Preciso dunque che sono anarchico e che la mia prospettiva è quella di chi studia una realtà sociale che rifiuta, per fornire a sé, ai suoi compagni e ai movimenti sociali di cui egli ed essi sono parte, gli strumenti conoscitivi più adeguati possibili per la trasformazione di questa realtà. Mia convinzione è che l’eguaglianza sociale sia desiderabile e che libertà ed eguaglianza siano due dimensioni dello stesso fenomeno e che quindi il potere vada azzerato (o distribuito tra tutti in parti eguali, che è la stessa cosa), in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue forme.
Queste sono le premesse a-razionali da cui parte la mia analisi delle strutture sociali e, nella fattispecie, della nuova classe dominante. Chiarito questo, per onestà intellettuale e per consentire un proficuo confronto con studiosi di altre ideologie presenti a questo convegno, aggiungo tuttavia che a mio avviso, se c’è un’ideologia che, lungi dall’essere di ostacolo alla scienza, le è di stimolo nella percezione e nella comprensione di un fenomeno come quello che è oggetto del presente incontro, questa è l’ideologia anarchica. L’anarchismo, seppure storicamente nato soprattutto come espressione di un movimento sociale anticapitalista, si è sin dall’inizio configurato come una più generale negazione di ogni e qualsiasi forma di diseguaglianza sociale, impegnandosi teoricamente e praticamente nella critica e nella lotta contro la presente dominazione di classe e al contempo contro la possibilità che dalla distruzione o trasformazione di questa se ne avvii un’altra. Non è un caso che la prima prefigurazione dei «nuovi padroni» sia quella di Bakunin sulla «burocrazia rossa». Nel frattempo la «scuola» marxista «prevedeva» il socialismo come inevitabile sbocco delle «contraddizioni capitaliste». Se non si vogliono attribuire le preoccupazioni e le previsioni anarchiche a chiaroveggenza divinatoria, bisogna riconoscere che la quasi ossessiva e caratteristica attenzione dedicata alla natura e al ruolo dello Stato e più in generale dell’autorità, lungi dall’essere di ostacolo all’oggettività del pensiero sociale di matrice libertaria, si sia rivelata uno stimolo positivo.
Escludendo che, di fronte a un fenomeno sociale così vasto e di tali e tante implicazioni quale il sorgere e l’affermarsi di una nuova forma di dominio sociale, sia possibile un approccio «neutrale», tre sono sostanzialmente le posizioni soggettive di chi prende in considerazione tale fenomeno.
La prima è quella di chi vede e interpreta da una prospettiva egualitaria che non confonde tra loro differenti forme di dominazione sociale, né privilegia l’una sull’altra. È – o vorrebbe essere – la nostra posizione. La seconda esprime le resistenze al mutamento dei vecchi padroni, i quali negano il fenomeno per esorcizzarlo oppure ne evidenziano solo gli aspetti negativi, «regressivi». È quella che meno ci interessa, in quanto esprime palesemente l’ideologia borghese. La terza posizione (che comprende tutte le versioni del socialismo autoritario, da quello riformista a quello rivoluzionario) porta anch’essa alla negazione ideologica del fenomeno, sia pure per diversi motivi e con diverse argomentazioni, oppure a una più o meno netta apologia del fenomeno, che viene visto e descritto come «progressivo» o come potenzialmente «progressivo» (a certe condizioni, posto che, ecc.). Un caso particolare di questa posizione è costituito da quei pochi studiosi di matrice ideologica socialista che riconoscono e descrivono la nuova classe e ne denunciano la natura non socialista, ma che trovano nella loro ideologia disegualitaria ostacoli, forse insormontabili, a comprendere appieno e senza reticenze il fenomeno, finendo con il negare natura di classe a forme specifiche, reali o progettuali, di dominio tecnoburocratico.
Un esempio di questa affermazione ce lo dà proprio Luciano Pellicani, quando in un recente numero di «Mondoperaio» critica l’«anarchismo», cioè l’egualitarismo libertario, di Guiducci e gli contrappone un modello di società e un modello di «autogestione» corrispondenti grosso modo a quello che Gurvitch definisce «società pianificate secondo i principi del collettivismo pluralista decentralizzatore». Pellicani, pur avendo – rara avis – riconosciuto e denunciato l’ascesa dei nuovi padroni all’Est e all’Ovest, finisce con il proporci come società socialista una variante tecnoburocratica in cui il potere dei nuovi padroni sarebbe ridotto dall’esistenza del mercato e controllato da forme di democrazia politica ed economica.
Numerose e contraddittorie sono le rappresentazioni della struttura sociale, inequivocabile dimostrazione dell’importanza fondamentale che assumono nelle scienze sociali gli elementi soggettivi, ideologici. Queste rappresentazioni sono insieme riflesso (più o meno soggettivamente deformato) della realtà e schema interpretativo dei fenomeni statici e dinamici. Di nuovo oggettività e soggettività, scienza e ideologia. Ne fa ulteriore fede la confusione terminologica, perché neppure i termini – segni del linguaggio sociologico, economico, politico – sono neutrali.
Non è quasi mai casuale né insignificante la scelta di un termine al posto di un altro, e non è privo di interesse, anche se marginale rispetto al presente studio, capire perché lo stesso concetto (o apparentemente tale) sia espresso con termini diversi e concetti diversi (o apparentemente tali) con lo stesso termine. Tra la realtà sociale e la sua rappresentazione vi è il filtro ideologico che si esprime anche nei termini e nel loro valore evocativo di emozioni e di associazioni di idee. Si pensi solo all’enorme potere evocativo che ha oggi il termine «classe». Oltre a ciò, naturalmente, c’è tutto il contributo, in confusione terminologica, della confusione concettuale di singoli studiosi e della loro involontaria approssimazione verbale, ma ciò è in questo contesto di secondaria importanza. Chi si avventura in questo labirinto terminologico, venendo alle prese con classi, caste, strati, ceti, élite, quasi-classi e sotto-classi, può, seppure con un certo sforzo, semplificare il mondo delle rappresentazioni sociali individuando in sostanza pochi schemi interpretativi, soprattutto se riferiti alla realtà sociale a noi contemporanea.
Lo schema interpretativo più noto, antico e diffuso è quello «dicotomico» o «bipolare», quello cioè che divide la società in due classi. È una distinzione che ha un’elementare, precisa rispondenza nella coscienza popolare (i ricchi e i poveri, i governanti e i governati, chi comanda e chi obbedisce) e che ritroviamo in numerosi pensatori, a partire da Platone e fino ai nostri giorni, e che ha avuto in Marx la più fortunata espressione. Questo schema, in cui le due classi (i due poli della società) sono collegate e opposte da un conflitto antagonistico di interessi, consente di concentrare l’attenzione su quella che è considerata la contraddizione fondamentale, trascurando volutamente o involontariamente le divisioni e le contraddizioni sociali secondarie (o considerate tali). Perciò esso appare un utile strumento analitico e operativo a quei rivoluzionari che vogliono, attraverso una semplificazione concettuale, identificare l’antagonismo su cui far leva, rafforzando la «coscienza di classe» del polo dominato e sfruttato. Esso però ha anche dimostrato i suoi limiti e la sua pericolosa ambiguità, soprattutto nella versione marxista, che confonde in un unico meccanismo due forme di antagonismo e di lotta di classe fondamentalmente diverse: quella tra dominanti e dominati (padroni/schiavi, feudatari/servi della gleba, borghesi/proletari) e quella tra detentori del dominio e aspiranti-al-dominio, ovvero tra vecchi e nuovi padroni.
