capitolo secondo

Al di là della democrazia

Una democrazia intesa alla lettera può essere soltanto una società senza Stato […]. Il potere è del popolo in quanto è il popolo che lo esercita in proprio.
Giovanni Sartori

Qui si tratta di democrazia da un punto di vista anarchico e – in subordine – di anarchia da un punto di vista democratico. Nel corso di questa riflessione mi occuperò in modo prevalente di ciò che nelle due categorie politico-filosofiche è significativo per un raffronto reciproco, vale a dire di ciò che essenzialmente differenzia o accomuna anarchia e democrazia.

Non saranno perciò analizzate a fondo né la democrazia comunemente intesa (la «democrazia rappresentativa»), né l’anarchia politica (così come gli anarchici la intendono), né quella forma particolare, seppure primigenia, della democrazia, la «democrazia diretta», che è una sorta di categoria di soglia tra democrazia e anarchia. Dell’una, dell’altra e dell’altra ancora (ognuna di esse necessiterebbe, per una riflessione critica adeguata, di ben altro spazio) daremo definizioni piuttosto sommarie finalizzate a una loro comparazione, o meglio ancora, a un giudizio generale di compatibilità/comparabilità.

La tesi che sosterrò è, per l’appunto, che democrazia e anarchia non siano riducibili l’una all’altra ma (a determinate condizioni) neppure antitetiche, che l’anarchia sia insieme la forma più compiuta della democrazia ma anche un suo irriducibile superamento. Un al di là, come dice il titolo di questo scritto.

Dunque: è concepibile un al di là della democrazia? Sì. Un al di là quantitativo e insieme qualitativo. Analogamente a quanto ho scritto sulla libertà1, la concezione anarchica della libertà esprime, rispetto alla concezione liberale, un di più e, insieme, un altro di libertà. Semplificando quell’altro, quella diversità: per i liberali la libertà dei singoli individui viene limitata dalla libertà degli altri, mentre per gli anarchici essa ne viene potenziata.

Epperò, quell’altra libertà degli anarchici contiene anche la libertà liberale, pur andando oltre in quantità e qualità. Anche in quantità, se no, quale garanzia ci dà la supposta qualità? Voglio dire che, comunque, la diversa libertà deve significare più libertà. Anche gli integralisti religiosi (cristiani, musulmani, ecc.) ci parlano di libertà diverse, che però sono meno libertà individuale e collettiva. Soprattutto individuale.

Così la concezione politica degli anarchici è – deve essere – più democrazia, oltre che un’altra cosa. Se no è un al di qua. E così infatti gli anarchici ritengono che sia: di più e altro.

Dunque la concezione anarchica dello spazio politico è un al di là al contempo qualitativo e quantitativo rispetto alla concezione democratica. Innanzi tutto rispetto alla concezione democratica dominante, cioè a quella rappresentativa, ma anche rispetto a concezioni più radicali, come ad esempio la «democrazia partecipativa»…2 e persino rispetto alla cosiddetta «democrazia diretta»3.

La concezione anarchica dello spazio politico – quella che potremmo chiamare «anarchia politica» – è, infatti, insieme un di più di democrazia e un qualcosa d’altro, un’altra cosa.

Com’è possibile che si possa essere di una cosa e nel contempo di un’altra cosa? È possibile. Difficile da spiegare, ma possibile. Qui si parla non di «cose» del mondo fisico, ma di «cose» dell’immaginario socio-politico. E queste ultime cose possono «essere» secondo modalità diverse a seconda del punto di vista da cui le si guarda. L’anarchia, nella fattispecie, può essere concepita come forma estrema di democrazia e come una forma altra di costruzione dello spazio politico. Oppure, addirittura, come qualcosa che sta al di là dello stesso spazio politico. Vedremo.

Prima di procedere è però necessario precisare che sinora in modo implicito e, man mano in modo più esplicito, abbiamo avuto in mente necessariamente determinate definizioni di anarchia e democrazia (o meglio, democrazie4). Definizioni un po’ neutrali: del tutto neutrali non è possibile e neppure utile. Abbiamo in mente (e daremo) definizioni di anarchia prevalentemente dal punto di vista anarchico (ma tenendo presente la critica democratica) e di democrazia dal punto di vista democratico5 (ma tenendo presente la critica anarchica).

Prima ancora ci concederemo una divagazione solo apparentemente fuori tema.

Magazzino ideologico

Quando sono di malumore (e lo sono quasi sempre quando devo consegnare un articolo, e più ancora se sono in ritardo), quando sono di malumore e mi guardo in giro nel «magazzino ideologico» dell’anarchismo mi pare di essere nel retrobottega di un rigattiere. Non di un antiquario, come qualche malizioso nemico dell’anarchismo potrebbe pensare. Peggio. Di un rigattiere. Perché tra frasi fatte, affermazioni di principio, articoli di fede, slogan, buoni sentimenti, estremismi verbali, mozioni di affetto, rimembranze, cari estinti… per lo più vedo pezzi di modernariato.

Com’è noto, il modernariato – nonostante l’etimo – non si occupa di oggetti moderni, ma vecchi. Non abbastanza vecchi da essere antichi, ma abbastanza vecchi da non essere veramente moderni, cioè contemporanei o quasi.

