capitolo quarto

La gramigna sovversiva

La tentazione è forte per l’anarchico: «autogestione» è una parola nuova per una cosa vecchia, anzi per diverse cose vecchie, poiché anche questa parola, come quasi tutte le parole del vocabolario economico, politico, sociale, può significare più di una cosa.

Nel suo significato più ampio, «estremistico», autogestione è sinonimo, se non di anarchia, almeno di autogoverno (un termine del vecchio lessico anarchico). È quanto sostiene, ad esempio, Philippe Oyhamburu che, confrontando le enunciazioni degli «autogestionisti» con il pensiero anarchico e con le realizzazioni anarchiche, rileva come il movimento autogestionario non solo riprenda la maggior parte dei temi libertari ma addirittura a volte li enunci parola per parola. Del resto il termine jugoslavo samoupravlje, dalla cui traduzione all’inizio degli anni Sessanta è «nata» la parola «autogestione», ci sembra una variante serbo-croata del russo samoupravljanje già usato da Bakunin, che può tradursi sia come autoamministrazione sia come autogoverno, appunto.

Nel suo significato più ridotto, autogestione è sinonimo di cogestione, cioè di partecipazione subalterna dei lavoratori, cioè di collaborazione interclassista, cioè di truffa. E tra l’uno e l’altro polo c’è tutta la possibile sfumatura intermedia di significati e di scelte teorico-pratiche del socialismo, da quello libertario a quello autoritario e da quello rivoluzionario a quello riformista.

È forte dunque la tentazione di liquidare l’argomento, soprattutto di fronte all’uso inflazionato e/o mistificante del termine, che non può non irritare (c’è la vacanza «autogestita» offerta da un’agenzia turistica, c’è la propaganda elettorale televisiva «autogestita» dai partiti…). Eppure noi crediamo che dietro il successo della parola vi sia qualcosa di più e di più importante di un’ennesima mistificazione e di un furbesco recupero, sotto nuova terminologia, della tradizione anarchica. Lo stesso sforzo di mistificazione e lo stesso tentativo di recupero sono in sé già significativi di una «domanda» sociale cui si rivolgono la mistificazione e il recupero.

Una domanda di anarchia

Il fatto è che l’autogestione è stata innanzi tutto una rivendicazione e una pratica sociale largamente diffuse nel corso dell’ultimo decennio. Il boom dell’autogestione è forse il fenomeno culturale più importante di questo dopoguerra dal punto di vista anarchico. E per fenomeno culturale non intendo tanto il fiorire di scritti sull’autogestione, che credo più effetto che causa del boom, quanto il moltiplicarsi di comportamenti autogestionari nel conflitto sociale, a partire soprattutto dal ‘68, ma già preannunciati negli anni precedenti.

Una crescente volontà di autodeterminazione individuale e collettiva si è andata manifestando (talora in modo netto, più spesso in forma confusa e contraddittoria, ma sempre «leggibile») in mille modi: dalle comuni hippies all’occupazione di fabbriche, dalle lotte studentesche al movimento femminista, dal rifiuto della delega alla ricerca di diversi rapporti interpersonali… Tra l’«on fabrique, on vend, on se paie» della [fabbrica autogestita] lip e «il corpo è mio e lo gestisco io» c’è continuità, c’è appunto la multiformità di questa domanda sociale di autogestione a tutti i livelli che si traduce in una destrutturazione del potere in tutti i macro e microsistemi in cui il potere si manifesta: dalla famiglia allo Stato, passando per la fabbrica, il quartiere, la scuola, l’ospedale, il sindacato, il partito…

Rifiuto del potere o richiesta di potere? I riformisti e i rivoluzionari autoritari preferiscono qualificare questa domanda sociale come domanda di potere: ma è ancora potere quello che non vuole essere facoltà di «comandare ed essere obbedito», bensì facoltà di decidere autonomamente? L’aspirazione autogestionaria ci pare piuttosto il corrispettivo libertario in termini di potere di quello che è l’aspirazione socialista egualitaria in termini di proprietà. Essa cioè richiede una socializzazione del potere.

Ora, un potere socializzato, vale a dire non concentrato in ruoli sociali determinati (e perciò in individui e classi dominanti), ma diffuso in tutto il corpo sociale e nelle sue articolazioni come funzione universale ed eguale, può corrispondere a una buona approssimazione di anarchia. Se non all’anarchia-assenza-di-potere (concetto limite come le forme geometriche), per lo meno a quel compromesso dinamico tra il modello ideale e i vincoli dei contesti materiali e culturali dati che potremmo chiamare «anarchia possibile». Ma un potere socializzato può essere anche inteso, all’opposto, come abominevole strumento di controllo autoritario onnipresente, in cui il potere diviene una funzione universale seppur diseguale (graduata dal vertice alla base), in una sfumatura continua che coinvolge tutti in ruoli di oppressione reciproca. Brrrr…

Mezzo, fine o metodo?

Un serio e approfondito approccio alla tematica autogestionaria configura due possibili – e, a mio avviso, fondamentali – utilità per gli anarchici: 1) riflettere sui contenuti e sulle forme più avanzate (in termini egualitari e libertari) assunte dal conflitto sociale contemporaneo e nello stesso tempo sulle risposte date dalle classi dominanti; 2) riflettere sui problemi dell’anarchia possibile, vale a dire sui problemi della ricostruzione sociale, della ristrutturazione globale del tessuto comunitario secondo modi non gerarchici.

Credo cioè che il dibattito sull’autogestione sia un’occasione importante per gli anarchici. Se la domanda di autogestione è in certa misura una «domanda di anarchia», bisogna non aggiungere un paio di slogan al nostro repertorio di parole d’ordine, ma trarne indicazioni per il nostro agire. Se sociologi, economisti, filosofi, psicologi, pedagogisti, urbanisti vanno utilizzando in chiave autogestionaria un approccio quasi-anarchico alle scienze umane e propongono soluzioni quasi-anarchiche ai problemi sociali, non basta felicitarsi del fenomeno e tanto meno rivendicare la priorità di quel metodo, bisogna lavorare seriamente per riproporci come credibile punto di riferimento culturale libertario qui e ora… Se politicanti e burocrati e tecnocrati blaterano di autogestione, o peggio ne vanno realizzando ed elaborando versioni parziali e distorte, è inutile gridare «al ladro!», dobbiamo demistificare il loro gioco con argomentazioni convincenti e con lotte esemplari.

L’autogestione non deve essere, beninteso, un semplice pretesto per dare una «rinfrescata» al nostro «bell’ideale». Si tratta, ben altrimenti, di operare per un vero e proprio aggiornamento del nostro bagaglio culturale e di operare nel modo più utile, cioè 1) a partire da istanze reali e non solo da una nostra esigenza individuale e/o di movimento, 2) organizzando la nostra riflessione attorno a un concetto che ci richiama costantemente alla concretezza delle forme organizzative.

Con questo non voglio dire che tutto il lavoro teorico-pratico di ridefinizione del progetto anarchico sia riconducibile semplicisticamente alla categoria autogestione. Il concetto di autogestione in sé non può assolutamente sostituirsi alla ricchissima problematica dei fini e dei mezzi dell’anarchismo, che si alimenta di una vasta gamma concettuale di ordine etico, estetico, scientifico…

In realtà l’ambito proprio dell’autogestione non è né quello dei fini, né quello dei mezzi, diversamente da quanto potrebbe apparire, di volta in volta, da singole manifestazioni di essa nel conflitto sociale, ma l’ambito intermedio del metodo, l’ambito dei rapporti tra i fini e i mezzi. Anche se partecipa degli uni e degli altri, cioè, l’autogestione non è né un fine (o una somma di fini), né un mezzo (o una somma di mezzi), ma un modo di ricercare e di esprimere la coerenza tra questi e quelli, in termini organizzativi e con riferimento sia alla critica teorico-pratica dell’esistente sia alla proposta di strutture sociali alternative.

Definire l’autogestione come metodo organizzativo può apparire riduttivo. In realtà vuol dire attribuirle un’importanza centrale. Significativamente, le grandi fratture in seno al movimento socialista si sono verificate non sui fini, che apparivano gli stessi, ma sul metodo: sulla scelta dei mezzi e sulla loro coerenza con i fini. Definire l’autogestione come metodo significa anche negarle la neutralità di una semplice tecnica, buona a tutti gli usi, per attribuirle una funzionalità specifica rispetto ai valori, a essa congrui, di libertà e di eguaglianza.

Fra teoria e pratica sociale

L’autogestione intesa come fine mi sembra derivare da (e/o portare a) una concezione terribilmente limitata e limitativa della società e dell’uomo. L’autogestione intesa come mezzo si presta a usi mistificanti, si lascia inserire, in forma di decentramento di quote più o meno insignificanti di potere, in nuovi sistemi tecnoburocratici «partecipati». L’una e l’altra possono dar luogo a nuove oscene forme di «interiorizzazione» del potere, cioè a un autocontrollo «indotto», a un’autodisciplina «pilotata» in una società gerarchica, cioè a un autosfruttamento, a un dominio «consensuale».