Il meccanismo con cui il marxismo dichiara l’inevitabilità del socialismo come sbocco delle contraddizioni capitaliste e come conclusione della storia della lotta di classe (della «preistoria dell’umanità») è in sostanza un gioco di prestigio sociologico-filosofico, con cui si fa concludere una serie di lotte di classe del secondo tipo (cioè una successione di classi dominanti) con una lotta di classe del primo tipo, mediante l’attribuzione all’«ultima» classe sfruttata, il proletariato industriale, di eccezionali qualità palingenetiche. In concreto e con riferimento alla dinamica sociale contemporanea, lo schema bipolare, per lo meno nella versione marxista, dopo aver esaurito tutta la sua utilità come strumento di comprensione del modello di dominazione e sfruttamento capitalistico, va palesando sempre più la sua inapplicabilità alla dinamica evolutiva tardo-capitalistica e ancor più alla realtà post-capitalistica. Anziché chiarire ciò che sta avvenendo, esso lo rende inintelligibile, divenendo così strumento ideologico di mistificazione cosciente o inconsapevole dei nuovi padroni.
Se lo schema a due classi, definite l’una in opposizione all’altra, è l’espressione estrema della tendenza a mettere il più possibile in risalto l’importanza della divisione conflittuale di classe, così la tendenza opposta – a mascherare, diluire, confondere gli antagonismi sociali – si esprime in schemi interpretativi graduati, usati soprattutto dalla sociologia americana. La società è cioè vista come la sovrapposizione di più classi, o meglio strati (tre, quattro, sei, cento, infiniti) definiti secondo uno o più parametri (ricchezza, prestigio, ecc.). Al limite, questo tipo di rappresentazione sociale arriva a definire una società senza classi (pur non negando al contempo l’innegabile, cioè la diseguaglianza). Questo schema a-classista disegualitario, curiosamente lo troviamo riferito sia alla società americana sia a quella russa ad opera di sociologi apologeti rispettivamente dell’uno e dell’altro sistema. Siamo, appunto, al limite; anzi, già oltre il limite della scienza e in piena ideologia giustificatrice.
In alternativa al concetto o al termine di «classe dominante», a partire dalla fine dell’Ottocento sono entrate nel bagaglio terminologico e concettuale della sociologia l’élite e la «classe politica» o «classe dirigente». Queste categorie, tra loro analoghe, e il corrispondente modello sociologico (che a seconda degli autori e del contesto può essere una versione particolare sia dello schema bipolare, sia di quello graduato o addirittura di quello a-classista disegualitario) hanno per noi in questa sede un duplice seppure marginale interesse. In primo luogo, esse ci appaiono per lo più come rappresentazione-giustificazione ideologica della gerarchia sociale, applicabile – e applicata – al fenomeno dei nuovi padroni. In secondo luogo, una lettura critica degli «elitisti» consente di arricchire e completare la comprensione dei meccanismi del potere e in particolare del potere politico e burocratico.
Qual è lo schema interpretativo che a noi, data la nostra prospettiva ideologica, risulta più utile per conoscere e comprendere la realtà contemporanea, al fine di mostrarne i meccanismi di dominazione e sfruttamento, di prevederne le tendenze dinamiche e di intervenire per trasformare il conflitto sociale in consapevole lotta egualitaria e libertaria? Noi crediamo di averlo individuato in uno schema che, partendo dal modello bipolare, lo modifica e lo arricchisce in modo tale da superarne i limiti e l’ambiguità. Innanzi tutto sovrapponendo il duplice schema bipolare del duplice antagonismo di classe dominati/dominanti e dominanti/aspiranti-al-dominio. Il che porta a identificare, nei prodotti storici di intensa dinamica sociale e di transizione da un sistema di dominazione a un altro, tre classi fondamentali: due in lotta per il potere e una in lotta contro il potere. E questo è per l’appunto il caso dell’epoca che stiamo vivendo. Inoltre la divisione in classi, nelle strutture complesse della società industriale, va completata con una suddivisione in strati sovrapposti. Lo strato superiore della classe dominante può coincidere con il concetto di élite dirigente così come lo strato inferiore della classe dominata corrisponde al cosiddetto sottoproletariato. Tra classe dominante e classe dominata v’è una gradazione apparentemente continua di strati intermedi che non costituiscono classe in senso proprio secondo il nostro schema, perché non si definiscono in modo antagonistico con altre classi, e perciò non sono soggetti attivi del conflitto di classe. Abbiamo detto che questi strati medi costituiscono una gradazione apparentemente continua tra classi dominate e classi dominanti. In realtà, se lo strato medio più basso sembra sfumare (come livello e stile di vita) nella classe dominata e quello più alto nella classe dominante, questi strati pur eterogenei sono nel complesso più omogenei tra di loro che con le classi dominanti o dominate; si caratterizzano funzionalmente rispetto alle une e alle altre; e la mobilità al loro interno è assai maggiore che verso l’alto o verso il basso della gerarchia sociale, il che rivela la presenza di strozzature o barriere di classe.
All’interno di questo modello interpretativo, secondo quale criterio definiamo le due o tre classi fondamentali? Ciò che determina l’appartenenza di classe è la posizione occupata nella divisione gerarchica del lavoro sociale, con riferimento ai contenuti in potere di tale posizione, cioè a seconda che essa comporti l’esercizio del potere (classi dominanti) o simmetricamente la sottomissione a esso (classi dominate). Va da sé, date le precedenti definizioni, che non riteniamo che il potere sia e possa essere distribuito in una gradazione continua ma che esso, pur stratificato, si «condensi» (come esercizio e come sottomissione) in determinate aree sociali. Come abbiamo già visto, in questa piramide la stratificazione presenta discontinuità qualitative, come nell’arcobaleno la sfumatura cromatica non impedisce la determinazione dei singoli colori-base.
L’adozione del criterio «potere» (o «autorità») può apparire di derivazione ideologica. E forse lo è. Tuttavia non ci pare che lo stimolo ideologico in questo caso faccia violenza al rigore scientifico. Ci pare al contrario che l’adozione di questo criterio sia non solo «soggettivamente» utile al nostro operare egualitario e libertario, ma anche «oggettivamente» utile per una generale teoria della diseguaglianza sociale che ne consente l’applicazione ai più diversi contesti sociali, dalla «società asiatica» al capitalismo, dal feudalesimo alla società post-capitalistica, anche se ognuno di essi presenta, beninteso, particolari modi e meccanismi. Identificare quanto vi è di strutturalmente costante nei rapporti di dominazione e di sfruttamento è, crediamo, altrettanto importante, scientificamente non meno che operativamente, che identificare quanto vi è in essi di storicamente variabile.
