103-115; Samuel Hayim Brody, Martin Buber’s Theopolitics, Indiana University Press, Bloomington, 2018.↩ -
La citazione in esergo è tratta da Jacques Derrida, «Fede e sapere. Le due fonti della ‘religione’ ai limiti della semplice ragione», trad. it. in Annuario Filosofico Europeo, La religione, a cura di Jacques Derrida e Gianni Vattimo, Laterza, Bari, 1995, p. 10.↩
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Martin Buber, La regalità di Dio, Marietti, Casale Monferrato, 1989, p. 68. L’espressione «santa anarchia» è però di Massimo Giuliani, «Antinomismo messianico: appunti su teocrazia, anarchia e utopia sociale», in Teologia politica 2. Anarchia, Marietti, Genova, 2006, p. 95 cui devo la citazione di Buber.↩
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Thierry Ripoll, Pourquoi croit-on?, Sciences Humaines Éditions, Auxerre, 2020, p. 93.↩
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Michel de Montaigne, Saggi, trad. it. Bompiani, Milano, 2012, p. 797.↩
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Alec Ryrie, Il senso di non credere, trad. it. UTET, Milano, 2020, p. 68.↩
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Simon Critchley, The Faith of the Faithless, Verso, London, 2012, p. 161, p. 4.↩
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Ibidem, p. 108. Commentando la divina violenza di Benjamin come affermazione della forza del vivente, Critchley prosegue: «Questa è la potenzialità, ma solo la potenzialità, di una trasformazione della condizione di mera vita – o nuda vita nella biopolitica contemporanea – in una prassi di sacra precarietà della vita, che potremmo definire un anarchismo provvisorio» (pp. 117-118). Cfr. altresì James R. Martel, Divine Violence. Walter Benjamin and the Eschatology of Sovereignty, Routledge, New York, 2012; Anarchist All the Way Down: Walter Benjamin’s Subversion of Authority in Text, Thought and Action, «Parrhesia», n. 21, 2014, pp. 3-12.↩
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Gustav Landauer, Schwache Staatsmänner, schwächeres Volk!, «Der Sozialist», 15 giugno 1910, p. 53. Su tale scia teorica, sarà Lévinas a sottolineare l’ethos anarchico nella relazione di responsabilità con l’Altro (cfr. Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, trad. it. Jaca Book, Milano, 2006, cap. IV). «Lévinas considera la relazione con il prossimo anarchica nel senso che essa pone l’autarchia e l’autonomia del soggetto in questione, liberando il soggetto, legando il sé all’altro. L’anarchia è un radicale turbamento dello Stato, una disgregazione del tentativo statuale di erigersi a Tutto, come sostiene Lévinas» (Simon Critchley, op. cit., p. 223).↩
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Carlo Maria Martini, Umberto Eco, In cosa crede chi non crede. Un dialogo epistolare, Bompiani, Milano, 2014, p. 24.↩
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Sul modo in cui Foucault usa la spiritualità in politica senza appiattirsi sul religioso, mi sia consentito rinviare al mio Una tensione ingovernabile, in «La rosa di nessuno», vol. 1, Michel Foucault. L’Islam e la rivoluzione italiana, Mimesis, Milano/Paris, 2005, pp. 91-96.↩
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Albert Camus, «La Spagna nel cuore» [1946], trad. it. in Mi rivolto dunque siamo. Scritti politici, a cura di Vittorio Giacopini, elèuthera, Milano, 2008, p. 44. Cfr. altresì La crisi dell’uomo [1946], trad. it. in Conferenze e discorsi 1937-1958, Bompiani, Milano, 2020, pp. 41-42. E non occorre essere anarchici per postulare il No come premessa vincolante di segno etico da cui scaturisce un intero codice di condotta, come ci ricorda Bartleby lo scrivano del racconto di Melville: «Preferirei di no!».↩
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Albert Camus, Il mito di Sisifo, trad. it. Bompiani, Milano, 1998, p. 53. Cfr. il prezioso omaggio di Daniela Andreatta,* Vivere senza appello. La scommessa di Camus*, Mimesis, Milano, 2017, in specie pp. 46 ss. e pp. 91 ss.↩
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Albert Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. 56.↩
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Albert Camus, «Il mio debito con la Spagna» [1958], trad. it. in Conferenze e discorsi 1937-1958, cit., p. 328.↩
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Albert Camus, L’uomo in rivolta, trad. it. Bompiani, Milano, 1998, p. 45.↩
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Ibidem, p. 90.↩
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Albert Camus, «Intervento alla tavola rotonda di Civilisation» [1946], in Conferenze e discorsi 1937-1958, cit., p. 66. «Lo schieramento di cui abbiamo bisogno è uno schieramento di uomini decisi a parlare con parole chiare e a pagare di persona» («Il non credente e i cristiani. Conferenza al convento di Latour-Maubourg» [1946]). «Ma bisogna parlare in modo schietto e, in ogni occasione, dire tutta la verità che si conosce» («Il tempo degli assassini» [1949], entrambe in Conferenze e discorsi 1937-1958, cit., p. 78, p. 128).↩
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Albert Camus, «Rivolta e romanticismo» [1952], in Mi rivolto dunque siamo. Scritti politici, cit., p. 65.↩
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Pier Paolo Pasolini, Che cos’è questo golpe? Io so, «Corriere della sera», 14 novembre 1974, rievocando il celebre J’accuse di Zola sul caso Dreyfus. Cfr. Pasolini, Foucault e il «politico», a cura di Raoul Kirchmayr, Marsilio, Venezia, 2016. Per quanto riguarda la rifrazione tra il pensiero di Foucault e l’opera di Leonardo Sciascia, in special modo nella connessione con il concetto di parresìa, cfr. Laura Parola, Verità e potere. La riflessione sulla parresìa tra Sciascia e Foucault, «Todomodo», V, 2015, pp. 103-111; Giuseppe Panella, La scrittura memorabile. Leonardo Sciascia e la letteratura come forma di vita, Delta 3 Edizioni, Grottaminarda, 2012. Di recente, Michele Battini rilancia la figura di Franco Serantini nel suo studio «Andai perché ci si crede». Il testamento dell’anarchico Serantini (Sellerio, Palermo, 2022) proprio nei termini di una scelta esistenziale, nella fattispecie conclusasi tragicamente nel 1972 per mano assassina di soggetti appartenenti a istituzioni dello Stato italiano: una «giusta causa», scolpita sin dal titolo del pamphlet, sentita e percepita come avvolgente, una forma di vita cui credere fortemente, anche se «il senso di quella fede non è mai certo» (p. 158).↩
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Mi sia consentito rinviare a Salvo Vaccaro, Biopotere, apparso nel numero consacrato a Michele Perriera di «Nuove Effemeridi» (XIII, n. 49, 2000, pp. 35-38), unitamente agli altri contributi ivi presenti.↩
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Michel Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984), trad. it. Feltrinelli, Milano, 2011, p. 180. E poco oltre, sempre sulla specificità della parresìa cinica: «Una militanza che pretende di cambiare il mondo, […] un militantismo nel mondo e contro il mondo» (p. 272, corsivi miei S.V.).↩
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Ibidem, p. 317.↩
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Ibidem, p. 235, p. 258. «Non vi è instaurazione della verità senza una posizione essenziale dell’alterità; la verità non è mai il medesimo; non può esserci verità che nella forma dell’altro mondo e della vita altra» (p. 321).↩
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Cfr. da ultimo Catherine Malabou, Au voleur! Anarchisme et philosophie, PUF, Paris, 2022 (di prossima traduzione italiana presso elèuthera).↩