capitolo terzo

I fanatici della libertà

Io sono un amante fanatico della libertà.

Michail Bakunin

L’anarchismo è un’esagerazione dell’idea di libertà.

Karl Popper

Il titolo che ho scelto e le citazioni in epigrafe dicono già dove vuole andare a parare il mio discorso. Così non rischiamo di perderci nel labirinto degli oltre duecento significati attribuiti al termine «libertà»1. Termine «poroso», termine «proteiforme», termine usatissimo, forse il più usato nella dottrina politica e nella pratica politica e nella cronaca politica2. In questi ultimi mesi, poi, con quel che succede nell’Europa dell’Est, l’inflazione nell’uso della parola «libertà» rischia di arrivare a livelli mostruosi. Con l’inflazione, è noto, la moneta perde valore. Con l’inflazione del termine «libertà», il suo valore semantico rischia di scendere con velocità sudamericana… Perfino i fascisti hanno diritto a parlare di libertà: in una delle tante aberranti accezioni di quella libertà che viene detta «positiva» (e su cui ritorneremo più avanti). Come Stalin, come Wojtyla. Come, più nobilmente, Plotino o Montesquieu. Plotino: «L’uomo diviene libero quando muove verso il Bene»3. Montesquieu: «La libertà consiste nel poter fare ciò che si deve volere» (il corsivo è mio)…4

Dunque, delle oltre duecento accezioni del termine «libertà» ce ne interessano solo alcune. Quali? Quelle che servono a definire la dimensione teorico-pratica della libertà anarchica, la libertà nella sua interpretazione anarchica.

A quale scopo? Allo scopo di ridefinire la mia, la nostra identità di anarchici a partire dal valore centrale del nostro immaginario. Allo scopo di riaffermare l’inesauribile diversità anarchica, soprattutto nei confronti della contiguità liberal-democratica, oggi «trionfante». Ma nel contempo per ricondurre quella diversità all’essenziale, per non sprecarla a difesa dell’indifendibile: ho in mente affermazioni del tipo «dal punto di vista anarchico dittatura e democrazia sono la stessa cosa». E, infine, per trovare – se possibile – una concezione laica della libertà, cioè un’area «neutrale» che consenta incontri comunicativi e operativi tra anarchici e non anarchici. Siamo diversi – sì – e dobbiamo restarlo, perché la nostra diversità è il senso della nostra esistenza e della nostra resistenza all’assimilazione (all’omologazione, come si dice oggi). Siamo diversi, ovvero mutanti culturali. Ma non marziani. Condividiamo gran parte del patrimonio culturale comune dell’umanità e in particolare, sul piano dei valori, condividiamo gran parte della cultura europea e, più specificamente, della cultura illuministica e post-illuministica. Con qualche differenza importante, anzi fondamentale per la nostra identità. Ma pur sempre qualche differenza. Per continuare la metafora genetica la nostra diversità riguarda alcuni geni culturali su milioni… che però fanno la differenza. Pensate: le differenze nel dna tra umani e scimpanzé riguardano non più dell’1-2 per cento.

A questo scopo si indirizza pertanto la riflessione. Ma a questo scopo non basta una definizione, una accezione del termine «libertà». Ne servono diverse, seppure riconducibili a una significazione centrale. Diversi sono i livelli, gli ambiti, i contesti cui riferire – direttamente o indirettamente – la concezione anarchica della libertà. E vi sono accezioni descrittive e prescrittive, effettuali e valutative…

Breve excursus. La distinzione fra termini (o meglio concetti) valutativi e descrittivi è tutt’altro che netta, più convenzionale in fondo che «oggettiva». Definire «fatto» un fatto è già un po’ un giudizio di valore. Il senso stesso di valore è difficile da definire rigorosamente – ci dice un dizionario di filosofia – «perché il più delle volte questa parola esprime un concetto instabile, un passaggio dal fatto al diritto»5. Ad esempio, l’affermazione «gli uomini nascono e vivono liberi» (Dichiarazione dei diritti dell’uomo, Art. i) si presenta come un giudizio di fatto, mentre è insieme giudizio di fatto e giudizio di valore e prescrizione.

Secondo Max Planck, «il problema della libertà porta al cuore di quella selva oscura dove la filosofia s’è smarrita»6. Cerchiamo di ritrovare il cammino o, meglio, un cammino.

Scrive Hannah Arendt: «Sollevare la questione ‘che cos’è la libertà?’ appare un’impresa disperata […]. Nella sua forma più semplice la difficoltà può essere riassunta come la contraddizione tra la nostra coscienza, che ci dice che siamo liberi e perciò responsabili, e la nostra esperienza quotidiana del mondo esterno, in cui ci orientiamo secondo il principio di causalità»7. Libertà e causalità…

Nel 1963 un gruppetto di anarchici (tra cui chi scrive) fondò e fece brevemente vivere un periodico dal titolo (che voleva essere programmatico) «Materialismo e libertà». Poiché eravamo (ci sentivamo) materialisti e nel contempo ci sentivamo (eravamo) profondamente libertari, credevamo che non potesse, anzi non dovesse esserci contraddizione tra l’una e l’altra cosa. Del resto già Bakunin aveva parlato espressamente di «concezione materialistica della libertà». Se lo diceva il «grande vecchio»… Io allora avevo ventidue anni.

Oggi: la «concezione materialistica della libertà» mi pone di fronte a un problema filosofico più complesso di quanto credessi, di quanto credessimo allora. In particolare, mi pare che la libertà (non solo quella anarchica, ma la libertà tout court) sia incompatibile con una concezione riduzionistica del materialismo – il meccanicismo – che allora baldanzosamente professavamo. Oggi: quando non sappiamo bene quale sia la «natura della natura» (materia? energia?… andatevi un po’ a trovare una risposta, tra fisica subatomica e astrofisica «di punta»). Oggi: quando non sappiamo bene quale sia la «realtà della realtà» (ci rappresentiamo il reale in un certo modo perché «è» così, oppure il reale «è» così perché ce lo rappresentiamo in un certo modo? Oppure…8).

E tuttavia… E tuttavia credo ancora di essere «materialista». Tra virgolette, certo, a significare un’onesta incertezza sull’etichetta filosofica. Materialista tra virgolette, come probabilmente sono sempre stato di fatto, di un «materialismo» che forse si identifica con il popperiano «realismo di buon senso»9. Materialista, cioè, nel senso che, diversamente dagli idealisti di vario ordine e grado, credo nell’esistenza di una realtà «oggettiva» e vedo nella «materia» (nel senso del mondo fisico) il modello della realtà, nel senso che, diversamente dai mistici di vario ordine e grado, credo necessario, per spiegarmi la realtà e per trasformarla, usare gli strumenti della ragione (che non è la stessa cosa che dire «la razionalità strumentale», beninteso. Anzi).