So benissimo che il pensiero anarchico ha prodotto negli ultimi cinquant’anni (e soprattutto negli ultimi venti-trent’anni) cose originali e importanti e «nuove», cioè moderne in senso proprio. E so pure, del tutto ovviamente, che il pensiero anarchico conserva dei bellissimi pezzi di «antiquariato», cioè di anarchismo classico; ed è anzi su essi che ancora in gran parte si regge; ed è umiliandone la genialità e la ricca potenzialità «moderna» che il «vecchio», cioè la vulgata si è costruito un guscio di luoghi comuni a difesa di una fragile identità.

L’identità degli «antichi», cioè dei padri fondatori dell’anarchismo, era così forte che potevano anche contraddirsi (o apparentemente contraddirsi) senza grossi problemi. Beati loro.

Proudhon nel 1848 è deputato nazionale; nel 1849 scrive una devastante e lucidissima critica-negazione non solo dello Stato e del governo, ma della dimensione politica tout court; nel 1863 avanza (con Del principio federativo) un progetto che ripropone un autonomo spazio politico e parla di comuni, province, regioni e – udite udite! – di Stati e governi6.

E sentite un po’ che cosa scriveva Michail Bakunin all’amico e compagno anarchico napoletano Carlo Gambuzzi: «Sarai forse sorpreso che io, convinto e appassionato astensionista, suggerisca ora ai miei amici di farsi eleggere deputati. Questo si spiega con il fatto che sono cambiate le circostanze»7. Le circostanze… Forse che non era più anarchico il vecchio Bak? Figuriamoci. È che, mentre il modernariato anarchico presenta l’astensionismo come principio, esso era, per Bakunin, scelta strategica. O addirittura, come parrebbe dalla precedente citazione, scelta tattica8.

Va bene, ma che c’entra questo con il tema del presente scritto? C’entra, seppure tangenzialmente. C’entra, perché l’immagine che gli anarchici hanno oggi della democrazia è pesantemente segnata dalla vulgata e perché anche l’immagine che dell’anarchia hanno i democratici (pur escludendo i numerosi casi palesi di ignoranza e malafede) è altrettanto pesantemente segnata da quella vulgata.

Prendiamo, ad esempio, l’affermazione di principio «gli anarchici non votano». Se è un principio, è del tutto conseguente che la vulgata ne derivi che non solo gli anarchici sono contrari al voto in determinate condizioni storiche (sociali, economiche, politiche), ma che gli anarchici non votano e non voteranno mai e comunque. Il che è sublimamente folle. Sublimamente perché è una dichiarazione di fede tutta dentro l’utopia, dimensione ineliminabile dell’anarchismo, certo. Folle perché del tutto priva di quella dimensione del buon senso (buon senso ribelle, beninteso, non da «casalinga di Voghera»), senza il quale non esiste «anarchia possibile», cioè anarchismo significativamente presente nella trasformazione sociale9, neppure secondo strategie rivoluzionarie.

A scanso di equivoci: ho cinquantatré anni, non ho mai votato in occasione delle numerose consultazioni elettorali – quasi tutte drammatizzate come «determinanti» – che ci sono state in Italia negli ultimi trentadue anni. E sto benissimo. Ma non è questo il punto. Non in questa sede, comunque.

Qual è, qui, il punto? Lascio parlare di nuovo Bakunin e il suo programma per una società post-rivoluzionaria: «La base di tutta l’organizzazione politica di un paese deve essere la comune assolutamente autonoma, rappresentata sempre dalla maggioranza dei voti di tutti gli abitanti, uomini e donne maggiorenni» (il corsivo è mio)10. E ancora: «Elezione di tutti i rappresentanti nazionali, provinciali e comunali […] mediante il suffragio universale di tutti gli individui, uomini e donne maggiorenni» (il corsivo è mio)11.

Ecco che siamo tornati in tema.

Governo di tutti

Francesco Saverio Merlino, anarchico fin verso l’ultimo decennio dell’Ottocento, poi qualcosa tra il socialista libertario e il liberal-socialista, scrive nel suo testamento: «governo di tutti = governo di nessuno»12. E poco prima della morte lascia un appunto manoscritto: «democrazia = anarchia»13. Merlino va oltre le somiglianze che io vedo e le risolve in identità. O perché sottovaluta l’anarchia o perché sopravvaluta la democrazia. O per entrambi i motivi.

Possiamo comunque partire dalle due affermazioni merliniane (che sembrano procedere per coppie di affinità quasi evidenti: governo di tutti/democrazia, governo di nessuno/anarchia) per approfondire un po’ l’analisi comparata di democrazia e anarchia. A partire, come dicevamo, da qualche definizione utile a tale confronto.

Cominciamo con l’anarchia. L’anarchia può essere intesa (ed è stata intesa) in modi diversi dagli stessi anarchici. In particolare, per quanto qui ci interessa, anarchia può significare società senza governo, oppure senza Stato, oppure ancora senza potere (o, meglio, senza dominio). Bisognerebbe poi ulteriormente specificare. Che cosa si intende per governo? Gli anarchici hanno spesso parlato, con valenza positiva, di autogoverno, quindi il governo che essi negano è un eterogoverno, un governo imposto da una parte della società su un’altra parte, una dimidiazione fra governanti e governati, non la funzione in sé e per sé.