Nel corso degli ultimi cinquanta-sessanta anni, in tutto il mondo, rilevanti trasformazioni si sono verificate negli assetti economici e politici. Trasformazioni che a nostro avviso significano un mutamento nella struttura di classe, nelle forme del dominio sociale e in particolare nell’ambito dei rapporti economici, cioè nelle forme dello sfruttamento. Un terzo dell’umanità è organizzato in forme che si dicono socialiste, in cui la proprietà privata dei mezzi di produzione ha lasciato completamente o largamente il posto alla proprietà statale e il mercato è stato sostituito dalla programmazione. Due categorie economiche fondamentali del capitalismo sono dunque indubitabilmente scomparse. D’altro canto, anche nei paesi capitalisti si sono avuti sviluppi di grande significato nelle istituzioni del potere economico e politico, che manifestano tendenziali analogie a un superamento, o quanto meno a un fondamentale mutamento, delle strutture capitaliste. Prima di applicare il nostro modello, verificandone la validità interpretativa, non è inutile vedere in quale altro modo (e con quale utilità) ci si può accostare al fenomeno.
Vi sono sostanzialmente due interpretazioni. Nella prima troviamo chi lo vede come un nuovo dominio di classe (o di élite) o comunque un nuovo modello di società. Vi ritroviamo, come abbiamo già avuto modo di accennare, sia «apologeti» sia «detrattori» dei nuovi padroni, sia modelli bipolari più o meno adattati sia schemi graduati. Vi troviamo, infine, analisi che riconoscono le analogie tra quanto avviene all’Est e all’Ovest, attribuendole a un unico fenomeno, e analisi che identificano solo nel «socialismo di Stato» una nuova realtà, di qualità diversa dall’evoluzione in atto nei paesi capitalisti.
Nella seconda troviamo la maggior parte degli studiosi di matrice marxista (solo pochi marxisti, per lo più eterodossi, rientrano nella prima categoria), ovvero quelli fedeli all’ortodossa convinzione che dopo il capitalismo viene il socialismo. Pertanto questi o affermano che sia all’Ovest sia all’Est siamo di fronte a sistemi capitalisti (rispettivamente «capitalismo monopolistico» e «capitalismo di Stato», alias «capitalismo monopolistico di Stato»), oppure dichiarano, più o meno spudoratamente, che in Cina e nell’urss c’è il socialismo (solo nella prima o in entrambe, a seconda dei gusti), cioè una società senza classi o con classi «non antagonistiche» e comunque senza classe dominante. Il problema dei nuovi padroni, per costoro, non esiste. Non ci sono nuovi padroni.
Mentre nella prima categoria di interpretazioni troviamo analisi, schemi, definizioni, che pur non convincendoci del tutto indicano uno sforzo di vedere e capire, uno sforzo di lucidità intellettuale, con la raccolta sistematica di una buona quantità di dati, nella seconda categoria troviamo quasi solo titanici sforzi di «teologia» socio-economica, degni di miglior causa, per costringere la realtà nei sacri schemi, per dimostrare che in urss e/o in Cina non ci sono padroni o, se ci sono, si tratta, di «funzionari del capitale», di «borghesia di Stato» o, con certa pesantezza barocca, di «borghesia monopolistica burocratica di Stato». E all’Ovest? All’Ovest niente di nuovo: solo «forme» o «varianti», «frazioni» o «settori» della borghesia oppure borghesia tout court, con un po’ di «ceto medio».
Quel che più conta è che in queste analisi la terminologia non è dovuta a inerzia lessicale, per cui a «cose» nuove si applicano parole vecchie o parole vecchie ritoccate (ad esempio, in spagnolo l’automobile si chiama coche, cocchio, e in inglese motor car, carro a motore), ma proprio alla convinzione che quelle «cose» (le categorie economiche e sociali) non siano sostanzialmente nuove. Se si parla di capitalismo, è perché si intende proprio parlare di capitalismo e non di una nuova forma di sfruttamento che chiamiamo capitalismo in mancanza di un termine più appropriato. Quando si dice borghesia, si intende proprio borghesia capitalista e non una nuova classe dominante che chiamiamo ancora borghesia, eccetera. E così via anche con capitale, plusvalore, salario, massimizzazione e caduta tendenziale del profitto. Si tratta di categorie concettuali che, applicate a una realtà profondamente diversa da quella per la quale vennero forgiate come strumenti conoscitivi, si rivelano di ostacolo anziché di aiuto, cariche di significato emozionale ma vuote di valore euristico, e in più pericolosamente disponibili alla mistificazione.
Le analisi più grossolane di questa categoria le troviamo tra gli ideologi ufficiali degli Stati sedicenti socialisti; quelle più prossime al comune senso della ragione tra i marxisti occidentali non dogmatici; quelle più indigeste tra i marxisti-leninisti-più-o-meno-maoisti. Poco sopravvive del filone interpretativo trotzkista. Possiamo citare, come curiosità, la formula del tardo-trotzkista Naville: in urss («socialismo di Stato») c’è una sola classe produttiva – quella dei salariati, suddivisa in «sottoclassi o strati o categorie particolari», i cui redditi si differenziano costantemente, accentuando la loro disparità, creando opposizioni e contraddizioni, e stabilendo «un sistema di sfruttamento reciproco» – e c’è uno «Stato dominante», la burocrazia. A parte la bizzarria di quello «sfruttamento reciproco» e di questa articolazione sociale in una classe e in uno «Stato», si tratta grosso modo di uno schema graduato con élite dirigente.
Proprio ai margini del trotzkismo, alla fine degli anni Trenta del Novecento matura l’analisi di Bruno Rizzi, esposta dapprima in La Bureaucratisation du monde e poi sviluppata e arricchita in scritti successivi. Rizzi parte dalla constatazione che in urss non c’è più capitalismo, né palesemente vi è socialismo. Riconosce nella burocrazia una nuova classe dominante che ha sostituito i capitalisti e che ha stabilito un nuovo sistema socio-economico di sfruttamento basato su un diverso rapporto di produzione. Allarga poi il campo di osservazione ai regimi nazifascisti e vi ravvisa solidi elementi di somiglianza con le strutture «sovietiche» non tanto al livello impressionistico delle forme politiche dittatoriali quanto a quello più sostanziale dell’economia e dei rapporti di classe. Analogie evolutive Rizzi le trova anche nel New Deal americano e arriva a delineare un quadro complessivo dell’ascesa e dell’instaurarsi del nuovo dominio di classe, di cui il «collettivismo burocratico» dell’urss è la forma più compiuta. Dapprima Rizzi vede il nuovo sistema come progressivo, fase intermedia tra capitalismo e socialismo, e la burocrazia come «ultimissima» classe dominante, ulteriore tappa da aggiungere al modello storico dialettico di Marx. Nel corso stesso della stesura de La Bureaucratisation du monde, e più nettamente nello sviluppo successivo del suo pensiero, Rizzi identifica invece nel «collettivismo burocratico» un fenomeno regressivo e vi trova affinità strutturali con il sistema feudale. La tesi di Rizzi, cui Trockij oppone una critica poco convincente e, forse, poco convinta, non conobbe molta fortuna né nell’ambiente trotzkista, né più in generale in quello marxista, né tanto meno negli ambiti accademici delle scienze sociali. Solo recentemente è stato «riscoperto» in qualche misura e, omaggio postumo, un’edizione del suo Il collettivismo burocratico è uscita dopo la sua morte, con prefazione del segretario del psi, Bettino Craxi.