Ma proprio se vogliamo spiegarci le «cose» con la ragione, ci si pone – enorme – il problema del rapporto tra determinismo (causa/effetto come rapporto necessario tra i fenomeni, se pure con tutte le complessità delle retroazioni e delle altre diavolerie dell’epistemologia contemporanea) e libertà. Se il reale è tutto riconducibile a rapporti deterministici, come può esistere e come può essere pensata la libertà? Se tutto è determinato, la «libertà» di una scelta, di ogni scelta, è solo apparente, è solo un modo (come il «caso») di chiamare la nostra ignoranza di tutte le cause che hanno necessariamente determinato quella sequenza di fenomeni che chiamiamo scelta. Ma, parafrasando quanto diceva Bakunin a proposito dell’inesistenza di dio, «l’uomo è, vuole essere libero, dunque l’assoluta determinazione causale non esiste»10.

C’è una versione debole del determinismo, detta anche autodeterminismo (questo termine però – si badi – ha poco a che vedere con quella che più avanti chiamerò autodeterminazione), una versione interessante, quasi convincente dal punto di vista di un «materialista libertario», ma non abbastanza. C’è questo «determinismo morbido», come l’ha chiamato un critico11, secondo cui (cito Berlin12) «il carattere e la struttura della personalità, le emozioni, gli atteggiamenti, le scelte, le decisioni e gli atti che ne scaturiscono giocherebbero sì un ruolo fondamentale in ciò che accade, ma sarebbero essi stessi il risultato di cause, sia psicologiche sia fisiche, sociali e individuali, che a loro volta sono effetti di altre cause e così via in una successione ininterrotta. Secondo la versione più nota di questa dottrina, io sono libero se posso fare ciò che desidero […]. Tuttavia la mia scelta è essa stessa determinata ‘causalmente’, perché se non lo fosse sarebbe un evento ‘casuale’» (il corsivo è mio).

Il caso. Bestia nera dei deterministi, forti e deboli. Io invece, che pure da sempre mi sento vicino alle posizioni deterministiche (da buon materialista, dapprima senza virgolette, poi con le virgolette), credo che la soluzione al dilemma filosofico della libertà possa cominciare solo con l’introduzione del caso accanto alla determinazione causale.

Il caso. Categoria del pensiero antichissima13 che la scienza moderna sembrava avere sprezzantemente spazzato via (dalla teoria se non dalla pratica) come ignoranza dei rapporti di causa/effetto… fino a un due terzi di secolo fa. Poi l’indeterminismo quantico, poi gli sviluppi successivi della fisica e della genetica hanno riportato in auge il caso, a livello non solo subatomico ma anche macromolecolare.

Alla causalità, dunque, sembra essersi saldamente aggiunta, con titoli di «scientificità», la casualità. La realtà presenta, ai suoi vari livelli di organizzazione, rotture casuali nella catena causale.

Ma questo non è ancora libertà, naturalmente. L’indeterminazione casuale (peraltro in qualche misura riconducibile all’ambito del «determinabile» per via probabilistica) non è libertà più di quanto lo sia la determinazione causale14. Questa, più quella, però sono i presupposti della libertà, le condizioni logicamente necessarie per l’emergere della libertà al livello dell’umano, cioè al livello socio-culturale.

La libertà, intesa come scelta individuale o collettiva di un comportamento, fra diversi possibili, di fronte a un certo stato di cose15, richiede sia l’apertura su comportamenti egualmente compatibili con lo stato di cose presenti, sia l’intervento volontario su elementi determinabili (e dunque casualmente determinati) del citato stato di cose.

Il caso può anche essere antropomorficamente visto come una sorta di predecessore fisico della libertà16; ma questa, nel suo significato più proprio (e comunque quello che ci interessa), compare solo – come dicevamo – con l’emergere in natura della natura umana, con l’emergere cioè di un animale i cui comportamenti sono essenzialmente non determinati dalle «leggi» della biologia17, neppure da quelle probabilistiche (non che le possano ignorare, certo!). È vero che già in altre specie animali si riscontrano comportamenti in qualche misura volontari, «liberi», ma solo nell’uomo tale dimensione di libertà, di volontarietà dei comportamenti diventa essenziale, caratteristica, identificante. Con un salto di qualità analogo a quello che ha fatto emergere il biologico dal chimico e il chimico dal fisico.

Ogni «livello di organizzazione»18 del reale assorbe in sé anche le «leggi» dei livelli precedenti, ma vi aggiunge e sovrappone le proprie. L’acido cloridrico emesso dal mio stomaco reagisce chimicamente, cioè secondo le leggi della chimica, con le sostanze con cui viene a contatto, ma non si può spiegare lo stomaco secondo quelle leggi. E neanche l’emissione di acido cloridrico nello spazio gastrico. Si deve passare a un altro livello, al livello biologico.

E dopo il livello biologico emerge, nella storia naturale, il livello socio-culturale, cioè il livello tipicamente umano. Qui, per l’appunto, emerge la libertà come nuova dimensione del reale, che si intrufola tra casualità e causalità. La libertà non è determinazione né indeterminazione: è autodeterminazione. Ed è a questo punto che la creazione socio-storica19 prende il posto della semplice interazione tra caso e necessità nell’emergenza del nuovo.

L’uomo ha perso, lungo il cammino evolutivo di ominizzazione, le determinazioni istintuali20 e le ha sostituite con determinazioni culturali, cioè con norme, regole, codici di comunicazione e di interazione. Come ho scritto altrove: «Proprio in questa sostituzione sta la specifica libertà umana al suo più alto livello: l’autodeterminazione»21.

Ora, questa libertà dell’essere umano, che è dell’Homo Sapiens in quanto specie, ma anche irriducibilmente di ogni singolo soggetto della specie, è una libertà che sta, con tutte le riserve già viste, nell’ambito dei giudizi di fatto. Non è un valore-libertà. Mentre, come già detto, è soprattutto della libertà come valore che intendiamo occuparci. Purtuttavia questa dimensione «antropologica» della libertà – non ancora etica, ancora aperta a qualunque esito etico – è il fondamento, per quanto fragile, del valore-libertà. Di ogni interpretazione del valore-libertà. Anche della nostra. Non riesco a vedere come sia possibile proseguire il discorso senza questo presupposto22.