Viceversa, concepita come metodo, con una collocazione di cerniera non solo tra mezzi e fini ma anche tra teoria e pratica sociale, l’autogestione può esprimere tutta la ricchezza e tutta la problematicità del conflitto e del pensiero antigerarchico e antiburocratico. A questa condizione essa può diventare un formidabile strumento logico e operativo. Uno strumento sovversivo, cioè non integrabile in sistemi sociali e concettuali classisti, perché irriducibilmente libertario ed egualitario.

Tale ricchezza, del resto, è già in parte riscontrabile nei fatti, cioè nella multiformità delle rivendicazioni autogestionarie espresse dalle lotte sociali e, inoltre, nel pensiero dei teorici dell’autogestione generalizzata, i quali, pur essendo per lo più di formazione marxista, non a caso sono giunti a posizioni sostanzialmente anarchiche di rifiuto dello Stato e di ogni gerarchia, del partito e di ogni avanguardia…

Il fatto è che l’autogestione, come dicevamo, è una metodologia organizzativa di segno libertario ed egualitario solo se ne vengono pienamente accettati tutti i presupposti e tutte le implicazioni, in profondità e in estensione. Quando cioè si studiano le condizioni necessarie perché ogni individuo possa essere veramente soggetto e non oggetto delle scelte che lo concernono e quando, per necessaria coerenza, si allarga il campo di applicazione dell’autogestione dall’angusto microcosmo aziendale a tutte le sfere e a tutti i livelli della vita sociale. L’autogestione generalizzata diventa così una dimensione culturale in cui si incontrano: rivolte individuali e collettive contro qualunque forma (economica, politica, sessuale, etnica, ideologica…) del rapporto di dominazione; tentativi (grandi e piccoli, rivoluzionari e marginali) e sperimentazioni (extra o anti-istituzionali) per rifondare su nuove basi la vita collettiva; tensioni ideali e pulsioni emotive irriducibili ai bisogni riconosciuti e più o meno soddisfatti dai grandi sistemi gerarchici; sforzi di ripensare la società e dunque l’uomo, di trovare nuovi approcci e/o nuove chiavi di lettura alla storia.

Ma questa autogestione generalizzata non si configura o non tende a configurarsi, più che come metodo, come vero e proprio sistema? Ad esempio, come modello alternativo di società globale a potere socializzato, non finisce per essere quell’anarchia possibile di cui dicevo più sopra? Sì, ma perché in questo sistema, in questo modello, in questa dimensione culturale vengono introdotti criteri di giudizio (valori) e criteri conoscitivi (modi di selezionare e organizzare i dati per trasformarli in informazioni) che, pur derivati o estrapolati dal metodo organizzativo, non sono più metodo, non sono più autogestione. E poiché l’autogestione non è metodo neutrale, ciò che da essa si deriva per induzione o deduzione risulta di segno anarchico, o meglio tanto più anarchico quanto maggiori sono il suo approfondimento e la sua estensione.

Innestare e potare il vecchio tronco

L’autogestione generalizzata può ben essere, allora, un altro modo per dire socialismo libertario. Niente di nuovo? Al contrario: si tratta di un socialismo libertario ritrovato, anzi ricostruito nelle lotte, nelle esperienze, nelle innovazioni scientifiche e tecniche, in una parola nella cultura di quest’ultimo ventennio.

L’autogestione generalizzata è una teoria ancora in divenire, come dev’essere ogni teoria viva, ma ha già stabilito dei capisaldi che corrispondono ai nostri stessi capisaldi. Il che non stupisce, dal momento che essa ha ripercorso grosso modo i nostri stessi itinerari logici, ma li ha ripercorsi oggi, mentre noi li abbiamo percorsi ieri.

Enunciati generali, come il «primo principio dell’autogestione» definito da Bourdet (rifiuto della delega di potere, revocabilità di tutti i mandati in ogni momento), danno agli anarchici, che da sempre li teorizzano e li praticano, l’impressione di una scoperta… dell’acqua calda. Ma non possiamo e non dobbiamo limitarci a rilevare il fenomeno con diffidenza o con soddisfazione, bensì, prima che il saccheggio – più o meno volontario – e il riciclaggio delle nostre idee sia irreversibile, dobbiamo affrettare la «ristrutturazione» del nostro capitale teorico. Un capitale obsoleto, non negli enunciati generali – che per l’appunto si sono verificati validi anche nel dibattito sull’autogestione – ma in tutta la sua articolazione intermedia e nella sua strumentazione operativa.

L’ecologia, la tecnologia alternativa, la pedagogia antiautoritaria, l’analisi istituzionale, non possono essere semplicemente aggiunte al pensiero anarchico e neppure vi si possono meccanicamente addizionare casuali frammenti, di segno anarchico, delle scienze umane, dall’antropologia all’economia, dalla psicologia alla sociologia. L’operazione che auspico è ben più complessa. Il vecchio solido tronco dell’anarchismo è ancora vigoroso, ma deve essere energicamente potato, perché possano germogliare e svilupparsi rami giovani e perché possa accogliere nuovi innesti senza rigettarli o soffocarli. Il fiorire della pratica e della teoria autogestionaria mi sembra appunto una buona occasione per potare e innestare. Dal dibattito sull’autogestione possiamo trarre elementi di giudizi su cosa potare e cosa innestare.

Senza complessi d’inferiorità immeritati, ma anche senza illusori complessi di superiorità, gli anarchici possono aspettarsi dal dibattito sull’autogestione un prezioso contributo di apertura verso il nuovo e il diverso, di stimoli creativi, di ammonimento a non nascondere i loro nodi irrisolti dietro il dito di qualche formuletta passepartout. A loro volta, essi possono portare al dibattito il prezioso contributo della memoria collettiva di un movimento che ha vissuto consapevolmente (consapevole anche delle proprie contraddizioni) tutta la problematica dell’autogestione attraverso le conquiste e le sconfitte, le gioie e le sofferenze, le lotte e la vita quotidiana, il cuore e il cervello di centinaia di migliaia di militanti.

La divisione gerarchica del lavoro…

Il dibattito sull’autogestione si muove innanzi tutto dall’ambito che gli è più proprio per definizione: dall’analisi dei meccanismi decisionali collettivi, cioè dalla riflessione su come, nelle strutture organizzative gerarchiche, si determina il potere e su come, per converso, sia concretamente possibile organizzare la partecipazione egualitaria di tutti ai processi decisionali. È una riflessione sui temi dell’autorità e della libertà ed è una riflessione che porta dritto ai nodi della democrazia diretta e della divisione del lavoro.

Infatti è agevole in quest’ottica (ri)scoprire che la distinzione fondamentale, comune a tutte le società di classe, è quella tra chi detiene il potere e chi lo subisce, tra chi dirige e chi è diretto, e che la causa di questa dicotomia non è la proprietà privata dei mezzi di produzione, la quale semmai ne è una forma giuridico-economica storicamente determinata. È agevole perciò (ri)scoprire che la radice del dominio è la divisione gerarchica del lavoro sociale e che pertanto l’autogestione è un involucro vuoto se non presuppone l’integrazione (di bakuniniana e kropotkiniana memoria) del lavoro manuale e intellettuale, esecutivo e organizzativo.

Senza questa ricomposizione, l’autogestione è già impossibile a livello aziendale perché viene a mancare l’effettiva possibilità e capacità di tutti i lavoratori di operare e decidere con conoscenza di causa (che è il secondo dei due principi fondamentali dell’autogestione, secondo Bourdet). Senza questa ricomposizione non vi può essere partecipazione egualitaria in termini di consapevolezza e di responsabilità, e non vi è dunque autogestione, ma cogestione asimmetrica tra dirigenti e subordinati, siano pur tutti formalmente soci o siano addirittura i primi formalmente «dipendenti» dei secondi, secondo la formula jugoslava.