L’analisi di Rizzi e la sua rivalutazione tardiva hanno, crediamo, anche un valore emblematico. Vi tocchiamo con mano quanto il buon senso, unito a un tenace anticonformismo e a una certa genialità intuitiva, sia stato più fecondo di risultati di tanta erudizione accademica o para-accademica. Una lezione per gli intellettuali di mestiere. Tuttavia, a nostro avviso, l’opera di Rizzi indica anche i limiti di una teoria sociale che vuole essere generale e nel contempo è tutta centrata sugli aspetti economici del potere sociale. Di qui l’attenzione esclusiva che egli dedica allo studio del rapporto di produzione, fino a concentrare l’analisi sull’unità di produzione aziendale. Il che lo porta da un lato a un’originale «rilettura» delle società pre-capitaliste (patronato, feudalesimo, ecc.), ma dall’altro a bizzarre formulazioni della «azienda socialista» e, per quanto riguarda il «collettivismo burocratico», a una tanto palese quanto inconsapevole contraddizione interna, con l’attribuzione alla classe dominante della burocrazia politica e non dei dirigenti d’azienda. Inoltre, la sua impostazione «economicistica» limita la sua pur ampia percezione del fenomeno, portandolo ad esempio a negare la natura di «nuovi padroni» ai manager delle grandi imprese tardo-capitalistiche. Viceversa, la nostra definizione della struttura di classe sulla base del potere consente più agevolmente una visione generale dei nuovi padroni, sia nei paesi post-capitalistici sia in quelli tardo-capitalistici, in realtà cioè in cui il politico e l’economico sono fusi o in progressiva fusione, in cui la distinzione tra struttura e sovrastruttura fa parte di un armamentario concettuale obsoleto.
Nei paesi post-capitalistici è chiaramente identificabile la struttura socio-economica corrispondente al dominio incontrastato di classe dei nuovi padroni. Pur presentando differenze per taluni aspetti, i loro tratti fondamentali sono comuni. L’assorbimento nello Stato di tutte le funzioni sociali identifica la gerarchia sociale nella gerarchia statale e dunque nei vertici dello Stato la classe dominante. La sostituzione della proprietà privata con la proprietà statale dei mezzi di produzione significa la loro appropriazione collettiva, «di classe», da parte dei padroni dello Stato, i quali, sempre come classe, si sono appropriati anche di quelli che Ossowski chiama «mezzi di costrizione» (apparato militare e repressivo) e «mezzi di consumo» (controllo sulla distribuzione di beni e servizi).
I nuovi padroni estorcono, come classe, pluslavoro sociale attraverso il complesso meccanismo della programmazione (che fissa tutti i valori del circuito di produzione-distribuzione-consumo) e se ne appropriano individualmente sotto forma di privilegi peculiari: non solo alti livelli retributivi ma anche – e forse soprattutto – consumi semi-gratuiti o riservati, come appartamenti di lusso e «seconda casa», negozi esclusivi, viaggi all’estero, istruzione superiore assicurata per i figli, ecc. Il che, in termini monetari, secondo taluni analisti, ammonterebbe nell’urss a un 50-100 per cento aggiuntivo rispetto allo stipendio ufficiale (cui si aggiungerebbero – tutto il mondo è paese – compensi accessori più o meno ufficiosi). Se si pensa che la distanza tra i salari dei lavoratori più umili e i compensi ufficiali per le funzioni di vertice è già pari o quasi a quella in vigore nei paesi tardo-capitalistici, si può constatare come la voracità dei nuovi padroni (la quota da loro consumata di surplus sociale) non sia inferiore a quella dei vecchi padroni, nonostante un’apparente maggiore «austerità di costumi».
I «consumi riservati» sono un dato importante non solo perché costituiscono reddito mascherato ma perché contribuiscono a dare una connotazione di «Stato» (nel senso di classe con prerogative istituzionalizzate) ai nuovi padroni. Un’altra caratteristica dello stesso segno è la nomenklatura , cioè l’elenco semi-segreto delle funzioni superiori (250.000?) cui nell’urss si accede solo per designazione degli organi direttivi del partito, che sembrano corrispondere alle funzioni della classe dominante, cioè alle funzioni del potere. Così alla classe si accede soltanto per cooptazione, mediante il passaggio non solo sostanziale ma anche formale della barriera di classe tra i ruoli sociali intermedi (ceto medio) e quelli decisionali. Di questa nomenklatura fanno parte i tecnocrati delle più importanti imprese e dei complessi industriali, i funzionari superiori dell’amministrazione statale, gli alti ufficiali dell’esercito e della polizia, e naturalmente i dirigenti del Partito comunista, il cui vertice costituisce lo strato superiore, l’élite della classe dominante.
Il partito ha una funzione fondamentale nella struttura post-capitalistica. Il partito (che nell’urss riunisce il 10 per cento circa della popolazione) attraversa verticalmente la società, dai livelli medio-inferiori al vertice, con l’esclusione degli strati sociali più bassi, in una gerarchia sovrapposta alla gerarchia statale, come una Chiesa nello Stato. Ai massimi livelli, tuttavia, le due gerarchie si identificano. Al di sotto di quest’area dominante della scala gerarchica meritocratica, in cui il «merito» tecnico-amministrativo e il «merito» politico sono scanditi da una rigida selezione scolastica e da un’altrettanto rigida selezione partitica, al di sotto dei «nuovi padroni» e al di sotto di un ceto medio amministrativo, tecnico-professionale, culturale, ecc. (che gode di qualche privilegio economico, ma di scarso – e delegato – potere sociale), c’è la grande maggioranza dei lavoratori esecutivi delle campagne, delle industrie e dei servizi. Moderni schiavi di Stato, privati anche delle uniche libertà economiche concesse dal capitalismo ai proletari: quella di vendere la propria forza lavoro al migliore offerente e quella di lottare assieme ai propri compagni di classe per ottenere condizioni più tollerabili di lavoro e di vita.
Cardine della struttura economica post-capitalistica è, come si diceva, la programmazione, che sostituisce il mercato sia dei mezzi di produzione, sia dei prodotti, sia della forza lavoro. È il piano che decide non solo qualità e quantità dei prodotti, ma anche investimenti, prezzi e livelli salariali, al di fuori di ogni meccanismo mercantile. Categorie come salario, prezzo, ecc., hanno perciò significato economico ben diverso dalle corrispondenti categorie capitalistico-mercantili: persiste la terminologia, ma sono mutati i rapporti che essa identifica.
Se consideriamo la struttura di classe dei paesi che abbiamo definito tardo-capitalistici, troviamo che al livello dominante della divisione gerarchica del lavoro sociale, al livello del potere, accanto e insieme a ruoli di tipo capitalistico ci sono ruoli di tipo tecnocratico e burocratico, ruoli simili quelli della classe dominante dei paesi post-capitalistici. Troviamo cioè, a livello di classe dominante e anche a livello di élite dirigente, una commissione di vecchi e nuovi padroni che si dividono le funzioni sociali dirigenti sia nell’ambito economico, sia in quello politico, sia in quello intermedio, di crescente estensione, politico-economico.