Arriviamo a un altro passaggio problematico, intricato passaggio peraltro inevitabile, per poter parlare di libertà anarchica. Di che si tratta? Si tratta del fatto che la libertà non è un valore a sé stante. Nessun valore, in nessun sistema assiologico, è indipendente dagli altri valori. Perché, per l’appunto, non esistono singoli valori accostati casualmente ma sistemi di valori tra loro connessi. Questo vale anche per il sistema anarchico di valori, il cui nucleo essenziale (come per il liberalismo, come per il socialismo, anch’essi figli dell’illuminismo) è riconducibile alla terna illuministico-rivoluzionaria (rivoluzionaria nel senso della Rivoluzione francese): liberté-egalité-fraternité, libertà-eguaglianza-fratellanza.

Siamo di fronte dunque non a singoli valori ma a una configurazione di valori, in cui i rapporti reciproci sono determinanti. Purtroppo, il nostro dire non può che seguire il decorso lineare del discorso verbale, facendosi al più bidimensionale con ramificazioni, divagazioni ed excursus. Ma per parlare propriamente di libertà dovremmo saper «dire» contemporaneamente su tre/quattro dimensioni, per dare conto in ogni momento della configurazione dei valori. L’unico artificio logico che mi riesce di pensare è quello di proiettare sulla libertà tutti gli altri valori anarchici essenziali, attribuendole così anche ciò che è proprio delle sue relazioni con gli altri elementi della configurazione assiologica. Come dire: proiettiamo su un piano l’intero solido. Oppure: sussumiamo nella libertà gli altri valori. Il che è forse meno abusivo di quanto non appaia. Perché la libertà, nella configurazione assiologica anarchica, ha una valenza particolare, una «esuberanza» tale che gli altri valori le possono, seppure con qualche forzatura, essere ricondotti come premesse o conseguenze.

A questo punto è però necessaria una digressione sugli altri valori dell’anarchismo, per esplicitare quello che poi sarà dato per implicito.

Parliamo soprattutto – e del tutto prevedibilmente – dell’eguaglianza, che viene ricorrentemente dichiarata, da parte dei liberali, sorella-nemica della libertà. Oggi siamo in una di quelle ricorrenze. Ma non è difficile dimostrare che la compatibilità dei due valori (per lo meno dal punto di vista anarchico) è non solo possibile ma inevitabile. Basta evidenziare il differente – anzi opposto – contenuto logico e valutativo della diversità e della diseguaglianza. Basta evidenziare che diversità non è il contrario di eguaglianza ma di uniformità. Basta fare emergere la diversità come categoria a sé stante ed elevarla a rango di valore esplicito, conservando alla diseguaglianza un carattere netto di disvalore.

Non è un gioco verbale. È un’operazione semantica sostanzialmente coerente con la nostra tradizione. E anche con la più onesta tradizione liberale. Con la nostra tradizione: da sempre per gli anarchici la diversità è stata implicita nel valore-libertà. Il loro stesso irriducibile individualismo, la loro conclamata «stravaganza», ne sono prova di fatto. Con la migliore tradizione liberale: Stuart Mill, ad esempio. Scrive Stuart Mill: «Il mio saggio sulla libertà è una specie di manuale filosofico su una singola verità […]: vale a dire l’importanza per l’uomo e per la società di una larga varietà di caratteri e di una completa libertà della natura umana di espandersi in direzioni innumerevoli e contrastanti»23.

È tempo però di esplicitare quel che era implicito (lo proponevo già dieci anni fa24). È tempo di fare, per l’appunto, della diversità – intesa come differenza, come difformità priva di connotazione gerarchica – un valore a sé stante. «Valorizzando» un incontestabile dato di fatto naturale: l’infinita diversità del reale25. Valorizzazione che si ricollega ad analoga valorizzazione effettuata dal pensiero ecologico e dal pensiero femminista. Contemporaneamente, come dicevo, va ribadito il carattere di disvalore della diseguaglianza, cioè della differenza caricata di segno gerarchico.

A questo punto ci resta un valore-eguaglianza ripulito da ambiguità, un valore riconducibile nella sua forma essenziale a eguaglianza qualitativa. Eguaglianza rispetto alla libertà. Non che con questo si annulli la dimensione quantitativa dell’eguaglianza (nelle sue varie forme: «aritmetica», come dice Castoriadis26, cioè a tutti in parti eguali, e «geometrica», cioè ciascuno a seconda di… in proporzione a…), ma questa dimensione quantitativa può essere ricondotta ad applicazioni e misurazioni parziali e discutibili dell’eguaglianza qualitativa. Dell’eguaglianza rispetto al potere, e dunque, secondo la mia definizione di potere27, rispetto alla libertà che è ammessa, in partenza, anche da un onesto nemico dell’eguaglianza come Raymond Polin, il quale scrive: «Certo, anch’io ritengo incontestabile che tutti gli uomini nascano liberi, vale a dire capaci di libertà, e anche che nascano fatti per esistere liberamente. L’essere capace di coscienza e libertà, che peraltro sono la stessa cosa, è l’essenza stessa della natura umana. Ne consegue che gli uomini devono essere reputati eguali quanto alla loro capacità di essere liberi»28.

Sennonché gli uomini per restare egualmente liberi devono restare eguali, mi si perdoni il gioco di parole. L’eguaglianza deve essere affermata come valore, come fine da perseguire.

E la fratellanza o, più laicamente, la solidarietà, sorella un po’ cenerentola della terna? Resta un po’ cenerentola anche nella mia riflessione, per l’appunto nel contesto della presente riflessione sulla libertà, perché mi pare poco problematica. Necessaria, sì certo. E banalmente riconoscibile sul piano effettuale: un animale eminentemente sociale come l’uomo è inconcepibile senza un’ampia e crescente pratica del mutuo appoggio29. L’autonomia dei singoli esseri umani coesiste necessariamente con l’interdipendenza sociale («interdipendenza»: ecco un altro termine giustamente caro al pensiero ecologico). Ma la solidarietà è necessaria anche al livello dei valori perseguiti, come «legante» di libertà ed eguaglianza e diversità, per impedire che la libertà si faccia indifferenza, che la diversità si faccia diseguaglianza. Per far sì che la giustizia non sia cieca – favorendo così, come dice Bookchin, una diseguaglianza di eguali, una «diseguaglianza-di-fatto» di «eguali-in-diritto» – ma veda bene le differenze e operi per un’eguaglianza dei diversi. È necessaria la solidarietà per dare senso coerente a un apparente paradosso: l’«individualismo comunitario» in cui Alan Ritter30 riassume abbastanza felicemente il nucleo assiologico dell’anarchismo.