E lo Stato? Lo Stato è una forma storica particolare di legittimazione e di organizzazione del potere politico. Razionalmente legittimato da una vera o supposta «volontà popolare», non dalla volontà di dio o da chissaché. Epperò ancora dentro una concezione sociale gerarchica. Lo Stato come paradigma del potere o, meglio, del dominio14. Lo Stato come istituzione (o somma di istituzioni), ma soprattutto come forma immaginaria istituente15 del moderno dominio di classe.

Quanto al potere, gli anarchici hanno inteso e per lo più intendono per potere «cattivo» (quello che essi negano, voglio dire) il potere gerarchico, che si riassume nel rapporto di comando/obbedienza, e per potere politico (sempre in senso negativo) non la funzione normativa della società, non la «forza politica collettiva»16, ma l’espropriazione della società nel suo insieme, nel suo corpo politico, di tale funzione e la sua corrispettiva appropriazione da parte di una minoranza. Come si diceva: in una società dimidiata, divisa tra governanti e governati, il potere che gli anarchici negano è il potere permanentemente esercitato dai governanti sui governati. L’anarchia non è assimilabile all’anomia (cioè all’assenza di norme) ma, semmai, con le debite specificazioni, all’autonomia.

Personalmente17 preferisco, per motivi di articolazione semantica, il termine «dominio» a significare il potere «forza collettiva» espropriata, riservando al termine «potere» un significato più neutrale, seppure ovviamente gravido di potenziali ricadute gerarchiche, inevitabili in una società gerarchica. Così come preferisco parlare di dominio per rapporti permanentemente asimmetrici di potere anche in ambiti non politici del sociale. E persino per relazioni «analogamente» asimmetriche tra uomo e natura, che rinviano a uno stesso immaginario di dominio mutuato dal sociale18.

Torniamo all’anarchia. L’anarchia è un principio di organizzazione della realtà, una concezione del mondo non gerarchica, libertaria in senso forte, che si applica anche ma non solo allo spazio politico. Non solo. L’anarchia è dell’ambito della filosofia, dell’etica e dell’estetica prima e più di essere dell’ambito della politica. Ma qui, per ora, ci occupiamo della dimensione politica dell’anarchia.

E, dunque, poiché gli anarchici si pongono come concezione sociale che nega il dominio ma non disconosce le funzioni collettive di gestione della società (ne nega le forme gerarchiche e le implicazioni di dominio), si può forse dire che gli anarchici sono per un governo/non governo, per uno Stato/non Stato, per un potere/non potere. Dove il paradosso è solo apparente perché il primo termine di ogni coppia si riferisce a una concezione neutrale della funzione corrispondente e il secondo alla stessa funzione strutturata secondo un principio gerarchico.

Anche lo Stato? Anche lo Stato, basta intendersi sul termine. Non certo lo Stato come si è storicamente configurato e legittimato e razionalizzato e quale gli anarchici hanno giustamente posto a significazione esemplare della forma moderna del dominio, a istituzione gerarchica centrale del reale e dell’immaginario sociale post-illuministico, bensì lo Stato nel senso di «repubblica» (res publica19, la «cosa pubblica»), termine usato in senso neutrale più di una volta dagli anarchici classici.

Certo, le parole hanno spesso – e nella fattispecie per certo – forti connotazioni ideologiche e valenze emotive, per cui non senza ragione gli anarchici preferiscono non usare con significazioni neutrali parole come «governo», «Stato», «potere», parole che la Storia ha segnato profondamente. Così come non accettano di chiamare «partito» una loro organizzazione «politica», che pure è indubbiamente una sorta di partito/non partito. Partito perché frazione organizzata della società per perseguire valori e interessi particolari. Non partito perché struttura non gerarchica e non finalizzata alla conquista del dominio. Anzi «dello contrario…», come diceva il Boccaccio a proposito di Ser Ciappelletto.

Forme del politico

Gli anarchici, pur volendo andare al di là della politica, come abbiamo detto e come vedremo più oltre, non si sono tuttavia rifiutati di proporre, a parole e nei fatti, forme di politica compatibili (anche se non identificabili) con l’anarchia intesa come assenza/negazione del dominio. Così come in campo economico, pur preconizzando un al di là dell’economia, hanno proposto e propongono forme dell’economico riconducibili essenzialmente a quella che viene chiamata autogestione.

Qual è dunque il governo/non governo che gli anarchici hanno proposto e propongono per la funzione politica della società?

Le forme del politico da loro proposte sono essenzialmente riconducibili a quella che viene chiamata democrazia diretta. La democrazia, financo quella diretta (come peraltro l’autogestione in campo economico) non è anarchia, checché ne pensasse Merlino. Perché non è vero che il potere di tutti è anche il potere di nessuno. Non è del tutto vero. È comunque, in qualche misura, potere coercitivo (o meglio, coattivo) pur se solo mediante sanzioni morali. È potere su qualcuno. Non su nessuno.