Se consideriamo il fenomeno dinamicamente anziché staticamente, vediamo che non solo ha preso se non le mosse quanto meno un formidabile impulso negli anni Venti e Trenta del Novecento, soprattutto a partire dalla grande crisi capitalista (che ha segnato un salto quantitativo e qualitativo dell’intervento statale nell’economia), ma che precedentemente e contemporaneamente il fenomeno si è sviluppato nell’ambito stesso delle grandi imprese capitaliste. In queste, la crescente polverizzazione della proprietà azionaria ha reso insignificante il potere decisionale della stragrande maggioranza dei capitalisti-azionisti. Ma soprattutto, l’enorme complessità dei problemi gestionali e delle relative competenze ha trasferito ai manager il controllo dei meccanismi economici, riducendo proporzionalmente anche il potere degli stessi detentori di quote azionarie maggioritarie, a meno che questi non siano insieme capitalisti e manager, assommando in sé i caratteri e le prerogative dei vecchi e dei nuovi padroni. Come spesso accade nelle fasi storiche di transizione.
Sempre più ampiamente si assiste alla scissione del binomio capitalistico proprietà/controllo: i proprietari restano titolari di interessi nell’impresa, ma sono i manager che esercitano di fatto e di diritto – per «delega» – la direzione economica. La proprietà giuridica dei mezzi di produzione, pur restando fonte di reddito privilegiato, non è più necessariamente proprietà economica. Ancora più accentuata è l’indipendenza dei manager nelle società multinazionali. Il potere degli azionisti sulla «loro» impresa operante a livello internazionale è praticamente inesistente: l’insieme del processo produttivo-distributivo è a tal punto complesso e articolato che solo lo staff manageriale è in grado di controllarlo e coordinarlo.
Questo dunque avviene all’interno dell’impresa tardo-capitalistica. Nel frattempo, come dicevamo, anche lo Stato tardo-capitalistico ha assunto ben altre funzioni che non quelle inerenti a una semplice difesa e mediazione degli interessi borghesi. Esso, innanzi tutto, possiede direttamente o indirettamente una fitta rete di industrie e servizi dei settori chiave. Inoltre regolamenta, controlla, pianifica e coordina in misura crescente l’attività delle imprese attraverso strumenti di intervento legislativi, creditizi, fiscali, ecc. E infine è di gran lunga il principale cliente di buona parte del settore privato.
L’intervento statale nell’economia non è una novità per il capitalismo: esso ha assistito e sorretto i primi passi del capitalismo e ne ha accompagnato lo sviluppo. Tuttavia, l’intensità e la capillarità con cui oggi – e tendenzialmente sempre più – lo Stato è presente nell’economia e lo sviluppo enorme dei servizi sociali gestiti dallo Stato vanno mutando rapidamente il significato di questa presenza. Quando dal 30 al 50 per cento del reddito nazionale dei paesi tardo-capitalistici viene assorbito dalla spesa pubblica, si può ben capire che la quantità è divenuta qualità.
Lo Stato si sta così trasformando in luogo privilegiato di formazione della nuova classe dominante, concentrando in sé – cioè ai livelli superiori della sua gerarchia – una quota rilevantissima e crescente del potere economico, che fonde con il potere politico. Quest’ultimo perde così progressivamente il suo ruolo subordinato. Via via che procede la managerializzazione delle grandi imprese private, nelle imprese pubbliche e nell’apparato statale tecnocrati e burocrati vanno sempre meno esprimendo gli interessi dei vecchi padroni e sempre più i loro.
In questa stessa direzione opera il passaggio del potere politico effettivo dalle assemblee legislative agli organi esecutivi e da questi ai vertici amministrativi. La maggior parte dei paesi tardo-capitalistici ha una struttura politica democratico-parlamentare, ma in nessuno di essi è realmente il parlamento, sede formale della «sovranità popolare», che dirige lo Stato. Il potere dello Stato è un potere permanente.
Questo potere è esercitato da un certo numero di istituzioni autonome dall’influenza instabile del suffragio: sono questi organismi che bisogna esaminare per scoprire dove risiede il vero potere. Ognuna di queste istituzioni riproduce in sé la piramide gerarchica dello Stato: dal vertice di queste gerarchie (oltre che dalle grandi holding pubbliche e private e in varia misura dalle dirigenze partitiche e sindacali) vengono operate le scelte che il parlamento «rappresenta» sul palcoscenico politico-istituzionale.
Una tale evoluzione del potere politico è d’altronde legata alla crescente complessità e molteplicità delle funzioni svolte dallo Stato tardo-capitalistico, alla sua tendenziale totalitarietà, conseguente all’esigenza di controllare, canalizzandole in nuove istituzioni, le forze centrifughe continuamente generate dallo stesso accrescersi della dimensione, macchinosità e invadenza statali, in un circolo vizioso che sviluppa le competenze, il numero e il potere dei nuovi padroni.
A mezza via, quanto a strutture sociali e meccanismi economici, tra i paesi industriali tardo-capitalistici e i paesi post-capitalistici si pone il «Terzo Mondo» degli Stati africani, asiatici, latino-americani, per lo più ex coloniali e «sottosviluppati» o «in via di sviluppo». Le forme politiche di questi paesi presentano un’ampia varietà, tra la democrazia parlamentare e la dittatura (militare o di partito unico), con una prevalenza di quest’ultima. Le coloriture ideologiche spaziano dalla «destra» alla «sinistra»; la collocazione negli equilibri internazionali è per lo più «neutrale», ma con diverse eccezioni di maggiore o minore dipendenza dall’uno o dall’altro dei due imperi, americano e russo. Le strutture economiche sono miste e vanno da una prevalenza di elementi tardo-capitalistici (per lo più come presenza di multinazionali a capitale nord-americano o europeo) a una prevalenza di elementi post-capitalistici, quasi al modo jugoslavo. Dietro tutta questa varietà di forme c’è una realtà comune unificante: lo sforzo del Terzo Mondo di sottrarsi alla dimensione internazionale dello sfruttamento.
Fondamentale è il ruolo dello Stato in questo sforzo del Terzo Mondo: lo sviluppo nazionale viene attuato infatti prevalentemente con capitale statale (o con società a capitale misto statale e straniero) e con la nazionalizzazione di imprese straniere. È quindi naturale che a partire da questo modello di sviluppo si costituisca una classe dominante indigena di natura più tecnoburocratica che capitalistica. Le cosiddette «borghesie nazionali» non sono in realtà costituite da borghesi, cioè da capitalisti, bensì in grande prevalenza da funzionari statali, tra i quali hanno una funzione spesso centrale i militari, e da dirigenti indigeni di imprese multinazionali o miste.