Questo richiamo alla comunità, tuttavia, non deve far dimenticare che la solidarietà anarchica non si chiude nella piccola dimensione, non è la libertà che si esaurisce nella famiglia, nel clan, nella cosca, nella loggia, nella corporazione, nella nazione… ma che si estende a tutta la specie umana, seppure inevitabilmente per cerchi concentrici a intensità decrescente (e con un’attenzione particolare, sempre, per il più debole). A intensità decrescente, ma che resta pur sempre solida realtà e non si capovolge in estraneità.

Dentro il quadro contestuale appena delineato si colloca, dunque, il valore-libertà nell’interpretazione anarchica. E per darne una definizione comincio con il proporre alcune frasi di Bakunin.

Ricorso all’auctoritas? Niente affatto. Piuttosto, onesta dichiarazione di «resa intellettuale», nel senso che non mi è onestamente riuscito di trovare nulla di meglio per definire l’essenza di quella interpretazione, il suo senso più profondo, nonostante le definizioni bakuniniane siano più intuitive e intuitivamente attingibili che logicamente esplicative. D’altro canto, nella sua natura più profonda, la concezione anarchica della libertà è probabilmente irriducibile alla pura analisi logica, è irriducibile a una precisa e completa definizione razionale. È quasi ineffabile, traducibile solo per metafore. Come dio? Niente paura, non sono diventato mistico. Ma anch’io, ateo e razionalista fin dalla prima adolescenza, cedo – un poco – le armi di fronte alla non completa riducibilità logica del principio fondante del mio sistema di valori.

E non me ne vergogno. Perché proprio Bakunin ci insegna che la libertà è innanzi tutto – prima che categoria politica e forse prima ancora che categoria etica – categoria estetica, passione! Dice il Grande Vecchio: «Io sono un amante fanatico della libertà». Un amante, capite? Qui siamo del tutto dentro l’orizzonte estetico, del «sentire». Mi piace la libertà, mi piace da morire (anche in senso letterale, al limite). Amo la libertà. Ma torniamo su un piano meno indecifrabile di quello estetico seppure ancora abbondantemente sdrucciolevole: quello etico-politico. Ancora Bakunin, naturalmente, il quale premette: «Posso dirmi e sentirmi libero solo in presenza degli altri uomini e in rapporto con loro […]. Io stesso sono umano libero solo nella misura in cui riconosco la libertà e l’umanità di tutti gli uomini che mi circondano […]. Un padrone di schiavi non è un uomo ma un padrone». E continua, arrivando al nocciolo: «La libertà degli altri, lungi dall’essere un limite o la negazione della mia libertà, ne è al contrario la condizione necessaria e la conferma. Non divengo veramente libero se non attraverso la libertà degli altri, così che più numerosi sono gli uomini liberi che mi circondano, più profonda e più ampia è la loro libertà, più estesa e più profonda e più ampia diviene la mia libertà»31. E ancora: «Io intendo quella libertà per cui ciascuno, anziché sentirsi limitato dalla libertà degli altri, vi trova al contrario la sua conferma e la sua estensione all’infinito»32. E qual è questa libertà che produce un effetto «forza collettiva» (per cui addizionando più libertà individuali si ottiene un risultato superiore alla loro somma), analogo a quello descritto da Proudhon per l’economia33? Del tutto ovviamente si tratta della libertà anarchica, quella libertà che sta in forti e necessari rapporti con l’eguaglianza, con la solidarietà, con la diversità34. Libertà forte35, eguaglianza forte, solidarietà forte, diversità forte. È proprio dalla loro «forza»36 che viene la loro compatibilità. Diversamente dalle concezioni deboli37 della libertà e dell’eguaglianza, che si indeboliscono a vicenda conservando e anzi accrescendo la loro apparente contraddittorietà…

Digressione posteriore. In un recente articolo su «Volontà» [Il fondamentalismo anarchico, n. 1, 1996, pp. 173-191], Pietro Adamo utilizza, per alcune riflessioni sull’anarchismo, il modello epistemologico di Imre Lakatos. Nel modello di Lakatos (pensato per «programmi scientifici» in competizione tra loro), si identificano, per ogni programma, un «nucleo» di idee fondative e una «cintura protettiva» che contiene «tutto ciò che risulta utile per le idee del nucleo e per la crescita del programma stesso»…

Curiosamente, una dozzina di anni fa, pur non conoscendo Lakatos, utilizzavo su «Volontà» un’immagine simile a proposito di una ricerca/sperimentazione per un anarchismo «post-classico». Scrivevo di un «nucleo condiviso di valori» e aggiungevo che a partire da questo «nucleo duro, ‘utopico’, dell’anarchismo, dev’essere mobilitata tutta la ricchezza possibile e immaginabile di esperienze, sensibilità, creatività individuali e collettive, emerse e sommerse, per pensare e fare un arcobalenico anarchismo vivente». E due anni prima, sempre su «Volontà», scrivevo, con metafora un po’ agronomica, di un «nocciolo duro» dell’anarchismo che va circondato da una «polpa» di pensiero e di azione flessibili, sperimentali, discutibili, assolutamente non dogmatici…

Ora, è forse proprio quella peculiare configurazione di libertà, eguaglianza, diversità e solidarietà intese in senso forte, riconducibili in fondo a quella fortissima concezione bakuniniana della libertà, che potrebbe rappresentare quel «nucleo duro» dell’anarchismo e che potrebbe essere una buona e utile definizione di anarchia. Una definizione di anarchia come imperativo morale del tipo «non siate né servi né padroni», ma in positivo. Una definizione di anarchia come principio organizzatore della realtà e dell’azione, come elemento centrale di un immaginario, quello anarchico, per l’appunto, che si traduce per quanto possibile in entrambi i lati del Giano bifronte dell’essere anarchici: quello del vivere da libertari e quello dell’agire per una trasformazione sociale di segno libertario.

Sarebbe, questa, una definizione a mio avviso più proficua oggi, nella dottrina e nella pratica, delle più tradizionali definizioni in negativo del tipo società (o modello di società) «senza governo» o, già meglio, «senza Stato» o, molto meglio, «senza gerarchia» o «senza dominio». Anche se, lo ammetto, non è priva di buoni argomenti anche la scelta di un «anarchismo negativo», cioè per dirla con il poeta Eugenio Montale, «solo questo possiamo dirvi, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»… Lascerei poi, a una lakatosiana «cintura protettiva», tutte le attribuzioni in positivo (quelle classiche e quelle emergenti) di un auspicato modello di società anarchica e tutte le congetture e sperimentazioni strategiche e tattiche.