Perciò anche la forma limite della democrazia diretta, la democrazia faccia-a-faccia e unanime (vale a dire fatta sempre e solo di decisioni unanimi), forma limite anche per i suoi limitati ambiti di funzionalità pratica, non è ancora, necessariamente, anarchica in senso pieno. In senso politico, però, forse sì, perché per lo meno sul piano teorico non c’è dominio se ogni norma viene stabilita e ogni decisione viene presa da tutti e, soprattutto, da ognuno degli interessati.

La distinzione su accennata fra tutti e ognuno è importante perché, per il tipo antropologico suggerito come auspicabile dall’anarchismo (quello che un autore20 ha chiamato individuo comunitario), la «sovranità politica» non sta nell’insieme societario né nell’individuo, ma in una continua tensione irrisolta tra l’uno e l’altro. Se prevale quello, anche in forma democratica, c’è tirannia. Se prevale questo, c’è disgregazione e perdita di senso. L’anarchia è gelosamente individualista, ma anche generosamente comunitaria. Ed è perfettamente consapevole che l’individuo, unico, è anche e inevitabilmente un prodotto sociale.

Se ognuno – per tornare al tema – consapevolmente e liberamente delibera e coerentemente rispetta le deliberazioni (non «obbedisce», si badi), non v’è dominio di una parte sociale e neppure del «tutto» sugli individui. Tralascio il problema, teoricamente non trascurabile, delle norme stabilite in passato e in vigore per una sorta di inerzia sociale, norme che non sempre il singolo ha deliberato o approva o può modificare e che dunque possono configurare una sorta di dominio del passato sul presente. Ma la questione, in questa sede, può essere trascurata. Dunque, se ognuno… eccetera, la sovranità è insieme e armoniosamente nell’individuo e nel collettivo. La democrazia diretta, sul piano teorico e nella sua forma più «pura», può conciliare l’apparentemente inconciliabile.

Ma quello che abbiamo delineato è un caso limite, come si diceva. La democrazia diretta unanime è applicabile solo a situazioni non generalizzabili, e cioè: piccola dimensione ed estrema omogeneità di valori e interessi. Fuori dalla piccola dimensione la delega si impone. Fuori dalla forte omogeneità si impone un meccanismo decisionale diverso dall’unanimità.

L’unanimità. Se si dovesse sempre e solo decidere in modo veramente unanime, ben poche decisioni potrebbero essere prese, perfino entro gruppi socialmente e culturalmente piuttosto omogenei. È vero che, sempre in condizioni di discreta omogeneità e in assenza di interessi antagonistici, si può giungere spesso a decisioni «unanimi» senza grosse difficoltà e senza estenuanti discussioni, perché un individuo (o una minoranza) rinuncia a opporsi alle opinioni e dunque alle decisioni della maggioranza. Ma non è, questo, un modo particolare (consensuale) di decidere a maggioranza?

Quando poi il soggetto collettivo delle decisioni (dieci persone, cento, mille…) è eterogeneo per interessi e valori, decidere all’unanimità, se pure nella forma «attenuata» appena descritta, diventa difficile. E talora impossibile. E allora il meccanismo democratico della maggioranza si presenta come il male minore tra i possibili criteri decisionali. Male minore da un punto di vista anarchico, beninteso. Maggioranze semplici, assolute, qualificate, altamente qualificate (due terzi, quattro quinti, nove decimi…), ma comunque maggioranze.

L’anarchico Errico Malatesta replica a Merlino, quando questi gli contesta di avere dichiarato che in determinate situazioni piuttosto che non decidere è meglio decidere a maggioranza… sostanzialmente ammettendo il criterio maggioritario21.

La dimensione

Quando si va oltre una certa soglia dimensionale (cento persone, cinquecento, mille?), la democrazia diretta nel senso stretto di faccia-a-faccia, di democrazia assembleare, non funziona più. Non può funzionare. Perché la democrazia faccia-a-faccia funzioni, bisogna che i soggetti delle assemblee deliberanti si conoscano – almeno un po’ – tra di loro, abbiano una certa fiducia reciproca, possano parlarsi l’uno con l’altro al di fuori del momento assembleare e, last but not least, possano, se lo vogliono, intervenire direttamente nel corso delle discussioni assembleari che precedono le decisioni e che sono parte essenziale del processo decisionale.

Chiunque abbia pratica di assemblee sa che oltre una certa soglia dimensionale un’assemblea tende più alla demagogia che alla democrazia diretta. E la grande maggioranza dei «partecipanti» più che partecipare assiste. Così il «pubblico», da popolo deliberante diventa spettatore più o meno motivato e coinvolto: come il pubblico di uno spettacolo (teatro, concerto, cinema) o di una partita di calcio. Dalla cosa alla sua rappresentazione, magari emotivamente partecipata. Dalla democrazia diretta alla democrazia rappresentata.

Qual è questa soglia? Dipende da molteplici fattori: la maggiore o minore complessità dei temi trattati, la «maturità democratica» dei partecipanti, la loro conoscenza degli argomenti, la loro struttura psicologica, la loro volontà di essere realmente coinvolti nel processo decisionale e, di nuovo, la relativa omogeneità dei loro valori e interessi effettivi. Ma, comunque, una soglia c’è. E non è molto alta.