Parlando della nuova classe abbiamo usato più volte i termini «burocrati» e «tecnocrati». Questi per l’appunto sono, secondo noi, i nuovi padroni: tecnocrati e burocrati, o meglio tecnoburocrati, non solo e non tanto perché tecnocrati e burocrati presentano, a nostro avviso, sufficienti caratteri di affinità di classe da richiedere un’unica definizione anche terminologica, quanto perché tecnocrazia e burocrazia possono essere viste come due modi di essere dello stesso dominio di classe, due modi di gestire il potere, due modi di ordinare i criteri decisionali, che però coesistono in varia misura nelle diverse articolazioni funzionali della classe dominante e solo nei casi limite (ad esempio nelle due categorie tardo-capitalistiche della burocrazia statale e della tecnocrazia manageriale privata) assumono caratteri di prevalenza l’uno sull’altro. Il termine «tecnoburocrazia», inoltre, esprime bene anche la natura peculiare della forma assunta dalla burocrazia, gruppo sociale antico quanto il potere, nella sua specificazione industriale e post-industriale.
La tecnoburocrazia si definisce in quelle attività della sfera del lavoro intellettuale corrispondenti alle funzioni direttive nella divisione gerarchica del lavoro sociale. E questo in società in cui sia la complessità del processo produttivo e distributivo, sia più in generale la complessità di tutto il meccanismo sociale fortemente centralizzato, raggiunge alti livelli. Questa complessità richiede, per la sua direzione, competenze tecniche (in senso lato) che danno specifica connotazione al gruppo sociale dominante. Esso deriva il suo potere, i suoi privilegi, le sue prerogative di classe da una sorta di proprietà intellettuale delle conoscenze inerenti alla direzione dei grandi aggregati economici e politici.
Secondo Alain Touraine: «Se il principio di appartenenza alle vecchie classi sociali era la proprietà, la nuova classe si definisce innanzi tutto in base alla conoscenza, vale a dire in base al livello di educazione. La questione deve essere dunque posta in questi termini: esiste un livello superiore di educazione che possieda caratteristiche diverse da quelle dei livelli subalterni?». Lo stesso Touraine risponde: «La formazione del livello più elevato tende a sfuggire a un corpo specializzato di professori, essa è largamente assicurata dai membri dell’élite alla quale la formazione considerata assicura l’accesso […]. Così si creano una nuova aristocrazia e la coscienza di una rottura tra questa e i gradi intermedi della gerarchia […]. La tecnocrazia è così una meritocrazia che controlla l’accesso ai propri ranghi controllando i diplomi […]. Questo fenomeno è forse più accentuato in Francia che negli altri paesi, perché la tecnocrazia riesce ad appoggiarsi sulle tradizioni dell’antico apparato dello Stato e sull’importanza che hanno saputo conservare le grandi scuole e i grandi corpi. Ma la stessa tendenza si manifesta in tutti i grandi paesi industriali, ivi compresi gli Stati Uniti, dove molte grandi università si trasformano più o meno in grandi scuole, perché reclutano per concorso» (il corsivo è mio).
Sulla base della precedente definizione di tecnoburocrazia possiamo abbozzare una «tipologia» essenziale dei nuovi padroni nei paesi tardo-capitalistici. È naturale che tale sottoclassificazione presenti i limiti di una certa genericità, dovuta al fatto che questi tipi o categorie acquistano una diversa concretezza e specificità, così come una diversa importanza relativa nei diversi paesi, a seconda delle forme politiche, del livello di sviluppo economico, delle caratteristiche etnico-storiche, eccetera. Nella nostra rassegna tipologica avremo presente soprattutto il caso italiano, che ci è più noto e che certamente presenta tratti peculiari più che non altre «vie nazionali alla tecnoburocratizzazione».
Ai vertici dell’amministrazione statale e para-statale (ministeri, enti previdenziali, ecc.) troviamo un primo tipo di tecnoburocrate. Ai livelli dirigenziali, i funzionari statali non sono dei servitori dello Stato più o meno ottusi, più o meno efficienti, come ama rappresentarli un superato cliché più letterario che scientifico. Essi detengono una quota non indifferente di potere decisionale: potere politico soprattutto, e in varia misura, a seconda delle rispettive competenze, anche potere economico. Non è privo di significato il fatto che in Italia la «carriera direttiva» costituisca una categoria chiusa, con un accesso quasi inesistente dai gradi anche immediatamente inferiori della gerarchia. In Francia la quasi totalità dell’élite amministrativa esce dall’ena e dall’École Polytechnique, due istituzioni para-universitarie rigidamente selettive sin dall’ammissione, fatta secondo criteri meritocratici che, naturalmente, privilegiano gli studenti di provenienza sociale superiore, ma che «promuovono» a una quasi certa carriera anche gli elementi più «dotati» provenienti dal ceto medio e persino, in piccole percentuali, dal proletariato. Questa particolare e comune formazione scolastica contribuisce a rendere molto omogenea e – pare – efficiente l’alta burocrazia francese, la cui quota di potere sembra essere particolarmente rilevante, come particolarmente accentuata sembra essere anche la mobilità verso la dirigenza della grande industria privata. Un fenomeno, questo, quasi inesistente in Italia, a causa dello scadente livello di preparazione e capacità della burocrazia e dell’esistenza di un’ampia zona-cuscinetto tra Stato e impresa privata costituito dalle partecipazioni statali. Una mobilità, quasi a senso unico, si nota in effetti verso questa zona e anche una consistente presenza di alti funzionari nei consigli d’amministrazione delle imprese pubbliche.
Ai superiori gradi gerarchici delle forze armate troviamo un altro tipo di tecnoburocrati. Base del potere in ogni struttura di classe è il monopolio della forza: polizia ed esercito sono le strutture istituzionali di questa violenza organizzata, di cui la prima è una derivazione specialistica dell’originario ruolo militare unico. È quindi più che normale che all’evoluzione tardo-capitalistica verso una fusione dei poteri (e dunque al superamento della subordinazione al potere economico del potere politico e militare) corrisponda un’accentuazione dell’importanza sociale degli ufficiali superiori delle forze armate. Da strumento del potere, cioè, le alte gerarchie militari e poliziesche diventano uno dei luoghi del potere, un «luogo» di crescente importanza relativa soprattutto nella metropoli imperiale americana, il cui esercito deve non solo bilanciare la forza militare dell’impero sovietico, ma anche svolgere ruoli di «ordine pubblico» all’interno e soprattutto nelle zone periferiche dell’impero. Qui, negli usa più che negli altri paesi tardo-capitalistici, l’alta dirigenza militare presenta tratti tecnocratici e la ritroviamo in partnership con l’élite capitalistica e manageriale nel cosiddetto Military Industrial Complex. Qui troviamo anche la maggiore mobilità tra ruoli militari e ruoli manageriali. Negli altri paesi tardo-capitalistici e segnatamente in Italia, l’alta gerarchia militare sembra rivestire carattere prevalentemente burocratico e la sua quota relativa di potere non ci sembra a tutt’oggi molto superiore a quella di un qualsiasi settore della burocrazia amministrativa.
Altrettanto nettamente dei dirigenti amministrativi, gli ufficiali superiori (che non per nulla sono il più antico modello gerarchico-burocratico) presentano caratteri di «Stato», cioè di categoria sociale rigidamente istituzionalizzata e chiusa verso il basso.