Facciamo un ulteriore passo in avanti nella direzione di una maggiore definizione logico-verbale della concezione anarchica della libertà. A questo punto può essere utile distinguere due categorie, corrispondenti grosso modo all’ambito del «pubblico» e a quello del «privato». È una distinzione logica, non un’opposizione, non una contraddizione sostanziale. La contrapposizione di libertà della politica e di libertà dalla politica, secondo l’espressione della Arendt38, non ci riguarda. Nella concezione anarchica, infatti, si integrano, per dirla con Benjamin Constant, la concezione antica e quella moderna di libertà39. Si integrano pur restando separate.

Forse devono restare formalmente separate se, come dice Bobbio, «il problema della libertà è di fare in modo che venga distinta una sfera del pubblico e una sfera del privato, e l’uomo non sia risolto tutto quanto nel cittadino»40. E tuttavia si tratta di due manifestazioni dello stesso fenomeno: della libertà come autodeterminazione e autorealizzazione dell’essere umano, degli esseri umani concreti, singoli, di tutti gli esseri umani. Gli esseri umani si autodeterminano e si autorealizzano partecipando attivamente, direttamente, ai processi di determinazione culturale, ai processi di creazione storico-sociali, ai processi decisionali dell’ambito «politico». E gli esseri umani si autodeterminano e si autorealizzano operando scelte nel «privato», cioè in tutto quello che attiene agli stili di vita individuali.

Il primo ambito, quello pubblico o «politico», è quello dove si dà la griglia generale delle determinazioni sociali del comportamento. E queste determinazioni possono non essere esterne, cioè estranee (imposte) all’individuo, solo se l’individuo partecipa su un piano di parità alla loro continua creazione e ricreazione (modifica o conferma). Solo così il secondo ambito, il «privato», non è un rifugio residuale della libertà (una libertà «privatizzata»), ma lo spazio in cui avviene l’altro gioco della libertà, quello delle singole libertà dentro la griglia della libertà collettiva. O meglio – libertà «collettiva» può essere espressione ambigua – del gioco collettivo della libertà. Parlo di «gioco» deliberatamente, perché non c’è gioco senza regole (ma è un gioco anche inventare nuove regole)41. Certo, ci sono giochi che quasi si esauriscono nelle regole e nel caso. Ma sono i meno divertenti. Credo.

Dunque, la contrapposizione tra libertà della politica e libertà dalla politica non ci riguarda affatto (in quanto anarchici), è un dilemma che può porsi solo a chi veda nel politico, nel pubblico, nelle norme sociali, lo spazio della non libertà, della necessità o, all’opposto, a chi vuole che tutto sia regolato, determinato e prevedibile, e vede nella libertà individuale un’assurda pretesa, un intollerabile disordine. Non certo per gli anarchici. Come diceva Elisée Reclus, «l’anarchia è la più alta espressione dell’ordine»…

Analogo è il discorso sulla distinzione tra libertà negativa e libertà positiva, tra libertà da e libertà di42. Può essere utile sul piano logico-analitico e utile anche a saggiare, a mettere alla prova, le varie concezioni della libertà. È abbastanza noto, infatti, che la libertà positiva si presta a grossolane mistificazioni. Se la «vera» libertà è quella di muovere verso il «Bene», un Bene definibile in cento modi, religiosi e laici, tutto o quasi è possibile in nome della «vera» libertà: i gulag, i roghi dell’Inquisizione e così via. Epperò, anche una concezione strettamente negativa della libertà è vettore potenziale di mistificazione. Innanzi tutto perché sottovaluta o addirittura sottrae agli individui (al gioco della libertà) quell’ambito importantissimo, fondamentale per la nostra umanità, per il nostro essere pienamente umani, che è l’ambito del potere, l’ambito delle funzioni istituenti e regolative della società. E poi, anche nella ridotta del privato, può benissimo ritornare, interiorizzata, una pseudo-libertà in forma di libertà da: dal peccato… dalla natura inferiore…43

È probabilmente vero, come dice Berlin, che libertà positiva e libertà negativa si sono storicamente sviluppate in direzioni divergenti44. In generale. Ma questo non è vero, anzi è assolutamente falso, per quanto riguarda l’anarchismo, che rappresenta la più alta sintesi storicamente data delle «due libertà». Nella concezione anarchica, infatti, l’una e l’altra libertà sono da sempre strettamente connesse e consustanziali. Proprio due modi di dire sostanzialmente la stessa cosa. Di nuovo Bakunin: «Non quella libertà individualistica, egoista, meschina e fittizia, praticata dalla scuola di Jean-Jacques Rousseau e da tutte le altre scuole del liberalismo borghese, che considerano il sedicente diritto di tutti, rappresentato dallo Stato, come il limite di ognuno e che finisce necessariamente e sempre per ridurre a zero il diritto del singolo individuo […]. No, io intendo […] la libertà che consiste nel pieno sviluppo di tutte le attività materiali, intellettuali e morali che in ognuno si trovano allo stato latente» (il corsivo è mio)45.

Siamo così arrivati all’ultimo nodo problematico di queste mie riflessioni (non certo all’esaurimento dell’inesauribile discorso sulla libertà!). Quest’ultimo nodo è costituito dall’esistenza (o meno) di una concezione «neutrale», o meglio laica, cioè comune a diverse «fedi», dal momento che una concezione strettamente neutrale, cioè avalutativa, del valore-libertà è una contraddizione in termini46. Esiste o no una concezione della libertà in cui abbia gioco comunicativo e operativo anche, ma non solo (è questo il problema), quella peculiare concezione della libertà che è quella anarchica?

Perché si ponga il problema bisogna ovviamente accettare l’idea che non ci sia una sola vera concezione della libertà. La nostra. La nostra, la mia, quella anarchica è «ovviamente» (per me, per noi) la più bella, la più ricca di attualità e potenzialità, la più coerente con la natura umana… Ma non l’unica e, ahinoi, neppure quella prevalente nell’immaginario collettivo attuale. Lontanissima dall’esserlo. Accettata senza grosse difficoltà, credo, questa affermazione che è insieme un giudizio di fatto e un giudizio di valore (è così di fatto: la concezione anarchica non è l’unica concezione della libertà; e non può che essere così, perché la libertà per sua natura non è riconducibile a una particolare interpretazione senza negarsi47), bisogna stabilire se la concezione anarchica della libertà è non solo irriducibilmente diversa, ma anche incompatibile con ogni altra concezione.