La lunga sperimentazione «utopica» dei kibbutzim israeliani indica che la soglia della democrazia diretta assembleare è probabilmente nell’ordine delle centinaia di persone. Non certo delle centinaia di migliaia. Convocare centomila persone in uno stadio non può significare farli discutere fra di loro e mettersi d’accordo, trovando adeguati compromessi. E anche sottoporre una decisione all’ipotetico voto elettronico di un milione di persone significa avere previamente semplificato i quesiti e le opzioni a livello binario: sì/no. E chi ha semplificato ha già in parte deciso. Neppure nel migliore dei casi si tratta più di democrazia diretta in senso stretto.

Dunque, oltre la democrazia faccia-a-faccia, c’è inevitabilmente una dimensione in qualche modo indiretta della democrazia. Indiretta di fatto, voglio dire. Ci sono le articolazioni federali e confederali della democrazia «diretta». Per dirla con Bakunin, «ogni organizzazione deve procedere dal basso in alto, dalla comune fino all’unità centrale, allo Stato, per via federativa»22. E tali articolazioni federali e confederali non possono non utilizzare una qualche forma di «rappresentanza» (tra virgolette per discriminarla dalle forme di rappresentazione specifiche della democrazia rappresentativa).

La forma che gli anarchici hanno dato (nella dottrina e nella pratica) a tale rappresentanza «federale» è quella del mandato revocabile e imperativo. Mandato revocabile in ogni momento da parte dei «mandatari», cioè delle istanze di democrazia diretta in senso stretto. È difficile, ma non impossibile, immaginare questa «immediatezza» anche per eventuali mandati di secondo o terzo ordine (delegati eletti da delegati, ecc.). Ma: imperativo? Poiché la politica è anche l’arte della mediazione, cioè l’arte del compromesso, poiché i processi decisionali (a tutti i livelli, da quelli dell’assemblea primaria a quelli successivi per vari gradi di delega) sono processi di compromesso tra opinioni e interessi, se non necessariamente contrapposti (a volte però sì) quanto meno diversificati, com’è possibile trovare soluzioni di equilibrio sulla base di mandati imperativi, cioè rigidi? Solo mandati ragionevolmente flessibili possono portare a compromessi soddisfacenti.

Dunque, delle tre caratteristiche della democrazia diretta indicate per lo più dagli anarchici come «necessarie»23 (unanimità, mandato revocabile e imperativo), due almeno sono – se prese alla lettera – difficilmente compatibili (eufemismo!) con il funzionamento di una società un po’ più complessa degli Inuit (esquimesi), degli Yanomami (indios amazzonici) e dei Nuer (nilotici sudanesi). Se presi alla lettera.

E allora? Torneremo sulla questione più avanti. Ora ci occuperemo un po’ di democrazia rappresentativa.

Dominanti e dominati

La democrazia comunemente intesa, la democrazia di cui menano vanto veri e sedicenti liberal-democratici, è democrazia rappresentativa, non semplicemente democrazia. D’altronde, anche le «democrazie popolari» degli ex Stati sedicenti socialisti erano democrazie rappresentative, a modo loro, beninteso.

Anche il fascismo, a modo suo, era una democrazia rappresentativa: la sua «classe politica» rappresentava il demos italiano, solo che le forme e i modi della rappresentanza erano diversi da quelli dei sistemi politici pluripartitici. E, certo, particolare non trascurabile, erano assai ridotte le libertà di parola, di stampa, di associazione… Ma ciò attiene all’ambito del «liberale», non necessariamente a quello del «democratico». Chi può negare che, proprio alla vigilia della seconda guerra mondiale, il regime fascista godesse del consenso – attivo o passivo – della maggioranza degli italiani, cioè del popolo? E chi può negare che la Camera dei Fasci e delle Corporazioni fosse un’istituzione politica elettiva di rappresentanza del demos?

Un amico anarchico portoghese mi segnalava, recentemente, che il regime di Salazar teneva periodiche consultazioni elettorali semi-democratiche («semi» secondo una concezione liberale, più libere comunque che non a Cuba o in Bulgaria)… e le vinse tutte. Anche l’ultima, avvenuta poco prima della «rivoluzione dei garofani», aveva dato la maggioranza dei voti (seppure esigua) al regime.

Non ho la minima intenzione di equiparare fascismo e liberal-democrazia, sia ben chiaro. Il Sommo Inesistente me ne scampi e liberi. Questa sarebbe un’operazione logica (si fa per dire) del peggiore «modernariato» anarchico. Voglio, piuttosto, dire che il termine «democrazia» copre uno spazio semantico che va dalla democrazia diretta in senso stretto alla democrazia autoritaria. Passando da forme di delega definita e controllata a forme di rappresentanza genericamente definita (una vera e propria «accomandita») e periodicamente rinnovata tramite meccanismi elettivi (nel doppio senso di scelta e selezione) che uniscono in varia misura elementi di concorrenza e di cooptazione.
Se la democrazia diretta «pura» sta a un polo di questo continuum, la democrazia rappresentativa in versione liberale (la migliore, credo, tra quelle sinora teorizzate e praticate), cioè la liberal-democrazia, sta non al polo opposto (democrazie autoritarie) ma certo più verso il polo opposto. Non a caso in periodi di crisi sociale la liberal-democrazia, a fronte di rischi non dico rivoluzionari ma anche solo radicalmente riformatori degli assetti di potere economico, non ha avuto gravi remore e pudiche ritrosie a «lasciarsi trasformare» in democrazia autoritaria (e a volte in vera e propria dittatura) per tutto il tempo necessario a riplasmare, con le buone e con le cattive, un sufficiente consenso alla classe dirigente/dominante così da permettere il ritorno a forme più «liberali» di democrazia.