Tra lo Stato e le imprese private c’è, come si è detto, tutto il settore dell’impresa pubblica, che da un lato si riallaccia all’amministrazione statale in senso stretto, grazie anche alla «mediazione» di vari enti pubblici di connotazione mista burocratico-aziendale, e dall’altro, con la formula delle partecipazioni statali, sfuma impercettibilmente nel settore privato dell’economia. Così anche i nuovi padroni di questo tipo, i dirigenti dell’impresa pubblica, presentano caratteri e competenze intermedie tra gli alti burocrati e i manager dell’impresa privata.
Un elemento che certo rafforza il legame tra l’alta burocrazia e la dirigenza dell’impresa pubblica, nel caso italiano per lo meno, è la pratica per cui gli alti burocrati assumono (e cumulano) cariche nei consigli d’amministrazione e nei collegi sindacali degli enti e delle imprese pubbliche. Nonostante questi legami e sovrapposizioni, in seno all’impresa pubblica si forma una figura di dirigente con connotazioni proprie e distintive, una figura che, più di altri tipi tecnoburocratici, esprime la commistione di politico ed economico e la fusione dinamica di elementi capitalistici con elementi post-capitalistici. Questa «borghesia di Stato», come è invalso da qualche tempo l’uso di chiamarli, con un termine che qui appare meno improprio che non nel caso della dirigenza sovietica, detiene in Italia una considerevole quota del potere e consuma una forse ancor più considerevole fetta del surplus sociale. I loro lauti stipendi (al livello – se non superiori – di quelli dei manager d’impresa privata) derivano non solo dal pluslavoro estorto direttamente dalle aziende e dalle holding di Stato ma anche (e in molti casi soprattutto) da quello estorto ai lavoratori del settore privato, sottratto con lo strumento fiscale al profitto capitalista e parzialmente passato al settore pubblico e ai suoi manager attraverso i fondi di dotazione, il ripianamento dei bilanci, ecc.
Più accentuato ancora dell’intreccio tra alti burocrati e manager negli organi di amministrazione e controllo dell’impresa pubblica è lo stupefacente intreccio di presenze degli stessi manager di Stato nei consigli d’amministrazione delle varie imprese e gruppi. Questo, unitamente al fatto che la carriera del manager di Stato avviene prevalentemente nell’ambito dell’impresa stessa (con limitati scambi, da un lato con l’alta burocrazia e dall’altro con il management dell’impresa privata) e ai legami stretti con l’élite politica (in particolare con la Democrazia Cristiana), è il cemento unificante di questo gruppo sociale, abbastanza compatto e omogeneo nonostante le rivalità personali e di clan.
Tra gli altri paesi tardo-capitalistici, solo l’Austria supera l’Italia quanto a peso relativo del settore pubblico dell’economia e nessun altro paese vi si avvicina da presso. Ovunque, tuttavia, e soprattutto in Europa, esso mostra l’indiscutibile tendenza di lungo periodo ad accrescere la sua importanza e quella della corrispondente categoria tecnoburocratica, anche se non è ancora chiaro se prevarrà il modello delle partecipazioni statali («all’italiana») o il modello della statalizzazione diretta.
Il settore pubblico dell’economia sfuma, dicevamo, in quello privato in modo difficilmente percettibile e la figura sociale del manager di Stato sfuma nella zona di frontiera delle partecipazioni statali con quella del manager della grande impresa capitalista. Quest’ultimo nasce, come gestore del potere economico e non più come suo strumento, dalla già vista scissione di proprietà e controllo nella grande impresa oligopolistica. Lo stesso Miliband, che pure non vede nel fenomeno elementi sufficienti per definire una nuova classe, deve ammettere che «alla testa delle società più grandi, vi saranno sempre più in futuro manager e dirigenti esecutivi che devono la loro posizione non alla proprietà ma alla nomina e alla cooptazione, tendenza che non è uniforme, ma che è molto accentuata e assolutamente irreversibile».
Il diluvio di letteratura marxista sull’argomento mostra grande abilità e sottigliezza scolastica, distinguendo o confondendo, a seconda delle esigenze dialettiche, proprietà giuridica e proprietà economica, proprietà e possesso, proprietà individuale, associata, di classe. Il tutto finalizzato alla «dimostrazione» che i manager non sono nuovi padroni. È pur vero che l’estorsione di plusvalore avviene con meccanismi in buona parte capitalistici (e chi lo nega? non noi che infatti parliamo di tardo-capitalismo). Resta il fatto che questi nuovi padroni sono radicalmente diversi dall’imprenditore capitalista non solo nella fonte del loro potere e nella forma di accaparramento individuale (e di classe) della loro quota di surplus, ma anche, almeno tendenzialmente, nell’antagonismo dei loro interessi nei confronti della borghesia capitalista e del proletariato.
Questo tipo di nuovi padroni è stato analizzato, non a caso, soprattutto negli Stati Uniti, dove esso rappresenta, assieme allo sviluppo dell’intervento statale (che si avvale relativamente poco dell’impresa pubblica), uno dei due luoghi di formazione del potere economico tecnoburocratico. È significativo che negli Stati Uniti sia stata rilevata, soprattutto ai massimi livelli, un’accentrata mobilità orizzontale tra management dell’impresa privata e vertici dell’apparato politico e amministrativo.
In Italia, viceversa, questa categoria sembra essersi poco sviluppata, simmetricamente al forte sviluppo dei manager pubblici. Pure qui tuttavia, grazie anche alle sempre più strette interdipendenze del grande capitale privato con il potere politico e con l’impresa pubblica (soprattutto con il settore creditizio quasi completamente statizzato), la direzione degli oligopoli privati riveste caratteri sempre meno simili a quelli tipicamente capitalistici e sempre più simili a quelli tecnoburocratici.
Un settore normalmente sottovalutato e del tutto escluso nelle analisi socio-economiche è quello della cooperazione. Eppure esso riveste in talune realtà, come quella italiana, un’importanza tutt’altro che trascurabile: nel 1977 in Italia il giro d’affari complessivo del settore cooperativo si aggirava sui diecimila miliardi [di lire], di cui quattromila circa attribuiti alla sola Lega delle Cooperative, l’associazione controllata dal pci. Noi vediamo nel settore cooperativo, al vertice delle principali imprese e degli aggregati «federativi» che operano come vere e proprie holding, uno dei «luoghi» di formazione e di esercizio del potere tecnoburocratico.
In queste imprese e aggregati, il socio cooperatore è assimilabile all’azionista di una società per azioni a capitale polverizzato e/o al lavoratore dipendente, del tutto estranei al potere decisionale. Per dirla con le parole di Roberto Ambrosoli: «In Italia la tecnoburocrazia cooperativa si pone a metà strada, grosso modo, tra la tecnoburocrazia dell’impresa pubblica e quella dell’impresa privata. Di questa ha la capacità di svolgere un ruolo economicamente attivo e quindi socialmente rilevante. Di quella ha l’estrazione partitica, il che determina sia la possibilità di usare tale estrazione per acquistare potere, sia l’obbligo di ‘ricambiarlo’ con prestazioni di vario tipo a vantaggio del partito ispiratore […]. È un fatto che molti studiosi moderni della cooperazione indicano in essa uno degli strumenti adatti a rendere più incisiva e ‘vincolante’ l’opera di programmazione economica dello Stato, per adesso ancora ‘indicativa’. È chiaro che questo non potrebbe avvenire che tramite un ‘accordo’ tra il potere politico e le tecnocrazie cooperative, di cui verrebbe utilizzato il ruolo dirigenziale per asservire la cooperazione ai bisogni dell’economia pubblica. In tal modo le tecnocrazie cooperative si troverebbero a essere equiparate a quelle delle grandi imprese di Stato».