Applicando anche a questo dilemma (che è di ordine teorico ma anche – e fortemente – di ordine operativo) la miscela di utopia e buon senso che suggerivo agli anarchici qualche anno fa48, ne traggo una quasi ovvia ipotesi di risposta: la libertà degli anarchici è irriducibile ad altre libertà, per quanto apparentemente simili (dimensione utopica), ma è contemporaneamente compatibile con altre concezioni (dimensione del buon senso). Credo cioè che ci sia, o comunque sia concepibile, un’idea laica di libertà in cui possano coesistere e confrontarsi diverse concezioni, tra cui quella anarchica. Diverse, non tutte! Non quella fascista, per fare un esempio estremo, né quella leninista. Quelle non compatibili si autoescludono, una volta definita per sommi capi questa dimensione laica della libertà.

Ci provo, a definirla. Opera non facile anche perché ho appena cominciato a rifletterci sopra. Ci provo utilizzando definizioni non eccessivamente neutrali, ovviamente, sennò ci sta dentro di tutto, da «libertà è volere ciò che si deve essere» di Wojtyla (1983) a «libertà è essere schiavo dei tuoi begli occhioni neri» (o blu, o verdi…) di qualunque poetastro. Non eccessivamente neutrali ma, altrettanto ovviamente, accettabili in linea di principio da più approcci dottrinali: data la mia formazione culturale, ho in mente soprattutto le altre due grandi scuole (oltre all’anarchismo) di pensiero post-illuministico, cioè il liberalismo e il socialismo (anche, ma non solo, marxista). Così penso a definizioni che possano andar bene anche ad anime meno gerarchiche di quelle due tradizioni, alla loro natura più genuina di libertari (e/o egualitari) «deboli». Prendo come punto di partenza Berlin: «Chiunque abbia attribuito un valore alla libertà in sé, ha creduto che essere liberi di scegliere sia un ingrediente inalienabile di ciò che rende umani gli esseri umani. È questo che soggiace sia alla richiesta positiva di avere voce nelle leggi e nelle pratiche della società in cui si vive, sia nella richiesta di disporre di uno spazio […] in cui uno sia padrone di sé49, uno spazio ‘negativo’ in cui un uomo non sia obbligato a rendere conto delle proprie attività a nessun altro finché questo risulta compatibile con l’esistenza di una società organizzata»50.

In questo brano c’è, seppure in versione «debole» rispetto a quella anarchica, sia la libertà come partecipazione al potere sia la libertà come arbitrarietà nelle scelte individuali (limitata dal solo vincolo della «eguale libertà degli altri»). C’è, o può esserci, una base per il confronto dialogico-dialettico. E c’è la possibilità che da tale confronto e da una serie di lotte per la libertà, di lotte di liberazione individuale e collettiva, nel «privato» e nel «politico», si arrivi per «spostamenti successivi», del tutto compatibili con il contesto «laico», a una diffusa accettazione della concezione anarchica della libertà51.

L’«avere voce» in campo politico, infatti, può del tutto coerentemente arrivare alla democrazia diretta nello spazio politico (cioè alla negazione dello Stato come principio istituente gerarchico)52. L’«eguale libertà» può aprire un più che legittimo varco all’irruzione «forte» del valore-eguaglianza e arrivare del tutto logicamente a implicare l’autogestione dello spazio economico. E il limite della libertà degli altri può del tutto logicamente, a quel punto, manifestarsi come uno pseudo-limite. Si può scoprire e sperimentare, nella teoria e nella pratica, che (o meglio se, volendo mantenere correttamente il dubbio) l’eguale libertà di tutti può anche non produrre riduzione, ma potenziamento di libertà. Della libertà di tutti e di ciascuno.

Come diceva il buon vecchio Bakunin, per l’appunto.

Note al capitolo

1. «[…] il significato di questo termine […] è così poroso che non c’è praticamente interpretazione che non consenta»; Isaiah Berlin, Quattro saggi sulla libertà, Feltrinelli, Milano, 1989, p. 188. Anch’io mi guardo bene dal «discutere né la storia né i duecento e più sensi di questo termine proteiforme che sono stati registrati dagli storici delle idee»; ibidem.

2. «Libertà è forse il termine che ricorre più frequentemente nella vita e nella dottrina politica […]. Tende a essere usato da tutti per designare qualsiasi azione, istituzione, direttiva o sistema politico che sia maggiormente apprezzato, dall’obbedienza alla legge (positiva o naturale) al benessere economico»; Felix E. Oppenheim, Dimensioni della libertà, Feltrinelli, Milano, 1982, p. 121.

3. Cfr. Oppenheim, op. cit., p. 175.

4. Cfr. Hannah Arendt, La Crise de la culture, Gallimard, Paris, 1989, p. 209.

5. Cfr. Lalande, op. cit., p. 977.

6. Cfr. Arendt, op. cit., p. 188.

7. Cfr. Arendt, op. cit., p. 186.

8. Mi pare a questo proposito meritevole di attenzione Karl Popper, che tenta un proficuo approccio non monistico (tutto è materia/tutto è spirito) e neppure dualistico (materia/spirito) alla realtà. Popper distingue tre livelli di realtà che chiama Mondo 1, Mondo 2 e Mondo 3. Il Mondo 1 è il mondo della fisica, della chimica e della biologia; il Mondo 2 è il mondo della psicologia (non solo umana ma anche animale), cioè della paura, della speranza, degli impulsi ad agire, di tutti i tipi di esperienza soggettiva, comprese le esperienze subconsce e inconsce; il Mondo 3 è il mondo dei prodotti dello spirito umano (opere d’arte, valori etici, istituzioni sociali, opere scientifiche, libri, teorie, comprese quelle false, come si premura di specificare Popper). Il Mondo 3, che comincia solo con l’evoluzione di un linguaggio proprio dell’uomo («in principio era il verbo e il verbo era l’uomo»; Genesi rivisitata da A.B.), è altrettanto reale del Mondo 1 e del Mondo 2 e i suoi «oggetti» sono in «forte interazione» con quelli degli altri due livelli di realtà. Cfr. Karl Popper, L’Indeterminisme n’est pas suffisant, in L’Univers irresolu, Hermann, Paris, 1984, pp. 93-107.

9. «Per quanto io proponga con il dott. Johnson, Alfred Landé e altri realisti di buon senso, di considerare il Mondo 1 come il modello stesso della realtà, non sono per ciò monista bensì pluralista»; Popper, L’Indeterminisme n’est pas suffisant, cit., p. 95.