Ed è naturale che la liberal-democrazia rappresentativa stia più verso il polo autoritario che verso quello libertario della democrazia. Essa, infatti, è il «volto umano» della «razionale» divisione fra chi governa e chi è governato, corrispettivo politico della divisione fra dominanti e dominati, della divisione in classi della società, della struttura gerarchica della società. Su questo non ci soffermeremo perché c’è un’ampia letteratura anarchica e non anarchica che ha demolito il mito della democrazia rappresentativa, cioè il mito della sua effettiva democraticità nel senso originale del termine24.

Democrazia, dunque governo del demos, del popolo25. Il demos è stato variamente definito, in base al sesso, alla cittadinanza, al censo, all’età, ecc. Nella sua concezione più ampia (come, ad esempio, oggi in Italia) è costituito da quasi tutti i cittadini (che non sono tutti gli abitanti, ma quasi) di ogni ceto e censo e sesso e razza, superiori ai diciotto anni. E questo demos, cioè la grandissima parte degli italiani, come esercita il suo «governo», il suo «potere»? Lo esercita in proprio? No, sarebbe autogoverno, democrazia diretta. Delega il suo conclamato diritto a un’oligarchia elettiva, che lo esercita a nome suo. E tuttavia, se tra un’improbabile anarchia e un’oligarchia elettiva (democrazia rappresentativa) non ci fosse altra scelta… Come dice Dahl26, la democrazia rappresentativa ha certo grossi difetti (eufemismo) ma se non c’è un’alternativa migliore… C’è.

C’è una democrazia diretta integrata da articolazioni federali e confederali27, intese in senso forte, proprie a uno spazio politico estremamente decentrato, in cui i delegati delle strutture sociali di base hanno mandati revocabili e (seppure con margini di manovra relativamente elastici) definiti rispetto alle specifiche decisioni, e in cui il potere delegato ai membri di coordinamento è sempre minore di quello che non viene delegato. Una democrazia in cui, per quanto concerne gli interessi di un comune di diecimila abitanti, prevalgono le decisioni di quel comune e non quelle della provincia e ancor meno quelle della regione, eccetera eccetera, federalmente andando. Una democrazia in cui le istanze «periferiche» (i quartieri di una città, i comuni, le regioni, ecc.) non sono articolazioni decentrate del potere centrale, ma in cui l’istanza «centrale» è articolazione federale del potere di base. E non è un gioco di parole.

Viceversa, nella democrazia rappresentativa il potere decisionale che viene delegato a un corpo di professionisti della politica è tutto il potere tranne quello che resta al demos: il «potere» di scegliere i suoi rappresentanti (in condizioni, peraltro, sulla cui effettiva e consapevole libertà di scelta è più che lecito dubitare) e in cui, dalla periferia politica al centro, dal locale al nazionale, il potere si accresce anziché diminuire. Siamo in un’altra dimensione della democrazia. Non è il demos che si autogoverna, pur con contraddizioni ineliminabili ma controllabili con la consapevolezza della loro esistenza, bensì un demos in nome del quale si governa. Con meccanismi di creazione e/o di simulazione del consenso.

Nell’apparente continuum delle forme di democrazia, c’è un salto qualitativo. La democrazia compatibile con il rifiuto anarchico del dominio (e nella fattispecie politica, della dimidiazione fra governanti e governati) è una democrazia «diretta» nel senso visto, cioè con una forte base di democrazia assembleare e un necessario ma controllato sistema di deleghe politiche temporanee. Delegati eletti o estratti a sorte (perché no, come i magistrati ateniesi), mai rappresentanti in senso proprio. Mai un ceto politico (di un solo partito o di più partiti non fa, in questa sede, alcuna differenza), separato dal demos per il fatto stesso di essere professionisti della politica.

Un modello

Dunque. Dunque il progettare e programmare forme di democrazia diretta è già un andare al di là della democrazia così com’è comunemente intesa, cioè della liberal-democrazia rappresentativa. Un al di là che – come abbiamo già detto più volte – presuppone più democrazia (non meno) e, insieme, un’altra democrazia. Insisto. La democrazia diretta dà molto più potere a ognuno degli individui che costituiscono e istituiscono il demos, in quanto scompone, decentra, diffonde il potere politico.

La democrazia diretta è una discreta approssimazione di «an-archia» (assenza di dominio) politica. E infatti, quando nella teoria (i già visti Proudhon e Bakunin, ad esempio) o nella pratica (nelle varie situazioni rivoluzionarie in cui gli anarchici hanno avuto un’influenza determinante, come nella Spagna del 1936 ad esempio), le forme politiche proposte e sperimentate sono state quelle della «democrazia diretta federale».

Una buona approssimazione di anarchia politica. Non di più, ma neppure niente di meno. L’anarchia politica resta, certo, ancora e sempre un ulteriore al di là. Ma, come il modello dei cristiani è la santità «a imitazione di Cristo», e purtuttavia i cristiani tutti – e anche i santi – si accontentano di meno, di molto meno, si accontentano cioè di tendere verso il modello, così gli anarchici…

L’anarchia è un al di là della democrazia anche in un altro senso. Come già si è detto, l’anarchia è un principio di organizzazione della realtà che va oltre lo spazio politico (e financo oltre lo spazio sociale, ma questo è «troppo» per il presente articolo). L’anarchia, in quanto principio filosofico, etico-estetico, va oltre lo spazio politico (che è lo spazio della democrazia). E addirittura lo nega. Va oltre perché neppure il modello estremo di democrazia diretta lo soddisfa appieno.

All’unanimità si possono anche decidere, in assemblee faccia-a-faccia, cose abominevolmente incompatibili con l’anarchia. Atene può ben bruciare i «libri» di Protagora o condannare a morte Socrate con forme decisionali di democrazia diretta, ma nessuno farà mai accettare a un anarchico la giustezza di un verdetto che punisce l’eterodossia di pensiero. L’unanimità e (ancor meno) la maggioranza possono essere accettate dagli anarchici come criteri politici decisionali in determinati contesti operativi. Mai per stabilire in assoluto ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è bello e ciò che è brutto. Anche i liberali, d’altronde, sottraggono alcuni ambiti di «diritti umani» al meccanismo maggioritario. E i più consapevoli sono anche estremamente diffidenti nei confronti del potere della maggioranza. Ad esempio: «per il dottrinario democratico, il solo fatto che la maggioranza voglia qualcosa basta per considerare buono ciò che essa vuole; […] la volontà della maggioranza determina non solo cos’è la legge, ma altresì cos’è una buona legge». E ancora: «È per lo meno concepibile che sotto il governo di una maggioranza molto omogenea e dottrinaria il regime democratico possa essere oppressivo quanto la peggiore dittatura»28.

L’anarchia è un al di là del politico in un senso ulteriore, forse ancora più forte. Il politico, come l’economico, è una dimensione del sociale che si è resa «autonoma» e visibile rispetto all’insieme delle funzioni sociali a un «certo punto» della storia. In quanto tale è una creazione storica. La funzione politica, come la funzione economica, è sempre esistita, in qualche modo e misura, in ogni società, ma solo da alcuni secoli (a parte la parentesi ateniese) è stata vista, descritta, prescritta, studiata e praticata come forma a sé del sociale. Dopo Machiavelli, Hobbes, eccetera, ma soprattutto dopo l’illuministico disincanto del mondo e la desacralizzazione/risacralizzazione «mondana» del dominio.

Democrazia libertaria

Come l’economia, così anche la politica, quasi in contemporanea, è stata «autonomizzata» dal magma sociale nelle sue rappresentazioni immaginarie e istituzionali. L’economia ha addirittura cercato e cerca di spiegare il sociale secondo le proprie categorie (è l’impossibile, «utopica», impresa dell’ideologia capitalista) e di piegarlo alla propria «razionalità»29. La politica, più modestamente, ma non meno pericolosamente, ha cercato di spiegarsi «secondo se stessa». Per non parlare dei tentativi storicamente e ideologicamente non insignificanti di piegare a sé il sociale: il leninismo, ad esempio, e le sue forme terzomondiste più o meno contaminate, ma anche il fascismo: «Tutto nello Stato, nulla fuori e contro lo Stato», diceva Mussolini.

Ma l’economico, il politico, il giuridico, l’ideologico-religioso, ecc., sono per l’appunto funzioni della società, funzioni di un «corpo sociale» che non è economico, né politico, né… La consapevolezza dell’esistenza di diverse funzioni della fisiologia complessiva del corpo sociale è indubbiamente una conquista importantissima del sapere, anche del sapere necessario a trasformare radicalmente la società esistente; ma altrettanto importante è riconoscere e conoscere le strette connessioni, le interrelazioni tra le varie funzioni e organi.

La medicina «olistica» ha un senso progressivo solo dopo che l’anatomia o la fisiologia hanno identificato e studiato i vari processi del corpo umano, comprese le ancora poco note interrelazioni psicosomatiche. La concezione olistica può essere preziosa come un al di là dell’anatomia e della fisiologia. Come un al di qua, essa sarebbe magia o ciarlataneria.

L’anarchia, concezione «olistica» della società, non può che essere un al di là del politico (un al di là, non un ingenuo e primitivistico al di qua), così come dell’economico eccetera, in quanto dice che il sociale non è una somma aritmetica, una combinazione meccanica di politica, economia… ma un’organica interrelazione di funzioni politiche, economiche… Non può darsi democrazia vera nel politico se non ci sono soggetti politici socialmente eguali (o, se si preferisce, equivalenti). Non può darsi, così, democrazia politica senza democrazia economica: chiamiamola autogestione. E non c’è autogestione senza equivalenza dei soggetti economici, cioè senza integrazione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale…

Non è possibile una democrazia libertaria (per usare un neologismo più o meno sinonimo di anarchia possibile, di anarchia praticabile) se anche l’ethos della società, i suoi valori fondanti non sono anch’essi, almeno parzialmente, coerenti con la democrazia diretta e con l’autogestione, vale a dire con l’eguaglianza, la libertà, la solidarietà, la diversità intese in senso forte. In senso forte. Cioè l’anarchia o giù di lì. Come volevasi dimostrare.