La dirigenza politica rientra a buon diritto nella nuova classe dominante tecnoburocratica, non solo perché essa gestisce il potere politico ed economico complessivo dello Stato – assieme agli altri settori della tecnoburocrazia e alla grande borghesia capitalista – ma anche perché nella sua articolazione partitica essa svolge con i sindacati il ruolo di gestore della conflittualità sociale. Nelle complesse e «delicate» società tardo-capitalistiche, questa forma di controllo «democratico» sugli uomini (in quanto «cittadini» non meno che in quanto «produttori») è di fondamentale importanza. Luogo di questo potere sono, oltre agli organi governativi, gli apparati dirigenti dei partiti sia di governo sia di opposizione istituzionale. Dopo la classica analisi del Michels, la natura sostanzialmente oligarchica dei partiti politici non ci sembra essere mai stata seriamente contestata, se non a livello ideologico-propagandistico. Per quanto democratiche possano essere le modalità formali per la nomina dei dirigenti e per quanto libero possa essere il dibattito in seno al partito (a maggior ragione quando questi caratteri di democraticità e di libertà sono di diritto o di fatto negati), la sua stessa natura di struttura gerarchica fa sì che sostanzialmente tutte le decisioni vengano prese da una ristretta cerchia di funzionari superiori, che il ricambio dei dirigenti sia assai lento, specie ai livelli più alti, e che chi raggiunge questi livelli tenda a essere inamovibile.
La riprova del ruolo essenzialmente tecnoburocratico della dirigenza politica la dà la presenza preponderante negli organi direttivi dei partiti di professionisti della politica, molti dei quali laureati e diplomati, che sono nel «mestiere» della politica sin dall’inizio o quasi della loro attività «lavorativa». Persino in un partito come il pci, a larghissima componente operaia tra gli iscritti e che si vuole «partito della classe operaia», troviamo su quasi cinquecento dirigenti analizzati in un’indagine del 1963-1965, ben il 52,4 per cento con laurea o frequenza universitaria (nella dc è addirittura l’89,9 per cento), una percentuale oggi superata abbondantemente. I partiti (e paradossalmente quelli «operai» più degli altri) sono sempre più nettamente istituzioni burocratiche all’interno delle quali si fa «carriera», e non per una loro degenerazione, ma per una loro naturale evoluzione funzionale e organica, cioè per il loro ruolo e la loro struttura.
Simile è il ruolo dei sindacati che, al pari dei partiti, sono diventati strutture istituzionali («para-statali») di controllo e gestione della lotta di classe. Non dissimili, anche se finora meno spinti, per lo meno in Italia, sono al loro interno il processo oligarchico e la professionalizzazione tecnoburocratica dei ruoli dirigenti. Certo, in paesi come l’Italia e la Francia, ad accentuata e politicizzata conflittualità, la partecipazione al potere dei sindacati (dei vertici sindacali, si intende), si esplica in forme diverse che in paesi come la Germania o la Svezia, dove l’istituzionalizzazione socialdemocratica della lotta di classe è ben più avanzata. Nella Germania Federale, il potere sindacale (sempre dei vertici) ha trovato un esplicito riconoscimento giuridico-economico nella cogestione aziendale (mitbestimmung), che già interessa un gran numero di imprese e che presto dovrebbe riguardare tutte le imprese tedesche di una certa dimensione. Con la mitbestimmung entrano nei consigli di amministrazione i «rappresentanti» dei lavoratori manuali, degli impiegati e dei dirigenti (!) in numero pari ai rappresentanti della proprietà azionaria. Così, da un lato si rendono disponibili migliaia di «poltrone» per altrettanti funzionari sindacali, dall’altro si accelera e accentua il processo di distacco tra la proprietà e il controllo, base del potere manageriale nell’impresa privata.
Data la complessità crescente delle sue funzioni di corresponsabilità (più o meno conflittuale) nelle scelte economiche aziendali e generali, la dirigenza sindacale va sviluppando competenze tecnoburocratiche che ne fanno sempre più nettamente un settore, appunto, della tecnoburocrazia. Un’ultima osservazione non priva di interesse. Una maggiore mobilità verticale negli apparati dei partiti «operai» e dei sindacati, rispetto ad altri settori della società, fanno sì che essi costituiscano canali di ascesa sociale per un buon numero di elementi dinamici, capaci e ambiziosi della classe operaia, che realizzano così, più o meno compiutamente, la loro emancipazione individuale. Mentre credono (se non tutti, almeno una parte di essi) di operare per l’emancipazione collettiva della classe, questi ex operai passano di fatto nel ceto medio prima, nella classe dominante poi (se arrivano a posizioni di potere), non diversamente – mutatis mutandis – dall’ex operaio messosi in proprio e gradualmente diventato padroncino e padrone. Perché, anche qui, quello che determina l’appartenenza di classe non è la provenienza, ma la funzione sociale.
Quello che abbiamo cercato di tratteggiare a grandi linee è un quadro definitorio dei nuovi padroni coerente con le premesse ideologiche e metodologiche esposte. Va da sé, dopo tutto quello che abbiamo detto, che la definizione ci soddisfa non se e in quanto risponde a un’astratta esigenza di classificazione sociale, ma solo se e in quanto essa è funzionale alla critica teorica e pratica del dominio e dello sfruttamento.
Come era ed è necessario che i proletari identifichino chiaramente nel borghese un nemico di classe e nel sistema capitalista una macchina di dominazione e di sfruttamento che va demolita, così la lotta di classe non diventerà lotta consapevolmente rivoluzionaria se altrettanto chiara non diventa l’identificazione di un nuovo nemico di classe nella tecnoburocrazia. O peggio, se rivoluzione ci sarà, essa porterà al potere i «nuovi padroni», ricacciando indietro il movimento di emancipazione e trasformando i lavoratori in servi di Stato.
A questo ci auguriamo possa servire la nostra analisi, a evidenziare il fenomeno dell’ascesa di una nuova forma di dominio e sfruttamento che nasce anche dalle e nelle lotte degli sfruttati, a chiarire che il nemico da combattere è la burocrazia e non il burocratismo; che i dirigenti e gli aspiranti dirigenti di qualunque colore sono i «nuovi padroni», attuali o potenziali; che l’emancipazione non si delega a nessuno, perché non la malafede o la debolezza dei compagni, ma il meccanismo oggettivo del potere è contraddittorio con l’emancipazione; che solo l’autogestione individuale e collettiva della lotta e della vita è mezzo e fine coerente e degno di una società senza servi e senza padroni. E perché anche l’autogestione non diventi ennesima copertura ideologica del dominio tecnoburocratico, bisogna darle contenuti e forme consapevolmente antiburocratiche e antitecnocratiche.
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