10. E anche Popper: «Se l’uomo è libero, per lo meno in parte anche la natura lo è»; Popper, L’Indeterminisme n’est pas suffisant, cit., p. 105. E «il nostro universo è parzialmente causale, parzialmente probabilistico e parzialmente aperto»; Popper, L’Indeterminisme n’est pas suffisant, cit., p. 107.

11. Willie Jones, citato in Berlin, op. cit., p. 13.

12. Ibidem.

13. Democrito: «Tutto ciò che esiste nell’universo è frutto del caso e della necessità»; citato in Jacques Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano, 1986, p. 9.

14. «La meccanica quantistica ha introdotto, nonostante le proteste di Einstein, quel che lui ha definito un ‘dio che gioca a dadi’ […]. [Ma] l’indeterminismo di un dio che gioca a dadi, cioè l’indeterminismo delle leggi probabilistiche, non porta di per sé alla libertà umana. Quello che cerchiamo di capire non è come si possa agire in maniera imprevedibile e fortuita, ma come si possa agire in modo deliberato e razionale […]. L’indeterminismo è necessario ma insufficiente per permettere la libertà umana e la creatività»; Popper, L’Indeterminisme n’est pas suffisant, cit., pp. 102-103.

15. La definizione è quasi quella di Geymonat; Ludovico Geymonat, La libertà, Rusconi, Milano, 1988, p. 27.

16. Di più, si può anche accettare l’idea di una «creatività» della natura che va oltre il caso e può essere considerata, per dirla con Bookchin, come la matrice della creatività e dunque della libertà umana, ma che non può assolutamente identificarsi con quest’ultima. Cfr. Murray Bookchin, L’ecologia della libertà, cit.

17. Le ricerche più recenti in campo antropologico suggerirebbero addirittura che «l’opinione prevalente, secondo la quale le strutture cerebrali dell’uomo precedono la cultura […] sia sbagliata»; «Il fatto palese che le fasi finali dell’evoluzione biologica dell’uomo ebbero luogo dopo le fasi iniziali di crescita della cultura implica che […] gli strumenti, la caccia, l’organizzazione familiare e, più tardi, l’arte, la religione e la ‘scienza’, modellarono somaticamente l’uomo»; Clifford Geertz, citato in Ashley Montagu (a cura di), Man and Aggression, Oxford University Press, New York, 1973, p. 15. Dunque lo stesso «cervello cominciò a crescere e a svilupparsi in interazione simultanea di feedback con la cultura»; ibidem.

18. Cfr. Henri Laborit, Dio non gioca a dadi, elèuthera, Milano, 1995, cap. 1. Peccato che Laborit non voglia rinunciare a un rigoroso approccio deterministico neppure al livello del sociale e neppure quando auspica mutazioni culturali libertarie.

19. Cfr. Cornelius Castoriadis, L’Imaginaire: la création dans le domain social-historique, in Domaines de l’homme, vol. ii, Seuil, Paris, 1986, pp. 219-237.

20. «Sotto la pressione selettiva esercitata dalla necessità di funzionare nella dimensione della cultura, il comportamento istintivo sarebbe stato peggio che inutile e perciò sarebbe stato selezionato negativamente, anche ammesso che ne fossero rimaste delle tracce nei progenitori dell’uomo. In realtà io penso che sia addirittura dubbio che le grandi scimmie abbiano istinti» (il corsivo è mio); Montagu, op. cit., p. 15. O, meno estremisticamente, «più alto è il livello evolutivo di un animale, più le sue ‘tendenze innate’ sono modellate, sviluppate e organizzate in forme comportamentali dalle sue interazioni con l’ambiente […]. Seppure gli insetti e altri animali inferiori sono in gran parte guidati dagli istinti, l’uomo è pressoché privo di istinti»; Morton Hunt, citato in Montagu, op. cit., p. 21.

21. Cfr. Bertolo, Potere, autorità, dominio…, cit.

22. «Se accettiamo il determinismo classico non possiamo pretendere (come fanno molti filosofi) di essere ciononostante dotati di una vera libertà e creatività»; Popper, L’Indeterminisme n’est pas suffisant, cit., p. 102. Il punto di vista del determinismo classico «porta alla predestinazione, porta all’idea che miliardi di anni fa le particelle elementari contenevano la poesia di Omero, la filosofia di Platone e le sinfonie di Beethoven, come il seme contiene la pianta»; Popper, L’Indeterminisme n’est pas suffisant, cit., p. 105. «Se il determinismo fosse dimostrato, si renderebbe necessaria una drastica revisione del linguaggio etico»; Berlin, op. cit., p. 22. «In effetti, l’idea di un essere moralmente responsabile risulterebbe nel migliore dei casi un mito»; Berlin, op. cit., p. 17. Ma «finora non sono state avanzate ragioni valide contro l’apertura dell’universo, ovverosia contro il fatto che vi si formano continuamente cose radicalmente nuove, né si sono ancora trovate valide ragioni per dubitare della libertà e creatività umane»; Popper, L’Indeterminisme n’est pas suffisant, cit., p. 107.

23. Citato in Giulio Giorello, Introduzione a John Stuart Mill, Saggio sulla libertà, il Saggiatore, Milano, 1984. p. 7. Ma, dopo un grande vecchio del liberalismo, si veda un po’ anche cosa scrivono dei marxisti (credo) italiani contemporanei: «Dobbiamo liberare […] le differenze dal loro segno gerarchico»; Rina Gagliardi, «Il Bimestrale», supplemento a «il manifesto», 31 gennaio 1989. E ancora: «L’egualitarismo nella pratica sociale, nella dimensione concreta dei conflitti e dei microconflitti, non ha mai [beh, beh, beh! A.B.] preso di mira le differenze, ma la gerarchia, non un mondo di diversi ma un mondo fatto di inferiori e superiori, di regnanti e di sudditi, la diseguaglianza come principio di comando e sistema di dominio» (il corsivo è mio); Marco Bascetta, «Il Bimestrale», supplemento a «il manifesto», 31 gennaio 1989. Sembra di sognare, sembra di leggere un testo anarchico!

24. Cfr. Bertolo, Gli ex, il buon senso e l’utopia, cit.

25. «Ogni neonato differisce dagli altri: nessuno, tranne i gemelli omozigoti, ha lo stesso genoma di un altro e anche i gemelli omozigoti possono differire fenotipicamente a causa di diversità indotte durante la gestazione»; Leon Eisenberg, citato in Montagu, op. cit., p. 65.

26. Cfr. Cornelius Castoriadis, Nature et valeur de l’egalité, in aa.vv., L’Exigence d’egalité, Éditions de la Baconniere, Neuchâtel, 1982, p. 321.