A volte, mentre scrivevo o riscrivevo questo articolo, mi sembrava di trovarmi a risolvere il noto indovinello: come portare in barca al di là del fiume, lupo capra e cavolo, senza che il lupo mangi la capra e la capra mangi il cavolo. Non spiego la metafora, perché quei pochi cui è rivolto questo messaggio finale capiranno benissimo.

Note al capitolo

1. Cfr. Amedeo Bertolo, I fanatici della libertà, «Volontà», n. 3-4, 1996 [prima edizione ridotta in Il prisma e il diamante, L’Antistato, Torino, 1992].

2. Cfr. David Held, Modelli di democrazia, il Mulino, Bologna, 1989.

3. Cfr. Murray Bookchin, Democrazia diretta, elèuthera, Milano, 1993 [2015], e Held, op. cit. Per una discussione abbastanza ampia e benevolmente critica della democrazia diretta da prospettive non anarchiche (diciamo neo-marxiana l’una e liberal-socialista l’altra) si vedano il già citato Held e Norberto Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino, 1993.

4. Cfr. Held, op. cit.

5. Cfr. Bookchin, Democrazia diretta, cit.; Robert Dahl, La democrazia e i suoi critici, Editori Riuniti, Roma, 1990; Held, op. cit.; Giovanni Sartori, Democrazia. Cos’è, Rizzoli, Milano, 1993.

6. Berti, La dimensione libertaria di P.-J. Proudhon, cit., p. 77.

7. François Muñoz, Bakunin et la Liberté, Pauvert, Paris, 1965, p. 226.

8. Anche Malatesta, un quarto di secolo dopo, scrive che: «L’astensionismo per noi è una questione di tattica», pur aggiungendo che «è tanto importante che, quando vi si rinunzia, si finisce col rinunziare ai principi»; citato in Errico Malatesta e Francesco Saverio Merlino, Anarchismo e democrazia, La Fiaccola, Ragusa, 1974, p. 60.

9. Cfr. Amedeo Bertolo, Gli ex, il buon senso e l’utopia, «Volontà», n. 3, 1985.

10. Bakunin, Libertà, uguaglianza, rivoluzione, cit., p. 93.

11. Bakunin, Libertà, uguaglianza, rivoluzione, cit., p. 88.

12. Giampietro N. Berti, Francesco Saverio Merlino, Angeli, Milano, 1993, p. 414.

13. Gianpiero Landi, Socialismo liberale o socialismo libertario?, «A rivista anarchica», novembre 1994.

14. Eduardo Colombo, Lo Stato come paradigma del potere, «Volontà», n. 3, 1984.

15. René Lourau, Lo Stato incosciente, elèuthera, Milano, 1988.

16. Berti, La dimensione libertaria di P.-J. Proudhon, cit., p. 45.

17. Bertolo, Potere, autorità, dominio…, cit.

18. Murray Bookchin, L’ecologia della libertà, Antistato, Milano, 1984, elèuthera, Milano, 1988 [2017].

19. Come segnala Eduardo Colombo in Della polis e dello spazio sociale plebeo, «Volontà», n. 4, 1989, publicus («pubblico», in latino) deriva per contrazione da populicus, cioè «del popolo». Il che ci rinvia del tutto ovviamente alla democrazia.

20. Alan Ritter, L’individuo comunitario, «Volontà», n. 1, 1984.

21. Malatesta e Merlino, op. cit., pp. 42-43.

22. Bakunin, Libertà, uguaglianza, rivoluzione, cit., p. 92.

23. Si veda ad esempio Colombo, Della polis e dello spazio sociale plebeo, cit.

24. Cfr. Dahl, op. cit., che propone e contesta le critiche alla democrazia da vari punti di vista, compreso quello anarchico (anche se, a dire il vero, la critica «anarchica» è per lo più basata su un autore non anarchico: Robert Paul Wolff). Si veda anche Colombo, Della polis e dello spazio sociale plebeo, cit.

25. Veramente, Colombo dice che, secondo taluni ellenisti, il termine «democrazia» (introdotto nel lessico da nemici della democrazia) è improprio in quanto kratos ha un significato più di forza (esercitata da una parte della società sull’altra) che di autorità legittima. Perciò si dovrebbe più correttamente dire, rispettivamente, demarchia anziché democrazia e acrazia anziché anarchia; Colombo, Della polis e dello spazio sociale plebeo, cit.

26. Dahl, op. cit., pp. 75-76.

27. Bookchin, L’ecologia della libertà, cit.

28. Friedrich A. von Hayek, La società libera, citato in Dahl, op. cit., p. 314.

29. Luciano Lanza, Il mercante e l’utopista, «Volontà», n. 1-2, 1990

Fonte: Al di là della democrazia. L’anarchia, relazione scritta per il convegno internazionale di studi «El anarquismo ante la crisis de las ideologías», Barcelona, 1-3 ottobre 1993, poi pubblicata in «Volontà», n. 4, 1994.

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