È un insospettabile testimone di regime (Drulović) a dirci che, secondo le risultanze di studi sociologici, i frequenti conflitti tra direzione e organi rappresentativi dei lavoratori esprimono un «acuto antagonismo, una vera lotta per la spartizione del potere e dell’autorità», e una delle cause sarebbe, guarda un po’, la stravagante pretesa dei lavoratori di «ingerenza nel campo della direzione» per una «concezione primitiva secondo cui l’autogestione sopprimerebbe la divisione del lavoro». A maggior ragione, l’integrazione deve essere estesa a tutta la società, perché la divisione gerarchica del lavoro sociale non è un fenomeno riconducibile al solo ambito aziendale, né al solo ambito economico, ma riguarda per l’appunto tutte le funzioni sociali. E anche restando nell’ambito economico, bisogna riconoscere nello sfruttamento non solo l’aspetto quantitativo, ma anche quello qualitativo, che consiste nel riservare a una minoranza i lavori più gratificanti mentre alla maggioranza spettano i lavori più ingrati, faticosi, frustranti. Il pulitore di fogne resta pulitore di fogne anche se si autogestisce. L’urbanista resta urbanista anche se si autogestisce. Possiamo ben immaginare un collettivo autogestito di facchini e un collettivo autogestito di medici, possiamo persino immaginare (è un’astrazione difficile, lo ammetto) che essi si scambino il loro lavoro alla pari: un’ora di lavoro degli uni pagata come un’ora di lavoro degli altri. Ma lo scambio resterà ineguale, lo sfruttamento qualitativo resta. Esso viene mascherato dal fatto che normalmente – e non a caso – a esso si sovrappone quello quantitativo. Ma quando la norma paradossale per cui ai lavori più sgradevoli corrispondono i redditi più bassi viene contraddetta, la dimensione qualitativa dello sfruttamento diviene palese. Ad esempio, oggi uno spazzino guadagna più di un professore di liceo, ma non risulta esservi neppure un accenno di tendenza da parte dei professori a farsi assumere dalla Nettezza Urbana…

… e la sua ricomposizione egualitaria

La divisione gerarchica del lavoro sociale è dunque carica di significati disegualitari: sfruttamento, privilegio e soprattutto potere. Le ideologie del potere (capitalistiche o tecnoburocratiche che siano) giustificano la gerarchia con necessità organizzativa delle società complesse. Imbrogliano le carte, perché mescolano truffaldinamente due cose che non vanno necessariamente insieme. È innegabile che, in strutture socio-economiche più articolate di una tribù di cacciatori-raccoglitori, la divisione sociale e tecnica del lavoro è in certa misura ineliminabile. È innegabile che queste strutture, dall’azienda alla comunità locale e via via fino ai sistemi sociali più ampi, si debbano articolare per funzioni. Ma non è affatto necessario che le funzioni diventino ruoli fissi: la rotazione, ad esempio, consente di conciliare la divisione con l’eguaglianza. Inoltre certe funzioni possono benissimo diventare collettive, altre ancora possono essere affidate come mandato revocabile, altre infine scompariranno del tutto perché utili e necessarie solo al sistema gerarchico, che ne genera in gran numero e continuamente per conservarsi e giustificarsi.

Che cosa si oppone, ad esempio, a che in un ospedale tutti i lavoratori svolgano a rotazione mansioni manuali e intellettuali (che tutti siano, cioè, in diversi periodi della giornata o della settimana o dell’anno, medici-infermieri-ausiliari), che la direzione sia una funzione collettiva, con compiti di amministrazione e di coordinamento interno ed esterno attribuiti come incarico a termine? Nessun vero motivo, ma solo falsi motivi di razionalità interna alla logica del potere, e cioè una scarsità relativa di competenze intellettuali, voluta, creata e mantenuta artificialmente per giustificare il monopolio di classe della conoscenza e dunque la gerarchia.

L’obiezione, poi, che sarebbe uno spreco sottoutilizzare i cervelli degli intellettuali costringendoli a dedicare una parte del loro tempo ai lavori manuali è di un’imbecillità ributtante: che dire dello spreco enorme di creatività, intelligenza, inventiva di quelle nove persone su dieci mutilate nella loro manualità e condannate alla stupida e avvilente routine nelle fabbriche, negli uffici, nei lavori domestici, affinché una sola possa creare, pensare, inventare? E perché non ci si domanda anche quanto la stessa intelligenza di quell’uno sia impoverita dalla privazione degli stimoli delle attività manuali, cioè del contatto diretto con la realtà materiale?

In questa prospettiva acquista un significato particolare il recente fenomeno di scolarizzazione di massa, con le sue rivendicazioni di diritto allo studio, con le sue spallate un po’ velleitarie e un po’ demagogiche alle barriere economiche e meritocratiche poste a difesa del sapere privilegiato. Al di là delle aspirazioni individuali a una promozione sociale tramite il diploma e la laurea, come fenomeno complessivo, come somma oggettiva delle singole motivazioni, si tratta di una domanda generalizzata di lavoro intellettuale, una domanda che, appunto perché generalizzata, non può essere soddisfatta se non in una logica di negazione della piramide sociale e di distribuzione egualitaria fra tutti sia del lavoro manuale sia del lavoro intellettuale. E non è forse una coincidenza fortuita se l’autogestione ha fatto clamorosa irruzione, come rivendicazione e come pratica, proprio nel Maggio ‘68, in un’esplosione popolare innescata dagli studenti parigini…

Delega di potere…

L’integrazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale determina una condizione di eguaglianza nelle effettive possibilità e capacità decisionali. Tuttavia non esaurisce, ma solo introduce, il discorso sulla democrazia diretta, così come la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale non esaurisce il discorso sul potere: infatti, non tutti i lavoratori intellettuali, anzi solo una minoranza tra essi, sono ascrivibili alla classe dominante. Non lo scienziato, ad esempio, e neppure il medico, l’insegnante o l’ingegnere ricoprono, in quanto tali, ruoli di potere, ma solo se e in quanto occupano posizioni di controllo e direzione sociale, se e in quanto svolgono funzioni di «eterogestione», cioè di gestione su altri uomini.

Qualunque sia la sua fonte apparente e la sua giustificazione (la proprietà o la capacità organizzativa, il merito o la competenza), qualunque sia il modo con cui sia conferito o legittimato (i meccanismi mercantili o la selezione meritocratica, l’investitura dall’alto o la delega «democratica» dal basso), il potere dei dirigenti è sempre e comunque ottenuto confiscandolo alla società, cioè negando di fatto e di diritto a tutti gli altri la facoltà di autodeterminarsi individualmente e collettivamente.

La delega di potere che si esprime nella democrazia rappresentativa, o democrazia indiretta, è il marchingegno forse più sottilmente mistificatorio di legittimazione della gerarchia. Minaccia perciò di essere un cavallo di Troia del potere nella pratica e nel pensiero autogestionario, come dimostrano le esperienze storiche e contemporanee, dalla Spagna alla Jugoslavia, dal movimento cooperativo alle burocrazie sindacali. Spacciata per una tecnica organizzativa, essa è invece un modo organizzativo funzionale al potere gerarchico, contraddittorio con l’autogestione.

Si badi che qui andiamo oltre ogni considerazione sul fatto che, in una democrazia parlamentare, le elezioni sono un modo per nominare non la dirigenza politica ma solo un’esigua parte di rappresentanza formale del potere politico, e tralasciamo la facile ironia sulla natura mistificata della «scelta» elettorale. Lo stesso socialista Giorgio Ruffolo, candidato ora alle elezioni europee, ha definito tre anni fa il meccanismo votaiolo come un «applausometro» (un applausometro truccato, aggiungiamo noi, dalle ormai sofisticate tecniche di manipolazione dell’opinione pubblica). Quello che qui ci interessa osservare è che, anche nel caso astratto che tutte le funzioni di dirigenza sociale fossero elettive, egualmente i dirigenti eletti si costituirebbero in classe dominante, per la logica oggettiva della delega di potere.

L’astuzia di estendere all’ambito dell’azienda qualche misura di democrazia rappresentativa (in forma di cogestione o di «autogestione» tecnocratica) è un tentativo fin troppo trasparente di rifondare il consenso all’alienazione produttivistica, di fronte alla bancarotta dell’ideologia capitalista. Anche se la democrazia rappresentativa ha già mostrato la corda in campo politico e sempre più difficilmente riesce a mascherare la sua reale natura oligarchica, una sua riproposizione nell’ambito dell’economia può forse avere ancora una certa attrattiva, perché si basa su valori culturali depositati nell’inconscio collettivo, pur se in crisi, mentre il rifiuto della delega è ancora un fenomeno di «effervescenza» sociale relativamente nuovo.

… e democrazia diretta

Se la delega di potere apre una frattura nel corpo sociale, tra «gestori» e «gestiti», l’autogestione può riconoscersi e realizzarsi solo nella democrazia diretta, cioè solo a condizione che il potere rimanga funzione collettiva, non si separi mai dalla collettività come istanza superiore, neppure in ruoli eleggibili.

Democrazia diretta non significa, riduttivamente, democrazia assembleare. Anche se l’assemblea ne è l’organo fondamentale, nelle articolazioni ulteriori la democrazia diretta si avvale necessariamente di altre formule quali il mandato revocabile, che non è delega di potere. Vi è delega di potere quando si abilita qualcuno a prendere decisioni imperative sulla collettività, in nome e per conto di essa, per una vasta gamma di questioni e con ampia discrezionalità. Se viceversa il mandato è specifico e temporaneo, con ristretti e definiti margini di discrezionalità, e soprattutto se è revocabile in ogni momento dai mandanti, cioè dalla collettività che l’ha espresso, esso non si sostituisce alla volontà collettiva né la può liberamente «interpretare» (vecchio trucco della democrazia rappresentativa) perché il suo operato è sottoposto a costante verifica.

Assemblea sovrana, mandati revocabili e, infine, rotazione continua (a intervalli più o meno lunghi a seconda della loro natura) di tutte le funzioni permanenti di coordinamento, di tutte le funzioni «dirigenti» non esercitabili collettivamente: così si può a grandi linee definire la democrazia diretta. E così si è espressa la democrazia popolare quando episodicamente e temporaneamente ha potuto esprimersi senza eccessivi condizionamenti oggettivi e soggettivi. Così erano organizzate le collettività libertarie spagnole. Così sono tuttora organizzati numerosi kibbutzim israeliani in cui, secondo Rosner, ogni anno circa il 50 per cento dei membri partecipano a rotazione a comitati o funzioni direttive. E la revocabilità del mandato non risale alla Comune di Parigi? E non ritroviamo il mandato revocabile e l’assemblea sovrana come rivendicazione e come prassi nelle lotte operaie degli ultimi dieci anni? La democrazia diretta è già pratica sociale, seppure episodica e frammentaria.

Il nodo della dimensione

Si dice, da parte di chi con questo vuole ridurre l’autogestione ad ambiti marginali o negarne del tutto la possibilità, che la democrazia diretta può applicarsi solo a forme organizzative di piccole dimensioni. Consideriamo dunque la questione della dimensione.

Anch’io, paradossalmente, sono convinto che la grande dimensione sia la dimensione del potere e la piccola dimensione quella della democrazia diretta. Ma ne derivo conclusioni diverse: le unità associative elementari (produttive, territoriali, ecc.) possono e devono essere piccole e tra di esse deve essere tessuta una trama di relazioni orizzontali. Vanno cioè rifiutate le grandi unità e lo stesso nefasto concetto-mito dell’Unità con la maiuscola. Le piccole unità, a loro volta, non devono essere i mattoni di un edificio piramidale, ma i nodi di una rete di connessioni egualitarie di tipo federativo che procede dal semplice al complesso, e non dalla base al vertice.

La grande impresa, la megalopoli, lo Stato vanno rifiutati e disgregati perché il «grande» secerne potere al suo interno e al suo esterno. I grandi aggregati economici e politici, le grandi istituzioni sociali, sono per l’appunto l’ambito in cui si afferma e si esercita il potere dei «nuovi padroni»: è lì che la tecnoburocrazia trova il suo spazio vitale e le sue giustificazioni funzionali, sia nei sistemi tardo-capitalistici sia in quelli post-capitalistici.

Esistono in effetti abbastanza elementi sperimentali e riflessioni scientifiche per ritenere che non si possano superare certe soglie dimensionali, se si vuole salvaguardare quella che è l’essenza prima della democrazia diretta, la comunicazione diretta, esemplificata (seppure non affatto esaurita) dalla partecipazione attiva all’assemblea. È inimmaginabile un’assemblea decisionale di migliaia o decine di migliaia di persone. Essa può solo sancire l’approvazione o il rifiuto di proposizioni semplici, cioè precedentemente semplificate. Essa inoltre presenta il rischio di rispondere verosimilmente alle sollecitazioni emotive più che a quelle razionali, secondo le leggi della psicologia di massa.

D’altro canto, se è vero che alla comunicazione diretta possono affiancarsi altre forme di comunicazione orizzontale (consentite da un uso appropriato dei mezzi elettronici e televisivi, come suggeriscono ad esempio Prandstraller e Flecchia), è pur vero che esse non possono e non debbono sostituirsi, ma solo aggiungersi alla comunicazione diretta, soprattutto nelle articolazioni federali, perché esse possono essere più strumento di controllo e/o di sondaggio che non di formazione ed esplicazione della volontà decisionale.

Dunque il primo fondamentale ambito dell’autodeterminazione collettiva non può essere altro che l’unità associativa elementare – come il primo e fondamentale ambito della libertà non può che essere l’individuo – e questa unità deve essere «a misura di assemblea». Dunque l’approccio autogestionario al problema della dimensione deve porsi spregiudicatamente nella linea di pensiero sintetizzata dalla felice espressione schumacheriana «piccolo è bello». Si tratta di capovolgere l’impostazione logica che parte dall’esistente e dalle sue tendenze «oggettive» al gigantismo economico e politico e tecnologico per derivarne la «necessità» della grande dimensione. Ricadere in quella logica sarebbe fallimentare per la teoria e per la pratica autogestionaria, perché si arriverebbe alla dimostrazione dell’impossibilità dell’autogestione generalizzata. Sarebbe anche sbagliato, perché in realtà non sono la tecnologia, l’economia, la razionalità che impongono le macrostrutture e le macroistituzioni, ma una tecnologia, una economia, una razionalità determinate dalla logica del potere, anche se a loro volta, per un effetto di feedback, finiscono per diventare determinanti, creando un cerchio diabolico in cui ogni elemento si alimenta vicendevolmente di motivazioni «oggettive» e ideologiche.

Viceversa, l’autogestione deve ripensare l’economia, la tecnologia, l’assetto territoriale, ecc., a partire dalle sue esigenze, applicando la sua razionalità. Può essere che questo comporti talune riduzioni di efficienza, ma è un costo che, se si rivelasse necessario, andrebbe accettato. Nondimeno, è ancora da dimostrare che i maggiori costi della piccola dimensione, anche secondo una ragionieristica concezione dell’efficienza tecnica ed economica, siano superiori ai suoi benefici.

Al contrario, c’è tutto un nuovo filone di pensiero scientifico che va (ri)scoprendo delle «economie di scala» di segno opposto a quelle sinora sbandierate a motivazione del gigantismo. Come per molti altri casi, anche qui si può partire da una definizione apparentemente incontrovertibile per ricavarne conseguenze opposte a quelle date per scontate e culturalmente dominanti. Si hanno infatti economie di scala quando ci si avvicina alla dimensione ottimale e per converso si hanno diseconomie crescenti quanto più ci si allontana da questo optimum. Ma nessuno ha dimostrato né può dimostrare che la dimensione ottimale tende all’infinito. Anzi, vi sono sufficienti elementi per credere che oltre certe soglie dimensionali (che non sono ancora quelle che noi definiremmo piccole, ma, diciamo, medie) si hanno fenomeni di inefficienza economica e di congestione incompatibili con qualunque sistema, si creano problemi di direzione e di controllo sociale di tale gravità che annullano, anche nella logica dei capitalisti e dei tecnocrati, i vantaggi dell’accentramento.

Un recente studio francese di informatica applicata alla gestione aziendale (all’eterogestione, non all’autogestione) suggerisce che, per un flusso ottimale ascendente/discendente di informazioni, la soglia dimensionale non dovrebbe superare i cinquecento dipendenti. Proprio in Italia, poi, è dell’ultimo anno la scoperta della piccola impresa e delle sue virtù: la piccola impresa è duttile, dinamica, versatile, sensibile, efficiente… Da segno di arretratezza, di ostacolo allo sviluppo, sta diventando, grazie alla penna di giornalisti e studiosi «riciclati» al piccolo, spina dorsale dell’economia e insieme elemento trainante. Di fronte all’elefantiasi della grande impresa all’italiana (statalizzata, irizzata, gepizzata, imizzata, assistita, sclerotizzata, sonnolenta, ministeriale), fa premio l’imprenditorialità rampante di migliaia di gestori dello sfruttamento su piccola scala, imprenditorialità all’italiana anch’essa, naturalmente, fatta non solo di fantasia ma anche di lavoro nero, di evasione fiscale, banditismo ecologico, un’imprenditorialità che sfrutta e a sua volta, in un rapporto ambivalente, è sfruttata dalla grande impresa pubblica e privata.

Piccolo è bello

Si sta dunque aprendo (finalmente!) una breccia nel muro della dominante ideologia del «grande è bello» e un numero crescente di studiosi contribuisce a dimostrare che è possibile una diversa tecnologia, di piccola scala, che sia strumento dell’uomo e non di cui l’uomo sia strumento; che è possibile dare alla crisi energetica risposte diverse dalle centrali nucleari e dal saccheggio delle risorse naturali, e che, guarda caso, le fonti energetiche rinnovabili sono utilizzabili meglio nella piccola dimensione; che l’inquinamento non si pone drammaticamente e costosissimamente se non come fenomeno di grande scala; che la comunicazione interpersonale, che è una funzione sociale altrettanto importante della produzione, non è più ricca ma più povera nella grande dimensione (e dunque la povertà di relazioni non è solo caratteristica dell’«idiotismo rurale» ma anche di un nuovo «idiotismo urbano»); che nel loro complesso le grandi strutture sociali sono macchine a rendimenti decrescenti in rapporto ai loro «consumi», con il crescere della dimensione…

Chi più ne ha più ne metta. Il campo delle scoperte sull’irrazionalità della grande dimensione, aperto da un «semplice» capovolgimento di prospettiva, è ancora fecondissimo e si inizia appena a esplorarlo. Questo filone di pensiero, nelle sue espressioni più radicali, è antitetico all’ideologia scientifica del potere. Nelle sue espressioni più attenuate, tuttavia, esso può essere funzionale al potere, come un vaccino è utilissima forma attenuata della malattia. Infatti, sono gli stessi padroni dell’economia e dello Stato che da qualche anno vanno moltiplicando gli esperimenti e le proposte di decentramento, di disaggregazione (non disgregazione) del potere, nella fabbrica e nella società. È una confessione di fallimento, ma è anche un tentativo di rifondare una diversa centralizzazione del potere, decongestionando il centro, delegando ciò che esso non riesce a controllare ad articolazioni periferiche del potere, in misura decrescente dal centro alla periferia.

Questo decentramento, e la filosofia che lo sostiene e la scienza che gli presta gli strumenti, non è l’opposto della concentrazione, ma l’altra faccia necessaria della concentrazione. Questo decentramento non ha nulla a che vedere con la trama organizzativa federale, in cui viene superato lo stesso concetto di centro e periferia, perché ogni punto è al centro delle relazioni che lo concernono. La metafora geometrica del cerchio, detto per inciso, ha la stessa valenza gerarchica della metafora-piramide: ne è la versione a due dimensioni e non a caso richiama immediatamente la struttura gerarchica del territorio, dove la capitale occupa il posto del capitale, per usare un divertente gioco di parole.

Mentre nel decentramento autoritario il centro decide tutto ciò che può e delega ciò che gli sfugge o rischia di sfuggirgli, nel decentramento federativo è l’unità associativa che decide da sé tutto ciò che è di sua competenza e insieme alle altre unità ciò che è di pertinenza comune, mediante accordi e organismi di coordinamento temporanei o permanenti. Non è un puro gioco verbale, ma un vero e proprio rovesciamento logico. Si tratta, ad esempio, di considerare i comitati di quartiere come decentramento dell’amministrazione comunale e questa come decentramento dello Stato o, all’opposto, di considerare la città come una federazione di quartieri (come era un po’ il comune medievale, sia detto senza nostalgie passatiste) e questi a loro volta come federazioni di unità aggregative minori. Anche le imprese che superano certe dimensioni possono concepirsi, in quest’ottica, come una federazione di reparti. Il che è per l’appunto quanto presuppone, seppure in un’ottica che è ancora di decentramento gerarchico, la struttura autogestionaria jugoslava per le grandi aziende, ed è anche la logica inespressa che sta dietro i consigli di fabbrica, costituiti da delegati di reparto.

Non vi è dunque nessun ostacolo oggettivo alla piccola dimensione. Essa è inoltre perfettamente compatibile con una ricca e variata gamma di interrelazioni umane, perché con la sua potenzialità disgregatrice del potere coesiste una potenzialità riaggregatrice della società.

Eguali ma diversi

Abbiamo detto che il piccolo è necessario, abbiamo detto che il piccolo è possibile, abbiamo detto, infine, che il piccolo è bello. Quest’ultima affermazione ci conduce a un altro nodo problematico: la diversità. Il piccolo, infatti, è bello anche e forse soprattutto perché il piccolo è diverso. Il discorso sull’eguaglianza non può essere disgiunto da quello sulla diversità.

Lungi dall’essere contraddittori, i concetti di eguaglianza e di diversità sono complementari: è infatti la diseguaglianza, paradossalmente, che porta all’uniformità, al livellamento, alla massificazione. Anche se le ideologie della diseguaglianza dicono di fondarsi sulle diversità «naturali», l’unica diversità che esse riconoscono è quella inerente alla divisione gerarchica del lavoro sociale, l’unica diversità che esse legittimano è la diseguaglianza dei ruoli.

Il potere, per sua natura, nega tutto ciò che gli si oppone, e la diversità gli si oppone in quanto ingovernabile: nessun potere è sufficientemente elastico da gestire l’infinitamente diverso. Solo il diverso può gestirsi da sé. Il diverso proclama l’autogestione, il diverso è negazione vivente dell’eterogestione. Il potere quindi è in continua guerra – guerra a morte – con il diverso, esso deve distruggere la diversità, o quanto meno incanalarla nella diseguaglianza. In particolare, il potere tendenzialmente totalitario dei nostri giorni è nemico implacabile della diversità. Per la logica tecnocratica e burocratica, il mondo ideale è un mondo standardizzato, la cui «qualità» sia tutta riducibile a categorie e quantità computerizzabili, pianificabili, prevedibili, controllabili, registrabili, meccanografabili, addizionabili, sottraibili, moltiplicabili, divisibili… Per la logica capitalista classica, il mondo ideale è un mercato mondiale, in cui tutto e tutti siano merce. Per l’ibrida logica tardo-capitalistica il mondo ideale è qualcosa di mezzo tra l’ideale capitalistico e quello tecnoburocratico.

Per il potere di oggi, all’Est tecnoburocratico e all’Ovest tardo-capitalistico, come pure in gran parte del Terzo Mondo che imita l’uno e l’altro (in Africa, ad esempio, le differenze tribali ed etniche si combattono, anche spietatamente, per costruire artificiali unità «nazionali»), la diversità è ancora più inaccettabile che per qualunque altra forma di potere storicamente conosciuta. Come un rullo compressore, il potere tende a livellare le differenze culturali, a distruggere le etnie, i linguaggi, i costumi locali, regionali, nazionali, oltre che a negare, come tutti i poteri precedenti, le diversità individuali (ricondotte a diseguaglianza, come si diceva, o mortificate). Come un bulldozer sociale, il potere sogna di spianare le colline, riempire gli avvallamenti, drizzare i fiumi, creare una pianura a perdita d’occhio in cui solo si ergano, a intervalli regolari, le torri di controllo e gli squallidi castelli del loro privilegio.

La diversità è stata sinora considerata, nel migliore dei casi, come un dato da rispettare, un oggetto di tolleranza. Ma questa è un’interpretazione inadeguata e, al limite, pericolosamente riduttiva. La diversità, invece, dev’essere non solo accettata, ma esaltata, ricercata, creata e ricreata continuamente. Perché la diversità è un bisogno dell’uomo, perché la diversità è un valore in sé. Diverso è bello. Come è bello che non ci siano due foglie identiche, così è bello che ogni casa, ogni paesaggio, ogni città, ogni dialetto, ogni persona, ogni nazione siano uniche e diverse.

Le minoranze etniche che riscoprono e rivendicano la propria identità culturale, il diritto alla propria lingua e alle proprie tradizioni, sono anche un’espressione del bisogno di diversità dell’uomo e in questo sono potenzialmente consonanti con la domanda di autogestione. Anche se, come la repressione sessuale, la repressione delle diversità può generare per reazione risposte perverse (come neo-colonialismo, neo-razzismo, ministatalismo, ecc.), queste tendenze centrifughe verso il diverso hanno in sé almeno un germe dell’eguaglianza e della libertà.

Armonia e conflitto

La diversità implica non solo la complementarità e dunque l’armonia, ma anche il conflitto. La cosa non mi spaventa. La società senza contrasti non mi è mai parsa un modello attraente, essa mi ha sempre dato l’impressione di essere non il contrario della società totalitaria, ma il suo rovescio in chiave «amorevole».La piramide capovolta non è il contrario della piramide, ma la sua immagine speculare. L’ideale utopico di una società perfettamente conciliata attraverso la fratellanza (ma perché i fratelli devono essere sempre d’accordo?) mi pare troppo specularmente simile all’utopia gerarchica di una conciliazione coattiva, altrettanto asfissiante anche senza leggi, regolamenti, poliziotti, giudici, direttori, padri. Infatti l’anarchico preferisce parlare di solidarietà anziché di fratellanza, che non è una sfumatura insignificante.

È stimolante, a questo proposito, l’interpretazione appena abbozzata da Clastres, nell’ultimissimo periodo della sua vita, della bellicosità dei popoli primitivi come meccanismo di difesa del molteplice (del diverso) contro l’Uno, della società contro lo Stato. Con questa interpretazione della conflittualità (di una certa conflittualità), ne viene dunque data una lettura anche in positivo.

Il fatto è che non tutta la conflittualità sociale nasce dalla diseguaglianza. Anzi, si può forse supporre che l’antagonismo semplificato degli interessi, creato dalla divisione gerarchica del lavoro sociale, comprima e nasconda una diversità di interessi assai più varia. È vero che si tratta di una conflittualità neppure paragonabile, per intensità e valenza dilacerante, a quella che nasce nella e dalla società di classe e che giustifica il «lavoro» degli apparati di repressione psichica e fisica, che giustifica uno spreco crescente di energie sociali per la creazione del consenso e per il contenimento del dissenso. La conflittualità delle diversità non è la conflittualità della diseguaglianza. La prima non ci pone l’insolubile problema che la seconda pone alle mistificatrici ideologie interclassiste: conciliare l’inconciliabile, cioè gli interessi dei padroni e dei servi. Tuttavia pone certamente dei problemi.

La probabile e per certi versi auspicabile permanenza dei conflitti ci porta al delicato ambito della loro regolazione. Affermare che il contrasto di interessi che nasce dalla diversità tra eguali può e deve risolversi secondo modalità libertarie è poco più che fare della tautologia. Si deve andare oltre e definire le linee generali di un nuovo diritto sociale, che garantisca la permanenza e insieme la compatibilità reciproca e complessiva dei diversi interessi individuali e collettivi, in un sistema di equilibrio dinamico.

Il diritto sociale

Una prima indicazione sui principi ispiratori del nuovo diritto sociale è proprio questa: esso deve essere pensato essenzialmente come garante delle soluzioni di equilibrio e non come codificazione prestabilita dei comportamenti. La formula ideologica liberistica e liberale, della soluzione ottimale del conflitto di interessi attraverso il libero gioco della concorrenza mercantile e della concorrenza politica, è mistificatoria perché applicata a una società disegualitaria, in cui il gioco non è libero ma esattamente definito dalle truffaldine leggi della divisione gerarchica del lavoro sociale. Tuttavia, vi è in essa un valido nucleo di pensiero antitotalitario, in quanto si rifà appunto a un concetto di equilibrio «naturale» degli interessi contrastanti. In realtà non c’è nulla di meno naturale e di più culturale di quell’equilibrio. È l’uomo nella società che stabilisce certe regole del gioco. Non esiste gioco né società senza regole: tutto il problema sta nel come e da chi vengono stabilite e fatte rispettare.

Una seconda indicazione in questo senso viene espressamente dalla teoria della democrazia diretta. La costituzionale separazione di potere legislativo, esecutivo, giuridico – peraltro più formale che reale – ha valore in un sistema di poteri separati dalla società e concentrati in ruoli dominanti: solo in quel contesto essa garantisce in qualche misura, attraverso un certo «pluralismo dei poteri», un loro esercizio meno arbitrario, anche se nella sostanza sempre di classe. In un sistema in cui il potere è socializzato, anche le funzioni inerenti al diritto devono essere attributi della democrazia diretta e dei suoi organi. E se il vecchio mondo ha qualcosa in merito da insegnare, non è certo con i tribunali e i magistrati e gli avvocati, ma semmai con le giurie popolari e con gli arbitrati.

Non a caso ho citato gli arbitrati. Ritengo infatti che una terza indicazione di massima sia che un diritto sociale, fondato sui valori dell’autodeterminazione individuale e collettiva, debba essere pensato come un quadro di riferimento di poche e semplici norme generali entro il quale si inserisce un’infinità di accordi liberamente stipulati tra gli individui e tra le collettività, a tutti i livelli di articolazione della società, dal piano locale a quello internazionale. Esso dovrebbe cioè avere un carattere schiettamente contrattualistico. Solo così, oltretutto, è possibile coprire l’innumerevole casistica di situazioni, di interrelazioni di complementarità e di contrasto, e dunque di possibili conflitti, che nessun codice potrebbe comunque prevedere.

L’effetto Mühlmann

Anche a un esame sommario, come quello sin qui fatto, appare come i nodi problematici dell’autogestione corrispondano ai grandi temi del pensiero e della pratica anarchica e come l’approccio autogestionario a essi risulti affine, quando non addirittura identico, a quello libertario. Certo, è da anarchico che ho percorso i cammini logici dell’autogestione, ma sforzandomi di procedere non per deduzione dall’ideologia anarchica, ma mediante l’applicazione del metodo autogestionario alle questioni essenziali della convivenza umana.

Analoghe affinità si possono rilevare affrontando i problemi della strategia autogestionaria. Grosso modo tutti i fautori dell’autogestione integrale o generalizzata convengono sul fatto che non si tratta di riformare l’ordine sociale esistente, ma di trasformarlo radicalmente. L’autogestione è teoria-prassi rivoluzionaria.

Si apre qui l’enorme questione della rivoluzione. Escluso che la rivoluzione sia semplicisticamente un’insurrezione, appurato che essa è un periodo (fatto anche, forse, di uno o più momenti insurrezionali) di accelerate trasformazioni istituzionali e culturali, ci si propongono gli interrogativi su come arrivare a innescare questo processo distruttivo-ricostruttivo – in un solo paese? in più paesi contemporaneamente? nella metropoli tardo-capitalistica? nella patria del «socialismo» tecnoburocratico? alla periferia dei grandi imperi? nel Terzo Mondo? – in modo tale che le soluzioni autogestionarie si possano affermare con successo sulla soluzione autoritaria.

Come evitare che, com’è successo sempre, gli spazi di libertà aperti dal rapido rovinare dei vecchi valori e delle vecchie strutture diventino spazi per una nuova schiavitù? Non mi riferisco qui ai nemici esterni della rivoluzione e dell’autogestione, ma al vero grande nemico interno: i meccanismi di riproduzione del potere che iniziano già durante il processo rivoluzionario e lo conducono a conclusioni contraddittorie con le premesse emancipatrici. Come evitare quello che Lourau chiama «l’effetto Mühlmann», cioè un’istituzionalizzazione che nega il movimento sociale? Se la tensione innovatrice generalizzata non può che essere fenomeno di breve periodo, come nutrire ragionevoli speranze che essa non si limiti a rompere temporaneamente gli argini della dominazione di classe per rientrare presto nel vecchio alveo della divisione gerarchica del lavoro sociale?

L’autogestione come metodo è in teoria la risposta giusta, perché essa significa destrutturazione permanente del potere, sia negli aspetti distruttivi sia in quelli ricostruttivi; e dunque, anche nell’istituzionalizzazione post-rivoluzionaria, essa è in sé portatrice di una continuità del progetto che non si esaurisce nella tensione straordinaria, ma prosegue nel quotidiano ordinario. Tuttavia, questa formulazione è ancora solamente una soluzione logica generale. Per divenire soluzione operativa essa deve arricchirsi di determinazioni concrete ben più articolate.

Rileggere la storia

Del tutto ovviamente la riflessione sulla rivoluzione si dipana a partire dalle esperienze passate, attraverso quella continua ricomposizione degli elementi storici in funzione del presente che fa della storia un’essenziale e vivente memoria collettiva, così come la memoria individuale continuamente ricompone in modo diverso i suoi elementi sulla base di nuovi dati, nuove esperienze, nuovi bisogni. In questo senso l’autogestione può essere anche una diversa chiave di lettura delle esperienze rivoluzionarie passate, per trarne indicazioni strategiche, una chiave che privilegia tra gli insegnamenti quelli inerenti al metodo organizzativo.

Fra tutte le rivoluzioni sociali credo che la più feconda di indicazioni positive e negative sia, per l’ampiezza e l’estensione della pratica di autogestione popolare che vi si esplicò, la Rivoluzione spagnola del 1936-1939. Essa, per quanto concerne quella problematica rivoluzionaria cui poc’anzi ho accennato, ci indica schematicamente:

1) il popolo degli sfruttati ha in sé enormi potenzialità auto-organizzatrici, esso spontaneamente sa trovare e applicare formule di autogestione diversificate e appropriate, per lo meno ai livelli associativi più «naturali» (la fabbrica, il villaggio…) e ai primi livelli di coordinamento, quando e fintanto che vi sia «latitanza del potere»;

2) il potere si ristabilisce, anche dopo un formidabile scossone sovversivo antiautoritario, a partire dall’eterogestione dei «grandi» problemi (guerra, pianificazione…) e da questi torna progressivamente a occupare gli spazi temporaneamente lasciati all’autogestione;

3) la peste autoritaria si annida e può svilupparsi perfino nelle organizzazioni proletarie meglio vaccinate contro di essa, come le strutture anarcosindacaliste, e anche da esse, le più antiburocratiche per ideologia e per tradizione, possono prendere le mosse tendenze tecnoburocratiche, in perfetta buona fede, per «esigenze oggettive», ecc.

La Rivoluzione spagnola – la sua preparazione, le sue realizzazioni, la sua sconfitta – è dunque una miniera ricchissima, ancora largamente inutilizzata, da cui il pensiero autogestionario può e deve trarre inestimabili insegnamenti, soprattutto se vi si ricerca non tanto – come è stato fatto sinora – la storia di una guerra tra fascisti e antifascisti ma, dentro il campo antifascista, la storia di uno scontro mortale tra proletari e Stato, tra autogestione e burocrazia. Anche se naturalmente (dovrebbe essere superfluo notarlo) l’autogestione deve pensare la sua rivoluzione e la sua strategia nella, anzi nelle realtà attuali che non sono quelle della Spagna nel 1936 e ancor meno quelle della Russia nel 1917 e della Francia nel 1871.

All’autogestione attraverso l’autogestione

La strategia, lungi dal risolversi nei problemi del periodo rivoluzionario, copre anche e soprattutto il percorso tra il presente immediato e la rivoluzione. Si tratta, come dicevo, di trovare la via o le vie per arrivare alla rivoluzione nel modo più idoneo perché essa sia ipotizzabile come una fase accelerata del cammino dell’autogestione e non una fase accelerata di transizione da una forma di eterogestione a un’altra.

Già soffermandosi sul primo dei tre punti in cui ho schematizzato le indicazioni della Rivoluzione spagnola, sorge un primo interrogativo: quanto vi era, nell’autogestione popolare, di spontaneità diciamo «naturale» e quanto di spontaneità costruita (o solo liberata?) da mezzo secolo di propaganda, agitazione, organizzazione libertaria? Perché è chiaro che, come ho già sottolineato, nel porsi dell’uomo nella società c’è ben poco di naturale (se non forse nulla, oltre all’istinto sociale stesso) e moltissimo di culturale. Perciò, affinché la rivolta degli schiavi diventi progetto autogestionario, affinché la lotta di classe diventi rivoluzione emancipatrice, bisogna che larghi settori delle classi sfruttate sviluppino una cultura – una volontà e una capacità – autogestionaria, educandosi all’autodeterminazione individuale e collettiva. Bisogna che passività e dipendenza cessino di essere le caratteristiche psicologiche dei lavoratori. Bisogna che iniziativa e responsabilità cessino di essere monopolio di ristrette élite.

La formula «all’autogestione attraverso l’autogestione» esprime, oltre a un’ovvia, quasi tautologica, coerenza interna, anche questa esigenza autopedagogica. Come dice Félix García, «non si dà un’organizzazione libertaria che non sia un’organizzazione pedagogica, se la pedagogia non attraversa tutti e ognuno dei suoi pori». Non si educa alla libertà, ci si educa. Compito dei militanti che si riconoscono nel metodo autogestionario non è perciò quello di educare all’autogestione, ma di stimolare la creazione e la moltiplicazione di «situazioni» di autoeducazione, vale a dire forme di azione diretta e di democrazia diretta, secondo un lessico che è proprio della tradizione libertaria, in cui si pratichi sin d’ora l’autogestione.

Gli spazi dell’autogestione

L’autogestione delle lotte è stato non solo uno degli slogan più fortunati, ma forse anche la manifestazione più evidente della domanda di autogestione dell’ultimo decennio, un po’ ovunque. Dagli ambiti più tradizionali della lotta di classe, i luoghi di lavoro, ad ambiti nuovi o parzialmente nuovi, è salita e sale questa domanda, che è il rifiuto di essere usati dai dirigenti come truppa, come fonte peculiare del potere dei gestori istituzionali (partiti, sindacati…) della conflittualità sociale. Essa esprime la volontà di decidere da sé quando e come lottare per i propri interessi e quando e come accettare gli inevitabili temporanei armistizi.

Un nuovo interrogativo si impone: dalle lotte di quale soggetto sociale ci si può attendere una crescita rivoluzionaria dell’autogestione? Chi è questo soggetto? La classe operaia più o meno tradizionalmente intesa? Gli emarginati e i «non garantiti»? Un fronte sociale che va dallo studente al tecnico? A mio avviso proprio l’estensione della domanda sociale di autogestione è un segnale di come il soggetto rivoluzionario, almeno potenzialmente e tendenzialmente, possa identificarsi con numerosissimi strati sociali. Quando la rivolta è rivolta contro il potere, essa accomuna tutti coloro che la minoranza dominante ha espropriato della loro quota di potere, in una sorta di accumulazione di classe di «pluspotere».

Il fronte dell’autogestione delle lotte è dunque un fronte che si apre a ventaglio e coinvolge o può coinvolgere cento ruoli sociali: casalinga, inquilino, studente, soldato, operaio, contadino, moglie, figlio, disoccupato, utente del gas… Investe, di critica teorica e di critica pratica, cento aspetti dell’eterogestione, in forme per ora frammentarie ed episodiche, sempre recuperate dalle istituzioni, eppure contraddittoriamente sempre riproponentesi. Un fronte che non è in realtà un fronte, perché non ha affatto un andamento lineare e ricorda nell’accendersi e spegnersi qua e là di focolai di contestazione una guerriglia diffusa e nient’affatto una guerra di trincea. È questa la sua forza, perché non si offre a uno scontro frontale che farebbe il gioco di un nemico ancora – e fino alla rivoluzione – più potente.

Se questa guerriglia può e deve crescere, come noi crediamo, e generalizzarsi e riuscire a riproporsi sempre più di quanto non venga recuperata, essa perverrà prima o poi al nodo dell’organizzazione. Deve il progetto autogestionario darsi strutture permanenti di collegamento? Credo di sì, perché l’autogestione è per sua natura sintesi di spontaneità e di organizzazione e perché il crescere del progetto rivoluzionario deve andare di pari passo con un crescere delle capacità auto-organizzative a tutti i livelli di complessità. Credo però che non debba darsi una forma e una struttura di collegamento, ma una molteplicità di forme e strutture connesse, in coerenza con il metodo autogestionario, in una struttura a rete tanto più fitta ed estesa quanto più cresce il progetto.

Un fronte che non è un fronte

L’autogestione delle lotte è, almeno nella sua enunciazione generale, un concetto quasi acquisito, è indiscutibilmente un elemento imprescindibile della strategia autogestionaria. Senza lotte autogestite non è concepibile l’approdo a una società autogestita. Ma a questo proposito si pone un ultimo quesito, ultimo in ordine di tempo, non di importanza: l’autogestione delle lotte è l’unica forma di autogestione possibile prima della rivoluzione e, insieme, è essa mezzo sufficiente a preparare le condizioni per la rivoluzione egualitaria e libertaria?

La risposta non è e non può essere categorica. Una risposta affermativa, per lo meno alla prima parte del quesito, sembra venire, sul piano logico, dall’affermazione generale secondo cui a) l’esistente non è autogestibile perché per sua natura antitetico all’autogestione, nelle sue singole parti come nel complesso; b) d’altro canto un’autogestione parziale non può essere che cogestione, più o meno mascherata. Anche se non nego affatto la validità di questa affermazione, sono convinto però che ricavarne apoditticamente l’impossibilità o la valenza controproducente di esperimenti circoscritti di autogestione pecchi di rigidità logica. Applicando con rigidità quell’assunto, si potrebbe infatti arrivare all’impossibilità stessa dell’autogestione delle lotte, perché esse sono di fatto non pura negazione ma anche elemento dell’esistente, seppure conflittuale.

La realtà è assai più complessa e non si lascia circoscrivere da nessuna definizione semplice e assoluta. Chi può affermare senz’ombra di dubbio che l’autogestione di una comunità, di un’impresa, di un asilo, significhi necessariamente gestire un’articolazione dell’esistente e non invece una contraddizione dell’esistente? Se così fosse, se un determinato sistema socio-economico non ammettesse altro che il simile e l’assimilabile a sé, non si spiegherebbe la norma storica del mutamento, che è esattamente antitetica: il nuovo nasce e si sviluppa, con alterne fortune, avanzamenti e arretramenti, proprio a fianco se non addirittura in seno al vecchio. Così il comune artigiano e mercantile nel tessuto feudale, così l’industria capitalista nel tessuto corporativo, così la tecnoburocrazia nel tessuto capitalista…

Più convincenti sono le obiezioni centrate sulla difficoltà di costituire, sviluppare e difendere «isole» di autogestione. L’esperienza è ricca di fallimenti in questo senso. La lip in Francia è un caso emblematico di insuccesso proprio perché è stata emblematica la spontanea scelta autogestionaria operata dai suoi lavoratori. In Italia, analoghe esperienze di autogestione intraprese dai lavoratori per sottrarre le aziende al fallimento della gestione padronale si sono regolarmente concluse con semplici rinvii del fallimento o si sono trasformate in semplici cooperative a gestione gerarchica e ad autosfruttamento intensificato. È dei giorni scorsi il fallimento della ex Fioravanti, una fabbrica di tortellini che nel 1974 visse un lungo periodo di autogestione. È dei giorni scorsi anche la notizia, apparentemente opposta, che «è in attivo con l’autogestione l’ex Motta di Segrate» (pasticceria e cibi precotti per mense: cooperativa di centosessanta soci che ha preso il posto della precedente gestione Unidal). Le assenze per malattia, fa notare con soddisfazione il presidente, sono scese dal 20-30 per cento al 2-3 per cento. Lavoro meno alienante? No: intensificazione dell’alienazione per paura di perdere il posto in un periodo di crisi economica.

Anche in Spagna pare che si moltiplichino casi di «autogestione del fallimento padronale» in un’analoga situazione di crisi, con risultati non molto dissimili, stando almeno a quanto riporta «Ajoblanco» (n. 43, 1979), che conclude una malinconica rassegna di insuccessi con il domandarsi se siano in effetti possibili «isole di autogestione» e con la frase di un lavoratore: «Dopo tutte le difficoltà che abbiamo affrontato, siamo fermamente convinti che l’autogestione può realizzarsi solo in modo generalizzato e in un’altra società».

È dunque, se non logicamente, per lo meno praticamente impossibile che l’autogestione sopravviva (e a maggior ragione si sviluppi) entro le regole del gioco capitalistiche e/o tecnoburocratiche, stabilite dalla e per la divisione gerarchica del lavoro sociale? Tra il fallimento e l’assimilazione/integrazione non vi è di fatto uno spazio intermedio? Io sono di opinione diversa. Credo che non di impossibilità si tratti, ma di difficoltà, seppure di grande difficoltà. L’esempio della Comunidad del Sur di Montevideo, che per due decenni ha funzionato autogestendosi in pieno senso libertario ed egualitario, sia in quanto comunità sia in quanto impresa tipografica di medie dimensioni, sembra dimostrare che «isole di autogestione» sono in realtà possibili e che la loro sopravvivenza non è necessariamente connessa con una loro integrazione e neppure con una loro sostanziale innocuità. La Comunidad funzionava talmente bene da reggere a diverse ondate repressive ed era tanto poco innocua che dovettero schiacciarla manu-militari. A questo si può obiettare che l’isola autogestionaria non è stata in grado di difendersi, ma alla dittatura militar-fascista uruguaiana non hanno tenuto testa né le centrali sindacali (le masse) né i Tupamaros (la lotta armata).

Io credo dunque che isole di autogestione siano possibili e che esse, tra mille ostacoli e cento fallimenti, possano e debbano diventare arcipelago. Sempre meno isole in realtà e sempre più nodi di una rete che collega le unità autogestite non solo tra di loro ma anche e soprattutto con il settore dell’autogestione delle lotte, di cui devono essere in un certo senso l’estensione «realizzata», in un rapporto di rafforzamento reciproco che ne esalta vicendevolmente le potenzialità di sviluppo e le capacità di difesa. Si tratta di riuscire a superare la soglia di rigetto o assimilazione da parte del vecchio organismo sociale gerarchico. Oltre quella soglia, l’autogestione non può più essere né assimilata né rigettata.

La gramigna sovversiva

Una simile rete di cooperative, organismi di lotta, comunità, associazioni culturali consente di moltiplicare in progressione crescente le contraddizioni del sistema gerarchico, moltiplicando nel frattempo le «situazioni» pedagogiche dell’autogestione e riducendo inversamente la capacità repressiva/integrativa dell’esistente. Gramigna sovversiva, l’autogestione può intrufolarsi in ogni fessura, in ogni screpolatura, radicarvisi e sgretolare il calcestruzzo del sistema, e diffondersi oltre proprio come quell’erba infestante, con la stessa cocciuta resistenza alla siccità e ai veleni, con la stessa formidabile capacità di moltiplicazione, con la stessa facoltà di rispondere alle mutilazioni rigenerando una nuova pianta da ogni frammento.

Così, facendosi la lotta anche vita di ogni giorno e la vita di ogni giorno anche lotta; garantendosi contro i simmetrici pericoli dell’autoemarginazione (felice forse, ma solo forse), delle realizzazioni microutopiche, della dispersiva fatica di Sisifo della conflittualità funzionale al sistema, delle impazienti fughe in avanti necessariamente di corto respiro e dei ritardi da scollamento intellettualistico con la realtà; esplicando tutta la sua ricchezza di metodo, l’autogestione può saldare i singoli momenti di una lunga marcia attraverso il «personale» e il «politico», di una strategia rivoluzionaria che, attraverso una quotidiana, incessante destrutturazione del potere nelle infrastrutture psichiche, nelle strutture istituzionali, nelle sovrastrutture ideologiche, faccia crescere una controsocietà libertaria ed egualitaria negli interstizi della società gerarchica, fino a spezzarne la coerenza e la coesione complessiva, fino a invertire il rapporto di forze tra vecchio e nuovo. Allora il bisogno di anarchia può e deve rompere il guscio che lo nega, ed è la rivoluzione.

Appendice

Dopo l’orgia di partecipazione generalizzata delle pagine precedenti, voglio ora aggiungere, a parziale antidoto, un brano tratto dalla relazione di Henri Desroche al seminario internazionale sull’autogestione e la partecipazione operaia in Europa (Bologna 1970): «È una prima proposta o una prima ipotesi: l’aspirazione alla partecipazione è correlata a un’aspirazione a prendere le distanze. L’impegno nell’impresa è correlato a un disimpegno dall’impresa. La propensione a essere al di dentro della gestione è correlato a un’altra propensione a essere al di fuori della gestione. Se questa correlazione non è tenuta in considerazione, la partecipazione rischia di diventare un peso o di incontrare l’indifferenza e l’assenteismo. Questa trappola potrebbe diventare temibile nell’eventualità di una partecipazione generalizzata, […] di una repubblica economica integrale, in cui ogni cittadino cosciente e organizzato avrebbe il diritto e il dovere di partecipare a tutti gli insiemi industriali, agricoli, bancari, sociali, socio-culturali da cui dipende la sua vita, e di conseguenza sarebbe obbligato a farli dipendere dalla sua coscienza e dal suo dominio. Con invito, dunque, a comprendere e a dominare non solo rapporti morali ma anche rapporti amministrativi, bilanci, conti di perdite e profitti, ecc. Con invito complementare alla presenza in assemblee, riunioni, commissioni, comitati, ecc., naturalmente con la registrazione e qualificazione di tale presenza secondo l’intensità della partecipazione: attiva, semi-attiva o inattiva. Si può immaginare che la situazione diventerebbe tale da essere simile a quella delle esperienze in cui, in laboratorio, si toglie a un individuo, anche addormentato, ogni possibilità di sognare. E di fronte al pericolo nevrotico di una tale situazione, il terreno della partecipazione potrebbe elaborare qualche soluzione. Sia, ad esempio, un diritto alla non partecipazione, come in quei luoghi in cui si paga due volte più caro il diritto di mettere sul giradischi un disco silenzioso per ottenere un breve lasso di tempo senza baccano. Sia, ancora, un’automazione integrale, grazie a super-memorie centrali, di tutti quei processi ‘comitatocratici’ concepiti dall’attività partecipativa nel suo stadio artigianale. In un caso come nell’altro, una partecipazione contenuta da un distanziamento. ‘Niente è buono senza misura’, faceva notare Durkheim, che sottolineava come i due tipi di società con il numero più alto di suicidi fossero sia le società a individualismo eccessivo e socializzazione insufficiente, sia al contrario le società a individualismo insufficiente e socializzazione eccessiva».

Riferimenti bibliografici

Data la natura di questo scritto, che espone un filo di pensiero non ancora del tutto sgrovigliato e alcune riflessioni sorte come «reazione chimica» all’incontro tra il mio anarchismo e la variegata/monotona/ricca/contraddittoria/stimolante/irritante/originale/ingannevole/libertaria/cripto-autoritaria cultura dell’autogestione, ho di proposito evitato note di riferimento bibliografico. Indico qui di seguito i libri che in una lettura un po’ disordinata hanno accompagnato le mie riflessioni:

Pietro bellasi, Michele la rosa, Giovanni pellicciari (a cura di), Fabbrica e società, Autogestione e partecipazione operaia in Europa, Angeli, Milano, 1974.

Alfredo bonanno, Autogestione e anarchismo, La Fiaccola, Ragusa, 1975.

Murray bookchin, Post-Scarcity Anarchism, Ramparts Press, Berkeley, 1971.

Yves bourdet, Teoria politica dell’autogestione, Nuove Edizioni Operaie, Roma, 1977.

Yves bourdet, Per l’autogestione. Analisi e prospettive, Moizzi, Milano, 1976.

Yves bourdet, L’Éspace de l’autogestion, Galilée, Paris, 1978.

Pierre clastres, La società contro lo Stato, Feltrinelli, Milano, 1977.

Franco crespi, Teoria sociologica e socializzazione del potere, Angeli, Milano, 1974.

Henri desroche, Autogestione, partecipazione e associazionismo cooperativo, in Fabbrica e società, cit.

Félix garcía, Coherencia libertaria (1), Pedagogía y organización, «Bicicleta», n. 15, 1979, pp. 48-49.

Milojko drulović, La democrazia autogestita, Editori Riuniti, Roma, 1977.

Piero flecchia, La cultura della viltà, Emme, Milano, 1978.

Roberto guiducci, La diseguaglianza tra gli uomini, Rizzoli, Milano, 1977.

Roberto guiducci, Un mondo capovolto, Rizzoli, Milano, 1979.

Michele la rosa, Mauro gori (a cura di), L’autogestione. Democrazia politica e democrazia industriale, Città Nuova, Roma, 1978.

Georges lapassade, L’autogestione pedagogica, Angeli, Milano, 1973.

René lourau, L’Autogestion comme condition du dépérissement de l’État, «Autogestion et socialisme», n. 41-42, 1978, pp. 145-165.

René lourau, Lo Stato incosciente, elèuthera, Milano, 1988.

Roberto massari, Le teorie dell’autogestione, Jaca Book, Milano, 1974.

noir et rouge, Lo Stato, la rivoluzione, l’autogestione, La Fiaccola, Ragusa, 1974.

Philippe oyhamburu, La Revanche de Bakounine ou de l’anarchisme à l’autogestion, Entente, Paris, 1975.

Gian Paolo prandstraller, Felicità e società, Comunità, Milano, 1978.

Pierre rosanvallon, L’età dell’autogestione, Marsilio, Venezia, 1978.

Menahem rosner, L’Autogestion industrielle dans les kibbutzim, «Sociologie du travail», n. 1, janvier-mars 1974.

Ernst Friedrich schumacher, Il piccolo è bello, Moizzi, Milano, 1977.

Leonardo tomasetta, Partecipazione e autogestione, il Saggiatore, Milano, 1972.

John F. turner, L’abitare autogestito, Jaca Book, Milano, 1978.

Roberto villetti (a cura di), Socialismo e divisione del lavoro, Mondoperaio, Roma, 1978.

Fonte: La gramigna sovversiva, note di anarchismo in salsa autogestionaria e di autogestione in salsa anarchica, relazione scritta per il convegno internazionale di studi sull’«Autogestione», Venezia, 28-30 settembre 1979, poi pubblicata in «Interrogations», n. 17-18, 1979.

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