27. Cfr. Bertolo, Potere, autorità, dominio…, cit.

28. Cfr. Raymond Polin, Les Deux soeurs ennemies: egalité et liberté, in aa.vv., L’Exigence d’egalité, cit., p. 277.

29. Si veda, del tutto ovviamente, Pëtr Kropotkin, Il mutuo appoggio, Salerno, Roma, 1982.

30. Cfr. Ritter, op. cit.

31. Michail Bakunin, Dio e lo Stato, in Rivolta e libertà, a cura di Mariella Nejrotti, Editori Riuniti, Roma, 1973, pp. 55-56.

32. Cfr. Bakunin, Dio e lo Stato, cit., p. 71.

33. Con questo interrogativo voglio anche dire che la definizione bakuniniana non è dell’ordine dei giudizi di fatto. In altre parole, non è che la libertà produca l’effetto «forza collettiva», ma può produrlo una libertà – quella, per l’appunto, secondo cui la mia libertà si accresce, anziché ridursi, con la libertà degli altri – se diventa centrale nell’immaginario sociale.

34. Ancora Bakunin: «La libertà illimitata di ognuno per mezzo della libertà di tutti, la libertà per mezzo della solidarietà, la libertà nell’eguaglianza»; Bakunin, Dio e lo Stato, cit., p. 71.

35. Libertà «esagerata», dice Popper. Cfr. Karl Popper, Società aperta, universo aperto, Borla, Roma, 1984, p. 26.

36. O, come diceva Berti, dalla loro «ulteriorizzazione»; Nico Berti, La dimensione utopica del pensiero anarchico, «Volontà», n. 3, 1981, p. 10. Ancora Berti: «Dal punto di vista anarchico si realizza veramente la libertà individuale solo attraverso il completo dispiegamento dell’eguaglianza sociale, e si realizza veramente l’eguaglianza sociale solo attraverso il completo dispiegamento della libertà individuale»; Nico Berti, Per un bilancio storico ed ideologico dell’anarchismo, «Volontà», n. 3, 1984, p. 46.

37. L’aggettivazione forte e debole è forse ingannevole, perché sembra indicare una differenza meramente quantitativa, mentre è sì anche quantitativa (per quanto è possibile misurare la libertà, l’eguaglianza, ecc.), ma è soprattutto qualitativa. La libertà anarchica è quella libertà che… eccetera.

38. Cfr. Arendt, op. cit., p. 194.

39. «Lo scopo degli antichi era la divisione del potere sociale fra tutti i cittadini di una stessa patria: questo essi chiamavano libertà […]. Lo scopo dei moderni è la sicurezza del benessere privato, ed essi chiamano libertà la garanzia che accordano le istituzioni a questo benessere»; Henri-Benjamin Constant de Rebecque, De la Liberté des anciens comparée à cette des modernes, 1819, citato in Corrado Vivanti, Voce «Libertà», Enciclopedia Filosofica, Einaudi, Torino, 1979, vol. viii, p. 202.

40. Norberto Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino, 1993, citato in Vivanti, op. cit., p. 203.

41. «[…] un sistema di vincoli condizionali che consentono l’affermarsi di regole del gioco in grado di accettare entro di sé un numero elevato di combinatorie di azioni e di volizioni, e all’esterno delle possibilità di rottura radicale dell’intero sistema, con chances di trasgressione qualitativa e di rinnovamento totale delle regole del gioco che presiedono alla formazione di un nuovo e differente sistema di libertà»; Franco Riccio, Salvo Vaccaro, Emilio Fiordilino, Il sapere e le sue parole, Ila Palma, Palermo, 1989, p. 158.

42. «Per libertà [in senso negativo] intendo il non subire interferenze da parte di altri. Più ampia è l’area di non interferenza, più grande è la mia libertà […]. Libertà in questo senso significa ‘libertà da’»; Berlin, op. cit., p. 190. «Il senso ‘positivo’ della libertà deriva dal desiderio da parte dell’individuo di essere padrone di se stesso. Voglio che la mia vita e le mie decisioni dipendano da me stesso e non da forze esterne di qualsiasi tipo […]. Voglio essere un soggetto e non un oggetto […]. Voglio essere uno che decide, non uno di cui si decide, che è autodiretto e non uno su cui agiscono la natura esterna e altri uomini, come se fossi una cosa, un animale o uno schiavo»; Berlin, op. cit., p. 197.

43. «[Se la libertà è] assenza di ostacoli al soddisfacimento dei desideri di una persona […], uno dei modi per ottenere questa libertà è quello di estinguere i propri desideri […]. Invece di resistere a pressioni che mi schiacciano o di rimuoverle, posso ‘interiorizzarle’»; Berlin, op. cit., p. 37.

44. Berlin, op. cit., p. 198.

45. Bakunin, Dio e lo Stato, cit., p. 70.

46. È possibile, certo, cercare (e forse trovare) una definizione neutrale della libertà, ma solo a patto, per l’appunto, di considerarlo un termine avalutativo, come tenta di fare ad esempio Oppenheim. Ma una definizione del genere non ha alcun senso e alcuna utilità nel contesto del nostro discorso. Noi qui ci occupiamo della libertà come valore, anzi di una particolare concezione della libertà-valore.

47. Nico Berti, Libertà dell’etica ed etica della libertà, «Volontà», n. 1, 1987.

48. Cfr. Bertolo, La gramigna sovversiva, cit.

49. Il corsivo è mio, per rilevare la contraddizione interna, uno «slittamento» involontario – un lapsus forse significativo – sul terreno libertario; Berlin, op. cit., pp. 197-198. Infatti Berlin indica l’essere padroni di se stessi come categoria dell’ordine della libertà «positiva» e non di quella «negativa» come in questa frase.

50. Berlin, op. cit., p. 57.

51. E da qui, forse, al suo affermarsi (necessariamente traumatico, rivoluzionario, perché incompatibile con il principio di dominio) come elemento centrale dell’immaginario sociale.

52. «Chiunque è per la libertà, deve stare per l’essere governato il meno possibile e per avere il meno possibile di governo, e quindi avvicinarsi alla mancanza di governo, all’anarchismo»; Popper, Società aperta, universo aperto, cit., p. 26. «La partecipazione all’autogoverno è, come la giustizia, un requisito umano fondamentale»; Berlin, op. cit., p. 55.

Fonte: I fanatici della libertà, relazione scritta per il seminario «La libertà, le libertà, i libertari», Milano, 2-3 dicembre 1989, poi rivista e pubblicata in «Volontà», n. 3-4, 1996.

CCshare
Condividi il testo con le seguenti indicazioni: