capitolo primo

Potere, autorità, dominio: una proposta di definizione

Nel corso dei miei studi sulla tecnoburocrazia, sull’autogestione e sull’utopia1 mi si era posto il problema di una definizione del potere. Di volta in volta ne davo una definizione più o meno esplicita, funzionale al contesto della singola ricerca: si trattava però sempre di definizioni parziali e provvisorie, il cui scopo era limitato all’esigenza di evitare fraintendimenti di un discorso centrato su altri temi. Il problema di fondo restava aperto, anzi, per me sempre più aperto man mano che la riflessione procedeva in ampiezza e profondità (o quanto meno ero convinto che così procedesse).

Il fatto è che si trattava e si tratta, se non di sciogliere, quanto meno di mettere chiaramente a fuoco un nodo concettuale estremamente complesso (e non semplicemente di intendersi sulle parole), un nodo centrale al pensiero anarchico. Paradossalmente, l’anarchismo – che pure può essere considerato come la critica più radicale del dominio sinora esplicitata, critica teorica e critica pratica – non ha prodotto una teoria del potere più articolata e sottile delle apologie del dominio.

Alle geniali intuizioni sul potere dei «padri» dell’anarchismo non è seguita una riflessione adeguata all’importanza di quelle intuizioni. Intuizioni ancor oggi feconde, beninteso, ma rimaste per l’appunto poco più che intuizioni, dal punto di vista scientifico, e che dopo oltre cent’anni corrono per di più il serio pericolo (uso un trasparente eufemismo per amor di patria) di sclerotizzarsi in formule stereotipate, in credenze, in tabù, perdendo gran parte della loro utilità come fondamentali ipotesi di lavoro per l’interpretazione e la trasformazione della realtà. Le intuizioni si sclerotizzano e la relativa indeterminatezza terminologica e concettuale, inevitabile e forse necessaria ai primi sviluppi della riflessione, diventa ostacolo al procedere del pensiero e dell’azione, fonte insieme di ingiustificabili «ortodossie» e di altrettanto ingiustificabili «eresie», di immobilismo tradizionale e di sciocchezze innovative, di discussioni nominali e di impotenza sociale.

Può essere di una certa consolazione agli anarchici il sapere che anche la scienza ufficiale non ha fatto molta chiarezza, in quest’ultimo secolo, su quell’insieme di «cose» (relazioni, comportamenti, strutture sociali…) che sono inscatolate come potere (o come autorità o come dominio). Benché il potere sia non solo elemento centrale della critica anarchica all’esistente, ma anche elemento indiscutibilmente centrale di ogni sistema di pensiero sociologico e politico2, il concetto di potere è attualmente uno dei più controversi, ma nel contempo uno dei meno dibattuti, categoria pressoché rimossa dal campo di applicazione di quella sottigliezza analitica di cui vanno orgogliose le accademie. Se le analisi del potere sono sofisticate, lo sono più nel senso negativo di falsificazione che in quello positivo di affinamento.

Com’è facile appurare anche con una lettura affrettata di un po’ di letteratura in materia, c’è non solo una discreta confusione terminologica (un caso esemplare è quello di Weber, il cui termine Herrschaft è stato tradotto in italiano sia come potere sia come autorità), ma anche un’ampia indeterminazione concettuale. Inoltre, quanto all’interpretazione-giustificazione delle funzioni e della genesi del potere, le accademie non sembrano essere andate molto oltre Hobbes o Locke, o addirittura Platone e Aristotele.

La consolazione però è magra. In primo luogo, perché la scienza dominante può ben permettersi il lusso di essere poco convincente sul piano puramente logico, perché ha dalla sua la forza delle cose, cioè dell’esistente e dell’immaginario inconscio che su di esso è strutturato e lo struttura. In secondo luogo, una certa confusione le è funzionale proprio perché rende difficile, se non impossibile, l’identificazione teorica e la distruzione pratica del dominio sociale. Al contrario, il pensiero anarchico deve fare la massima chiarezza, se vuole, come vuole, essere scienza sovversiva, cioè strumento per conoscere e capire e sovvertire l’esistente.

Il presente scritto propone alcune definizioni che secondo l’autore potrebbero rendere non solo più proficuo il dibattito tra anarchici ma anche meno arduo il confronto tra anarchici e non anarchici, che rischia altrimenti di restare per sempre un dialogo tra sordi. Apparirà chiaro che il lavoro di definizione si è rivolto non tanto ai termini quanto ai concetti che stanno dietro ai termini e ai contenuti che stanno dietro ai concetti. Mi spiego. Il segno grafico (e vocale) «casa» può segnalare il concetto «ricovero artificiale», ma dietro questo concetto i contenuti possono variare dalla capanna al grattacielo. In questa sede, tuttavia, mi limiterò a una definizione per grandi categorie di contenuti (e di concetti), funzionale a una prima, provvisoria risposta al seguente quesito: dietro a ciò che si etichetta come potere quanto c’è di funzioni sociali universali e quanto c’è di funzioni proprie di un rapporto di dominio?

È consuetudine, non solo accademica, iniziare un discorso di definizione semantica con 1) un approccio etimologico e/o 2) un approccio storico. Nel caso specifico entrambi ci sarebbero di scarsa utilità. L’etimologia dei tre termini da noi considerati è troppo lontana nel tempo per essere più che archeologia linguistica, e inoltre due dei tre termini da noi considerati hanno un significato originario pressoché simile3. Quanto all’uso storico degli stessi termini, esso rivela una polivalenza e una reciproca intercambiabilità nel tempo tale da renderne l’analisi irrilevante ai nostri fini4.

Assai sinteticamente, tutto ciò che possiamo ricavare e dall’origine e dall’impiego nel corso del tempo – in contesti socio-economici diversi – delle parole-chiave di questa riflessione è che, se immaginiamo uno spettro di significati che va da un polo positivo a un polo negativo, con riferimento ai valori (anarchici, ma non solo) della libertà e dell’eguaglianza, il termine «autorità» si colloca per lo più in posizione mediana di neutralità, il termine «dominio» si colloca prevalentemente verso il polo negativo e il termine «potere» copre tutto lo spettro, grazie alla sua peculiare polisemia che ne fa variare l’impiego tra il «poter fare» e il «poter far fare».

Di utilità altrettanto scarsa, ai nostri fini, è un esame dell’uso dei tre termini da parte degli anarchici (certamente di maggiore utilità è un esame dei concetti e dei contenuti sottostanti). Sia nei testi classici sia nei testi contemporanei, sia nelle riflessioni sia nella propaganda, potere/autorità/dominio sono usati per lo più come sinonimi (e dunque con attribuzione negativa).

Una qualche diversificazione tra autorità e potere, più o meno esplicita, è probabilmente identificabile, è vero. Ma non univoca. Ad esempio, per Proudhon il potere è forza collettiva mentre l’autorità è alienazione, appropriazione monopolistica di questa forza collettiva5 (ma usa anche il termine «potere politico» per definire questa espropriazione di potenza sociale). Per Proudhon, dunque, autorità sarebbe termine negativo, mentre potere sarebbe o potrebbe essere termine neutrale. Al contrario, Bakunin riconosce un’autorità «neutrale»6. E addirittura – dai classici ai contemporanei – Baldelli attribuisce un significato decisamente positivo alla parola «autorità»7, che egli impiega per lo più nel senso di influenza morale e intellettuale. Un poco (ma non molto) più significativo è l’esame dell’uso contemporaneo dei tre termini sia nel linguaggio comune sia nel linguaggio scientifico.

Nel linguaggio comune i due aggettivi «autorevole» e «autoritario» segnalano l’uso sia positivo sia negativo del sostantivo autorità da cui derivano, sostantivo che può indicare sia un ruolo politico di potere sia una particolare competenza o un’eccellenza morale. Sempre nel linguaggio corrente il termine «potere» copre tutto l’arco compreso tra la capacità di essere o fare e la struttura sociale gerarchica. Solo la parola «dominio» è quasi univocamente utilizzata nel senso del potere di imporre ad altri (de jure o de facto) la propria volontà, con strumenti coercitivi, fisici o psichici. Anche nel linguaggio delle scienze sociali il termine «dominio» (e gli aggettivi e verbi correlati) appare meno polivalente di autorità e potere. Esso, forse proprio per la diffusa valenza emotiva negativa che ha nell’uso corrente, viene raramente impiegato oppure impiegato con esplicito giudizio di merito, negativo per l’appunto8. Quanto alle definizioni di autorità e potere, ce n’è un po’ per tutti i gusti. Ciò che taluno chiama autorità, altri lo chiamano influenza o prestigio, oppure – con altri contenuti – ciò che taluno chiama autorità, altri lo chiamano potere o potere legittimo o formale…9

È dunque a nostro avviso necessario riprendere il tentativo di definizione a partire da un’identificazione dei concetti e dei contenuti, anche se, naturalmente, questo procedere implica alcune difficoltà lessicali, che cercheremo di superare a volte con un uso intuitivo (nel contesto) di alcuni termini, a volte con perifrasi più o meno eleganti, a volte anticipando nell’uso definizioni successive. Farò anche largo uso di «banalità», cioè di concetti dati per scontati dagli anarchici oppure risaputi e ampiamente accettati nell’ambito del pensiero scientifico e filosofico non anarchico: dalla combinazione inconsueta di banalità diverse può uscire qualcosa di nuovo.

Prendiamola alla larga (ma solo apparentemente). La libertà individuale, intesa come possibilità di scelta tra comportamenti alternativi, non è mai (non è mai stata né potrà mai essere) illimitata. Essa opera in presenza di limiti e vincoli, naturali e culturali. La scelta può solo avvenire tra possibilità determinate. Su questo concordano persino quei fanatici della libertà che sono gli anarchici (con l’eccezione forse – ma più apparente che reale – di qualche forsennato individualista). Questa definizione è tuttavia incompleta e ci rimanda subito a un più alto livello di libertà, paradossalmente proprio attraverso l’attribuzione di vincoli determinanti al comportamento individuale.

Mi spiego. Non mi interessano, qui, i limiti naturali (interni ed esterni) perché essi, per l’appunto, delimitano il campo delle possibilità più che determinare il comportamento e perché sono comunque irrilevanti per il presente discorso. Certo, ad esempio la fisiologia e l’anatomia limitano la frequenza e le forme degli accoppiamenti, ma tutte culturali sono le determinazioni che, entro quei limiti, possono indurre (e inducono) specifici modelli di comportamento erotico. Mi spiego con un altro esempio: nel gioco degli scacchi, la scacchiera può esemplificare i limiti naturali (in realtà, le sessantaquattro caselle sono ovviamente un limite artificiale, fanno parte delle regole, ma immaginiamocele come date dalla natura); le regole del gioco rappresentano la determinazione culturale (l’alfiere può muoversi soltanto in diagonale, ecc.); le mosse dei giocatori esprimono la libertà come scelta fra possibilità determinate.

Ciò che qui mi interessa prendere in considerazione sono appunto le determinazioni culturali. I due elementi che per interazione determinano, in misura varia ma sempre ampia, il comportamento animale, gli istinti e l’ambiente, non giocano un ruolo analogo in quello strano animale che è l’uomo. L’uomo non conosce istinti in senso proprio (cioè risposte comportamentali precise e specifiche, ereditate geneticamente, a dati stimoli ambientali), ma al più tracce o residui di istinto, di scarso o nullo significato sociale, come l’istinto del neonato a succhiare, oppure pseudo-istinti come l’istinto sessuale, che è in realtà un bisogno, le forme della cui soddisfazione (cioè i comportamenti, cioè una complessa sequenza di atti) non sono determinate. Per l’uomo, inoltre, l’ambiente è assai più culturale che naturale, non solo e non tanto nel senso che egli ha trasformato e trasforma la natura, quanto nel senso che l’ambiente dell’uomo è fatto soprattutto di relazioni con altri uomini e che anche le relazioni con il mondo delle «cose» passano attraverso la mediazione simbolica.

L’uomo ha perso, lungo il cammino evolutivo di ominizzazione, le determinazioni istintuali e le ha sostituite con determinazioni culturali, cioè con norme, regole, codici di comunicazione e di interazione. Proprio in questa sostituzione sta la specifica libertà umana al suo più alto livello: l’autodeterminazione. Infatti le determinazioni culturali non vengono date all’uomo (da dio o dalla natura), è l’uomo che se le dà. Le norme non sono semplice riflesso di necessità naturali, ma creazione di necessità arbitrarie. Cioè, la produzione di norme è necessaria perché scritta nella natura umana (nella paradossale libertà dell’uomo che gli impone di autodeterminarsi), ma non sono necessari i singoli contenuti delle norme stesse. L’uomo deve produrre norme ma può produrre le norme che vuole.

La produzione di norme è, dunque, l’operazione centrale, fondante della società umana, è produzione di socialità e per ciò stesso di «umanità», poiché l’uomo non esiste in quanto uomo se non come prodotto culturale, cioè come prodotto sociale.

La funzione di creare e ricreare continuamente socialità inventando e trasmettendo e modificando norme è per definizione una funzione collettiva (del genere umano, cioè concretamente dei gruppi e sottogruppi che lo costituiscono). Per definizione, come non esiste un codice individuale di comunicazione, così non esiste una norma individuale di interazione sociale. Perciò, nel momento stesso in cui la determinazione culturale definisce la più alta espressione della libertà dell’uomo, la facoltà di autodeterminarsi, essa apre anche una permanente asimmetria tra l’individuo e la collettività, per cui il singolo è comunque e sempre più determinato dalla società di quanto possa determinarla. L’uomo produce collettivamente la società, ma ne è individualmente modellato.

La produzione di norme implica del tutto ovviamente l’applicazione delle norme stesse (una regola non applicata non è una regola). D’altro canto, poiché la norma non possiede di per sé la forza necessaria dei meccanismi biochimici istintuali, né basta normalmente il consenso generale (peraltro non frequente se non per talune norme e in talune società molto omogenee e statiche) a darle questa forza necessitante, interviene la sanzione a rendere l’adesione alla norma per lo meno statisticamente probabile se non certa e universale. Ogni gruppo e sottogruppo umano produce così modelli di comportamento e correlatamente sanzioni per indurre i membri a conformarvisi, sanzioni tanto più severe quanto più la norma che ne viene tutelata è considerata fondamentale per il gruppo.

Le sanzioni, come osservano Lasswell e Kaplan, sono severe «nei termini dei valori prevalenti nella cultura del gruppo preso in considerazione. Non v’è dubbio che la violenza rappresenti un caso estremo di severità delle sanzioni, tuttavia in molte situazioni il disonore – vale a dire il ritiro drastico del rispetto – può avere un ruolo anche più importante». Una sanzione è severa, cioè, se è concepita come tale nell’immaginario collettivo del gruppo considerato. Lo stesso vale, naturalmente, per la gravità dell’infrazione. È noto che lo stesso comportamento può essere diversamente giudicato in diversi contesti culturali e diversamente sanzionato. Un rutto rumoroso può essere considerato infrazione lieve e sanzionato con una blanda disapprovazione o essere considerato infrazione grave e può dar luogo a una sanzione relativamente severa (ad esempio l’espulsione da un club esclusivo), oppure al contrario può essere giudicato positivamente e dar luogo a una sanzione positiva (risate, compiacimento…). Bisogna infatti tener presente che vi sono anche sanzioni positive (riconoscimento sociale, stima) che rafforzano comportamenti approvati, oltre alle sanzioni negative che scoraggiano i comportamenti disapprovati. Anzi, è concepibile, per lo meno teoricamente, una società in cui la determinazione dei comportamenti individuali avvenga solo grazie all’uso di sanzioni positive (si potrebbe però, in questo caso, ipotizzare che l’assenza di sanzioni positive costituisca sanzione negativa).

La produzione e l’applicazione di norme e di sanzioni definiscono dunque la funzione regolativa sociale, una funzione per la quale propongo il termine potere10.

Abbiamo così definito il potere come una funzione sociale «neutrale» e comunque necessaria non solo all’esistenza della società, della cultura e dell’uomo stesso, ma anche all’esercizio di quella libertà come scelta tra possibilità determinate da cui era partito il nostro discorso. L’assenza di determinazioni culturali significherebbe infatti un vuoto insensato (nel significato letterale di privo di senso), in cui non ci sarebbe scelta ma pura casualità. La libertà come scelta può esercitarsi solo in presenza di determinazioni, così come l’attrito dell’aria è necessario al volo degli uccelli.

Il fatto, tuttavia, che il comportamento umano non possa essere assolutamente indeterminato (ma neppure, per fortuna, assolutamente determinato)11 e che la determinazione culturale del comportamento umano sia non solo inevitabile ma espressione a sua volta di libertà, non significa che modi e contenuti della funzione regolativa sociale siano neutrali rispetto alla libertà stessa. È di importanza fondamentale, per la libertà come scelta, l’ampiezza delle maglie della «griglia» di determinazione e la sua elasticità e modificabilità, perché l’individuo è tanto più libero, in questo senso, quanto maggiore è il rango delle possibilità lasciate aperte dalla griglia. Ed è di importanza altrettanto fondamentale, per la libertà come autodeterminazione, il livello di partecipazione al processo regolativo, perché l’individuo è tanto più libero, in quest’altro senso, quanto più ha accesso al potere. Un eguale accesso di tutti i membri di una società al potere è, dunque, prima ineludibile condizione di un’eguale libertà per tutti. Condizione necessaria a una libertà eguale, ma non sufficiente, come si è detto, a un alto livello di libertà di ciascuno. Il potere può ben essere opprimente per tutti in egual maniera e restare opprimente. Si hanno esempi di società primitive in cui grosso modo c’è eguale accesso al potere, ma in cui le determinazioni comportamentali sono talmente pervasive e/o tradizionalmente immodificabili da creare una situazione di totalitarismo sociale diffuso.

Una situazione di «potere eguale per tutti» è non solo concepibile ma anche effettivamente documentata da più di una ricerca antropologica. È ben lungi tuttavia dal costituire l’ordinarietà, geograficamente e storicamente. La situazione di gran lunga più comune è costituita dai sistemi sociali in cui la funzione regolatrice non viene esercitata dalla collettività su se stessa, ma da una parte della collettività (generalmente, ma non necessariamente, da una piccola minoranza) su un’altra (generalmente la grande maggioranza); dai sistemi cioè in cui l’accesso al potere è monopolio di una parte della società (individui, gruppi, classi, caste…).

Si ha qui un’altra categoria concettuale che potremmo chiamare dominio. Il dominio definisce così le relazioni tra ineguali, ineguali in termini di potere, cioè di libertà; definisce le situazioni di sovraordinazione/subordinazione; definisce i sistemi di asimmetria permanente tra gruppi sociali.

La relazione di dominio si concretizza tipicamente in rapporti di comando/obbedienza, in cui per l’appunto il comando ha un contenuto regolativo del comportamento di chi obbedisce. Il rapporto comando/obbedienza non si dà per la funzione regolativa in sé, si badi. Non si obbedisce, in senso proprio, a una norma (ad esempio alla norma di non uccidere o di guidare i veicoli sul lato destro della strada); ci si attiene a una norma. Si obbedisce a un comando, cioè alla forma con cui si presenta la norma in un sistema di dominio. Il fatto che si immagini il rispetto della norma in termini di obbedienza è per l’appunto un effetto dell’espropriazione della funzione regolativa da parte di una minoranza che deve imporre la norma al resto della società: tanto più deve esplicitamente imporla, quanto meno vi è partecipazione, reale o fittizia, al potere.

Se la norma sociale, affinché la determinazione culturale possa dare regolarità e prevedibilità, oltre che senso, al comportamento, ha per sua natura un contenuto coattivo, se cioè i comportamenti socialmente rilevanti vi si devono adeguare perché di norma sociale si possa parlare, essa diventa coercitiva in situazioni di dominio, cioè imposta e articolata in una catena gerarchica di subordinazione, lungo cui si distribuisce una regola generale: il comando/obbedienza, come rapporto sociale fondamentale.

«Sin dalle origini» scrive Clastres in La società contro lo Stato, «la nostra cultura pensa il potere politico in termini di relazioni gerarchiche e autoritarie di comando/obbedienza. Ogni forma, reale o possibile, di potere è, per conseguenza, riducibile a questa relazione privilegiata che ne esprime a priori l’essenza» (p. 16). Ma: «Se vi è cosa affatto estranea a un amerindio è l’idea di impartire un ordine o di dovervi obbedire, fuorché in circostanze particolari» (p. 13). «Il modello del potere coercitivo non è dunque accettato che in circostanze eccezionali, quando il gruppo deve affrontare una minaccia esterna […]. Il Potere normale, civile, fondato non sulla costrizione, ma sul consensus omnium, è così di natura profondamente pacifica» (p. 27).

Anche Evans-Pritchard ci descrive una cultura – i Nuer del Basso Sudan – dove l’obbedienza non è concepita, dove il comando è un’offesa, dove nessuno obbedisce a nessuno. Si tratta, non certo a caso, di società in cui la funzione regolativa è funzione collettiva, dove «la parola del capo non ha forza di legge», dove il capo può essere arbitro ed esprimere un’opinione «autorevole», ma non può essere giudice e applicare sanzioni. E anche gli Amba, di cui si occupa Dahrendorf12 nel tentativo di dimostrare l’universalità delle «strutture di autorità» (laddove per strutture di autorità intende, con una disinvoltura che contraddice la sua consueta accuratezza, sia ciò che ho chiamato potere sia ciò che ho chiamato dominio), dimostrano – come i Nuer, i Tupinamba, i Guaraní… – proprio la non universalità del dominio, dimostrano che la funzione regolativa non deve necessariamente assumere la forma coercitiva della gerarchia e del rapporto comando/obbedienza13.

Il dominio, come si è detto, è possesso privilegiato del potere. I detentori del dominio si riservano il controllo del processo di produzione di socialità, espropriandone gli altri. Il fenomeno è simile al possesso privilegiato dei mezzi di produzione materiale (e a questo è spesso, seppure non necessariamente, connesso)14, ma ancora più grave, perché riguarda la natura stessa dell’uomo: il dominio è negazione di umanità per tutti gli espropriati, per tutti gli esclusi dai ruoli dominanti della struttura sociale.

Il potere inteso come funzione regolativa della società non è l’unica forma di determinazione culturale dei comportamenti. C’è tutta una vasta gamma di relazioni asimmetriche tra gli individui, in cui talune scelte comportamentali sono in tutto o in parte determinate da opinioni o decisioni altrui cui viene attribuito un peso particolare, un peso determinante per l’appunto.

Si tratta di relazioni sia personali sia funzionali, intendendo per personali quelle in cui i soggetti interagiscono in quanto persone, per funzionali quelle in cui i soggetti interagiscono in base a ruoli che definiscono funzioni sociali (la distinzione, al solito, è in parte arbitraria, in quanto tutte le relazioni personali sono in qualche misura anche interazioni di ruoli e viceversa). Nel caso delle relazioni personali possiamo definire l’asimmetria come influenza, nel caso delle relazioni funzionali possiamo definire l’asimmetria come autorità.

Nel primo caso l’asimmetria è attribuibile a differenze individuali di ordine caratteriale, morale, intellettuale tali per cui una personalità risulta in qualche modo più «forte» di un’altra e l’influenza più di quanto non ne sia influenzata15.

Nel secondo caso vi è una sorta di delega decisionale legata ad aspettative di ruolo, giustificata (esplicitamente o implicitamente) dalla «competenza». Questo termine, nella sua ambivalenza (significa sia capacità sia ambito decisionale), si attaglia bene al carattere ambivalente dell’asimmetria di capacità e di facoltà decisionali tipici di una complessa divisione sociale del lavoro in funzioni e ruoli differenziati16.

Ora, sia l’influenza sia l’autorità, così definite, non implicano necessariamente un’asimmetria sociale permanente. È perfettamente immaginabile un sistema sociale in cui da una molteplicità di singole relazioni asimmetriche risulti per ogni soggetto un equilibrio complessivo a somma zero di influenza e di autorità (o quanto meno di quest’ultima che è più prossima concettualmente al potere e perciò virtualmente al dominio). L’asimmetria genitore/figlio si ricompone per ogni individuo, nell’arco della vita, in un ciclo egualitario; l’asimmetria delle competenze professionali può ricomporsi per gli individui che esercitano le varie professioni nel complesso delle prestazioni reciproche; una funzione di coordinamento può essere svolta a rotazione… L’autorità della competenza non nega la libertà di chi volontariamente e criticamente l’accetta, può anzi esserle complementare, evitandone la dispersione in mille rivoli insignificanti: semplificando un gran numero di scelte individuali consente di «concentrare» la libertà sulle scelte ritenute veramente importanti dall’individuo (da lui e non da altri per lui, beninteso). Analogamente, non partecipare o partecipare passivamente per propria scelta a taluni processi decisionali sociali (che è cosa diversa dall’esserne esclusi) consente di partecipare appieno a quei processi decisionali che più ci interessano.

È vero, tuttavia, che in una società in cui la divisione del lavoro sociale sia organizzata in modo gerarchico esiste necessariamente una corrispondente gerarchia di autorità e dunque un’asimmetria permanente tra i detentori dei diversi ruoli. Ed è anche vero che taluni ruoli sono «autoritativi» in quanto articolazioni del potere sociale regolativo, e dunque, in un sistema di dominio, sono articolazioni gerarchiche del dominio stesso e perciò «per definizione» permanentemente asimmetriche. Così le diversità di ruolo diventano diseguaglianze sociali.

Allo stesso modo, la presenza del dominio come categoria centrale dell’immaginario sociale determina permanenti asimmetrie di influenza, in quanto anche le relazioni personali vengono concepite in termini gerarchici di dominio. Così anche le diversità individuali rinviano alla diseguaglianza sociale.

Dunque, quel genere di relazioni che abbiamo qui chiamato influenza e autorità possono essere categorie «neutrali» in astratto, ma nel concreto delle società di dominio esistenti si caricano di una valenza più o meno accentuata di dominio e anch’esse perciò spesso si modellano di fatto in rapporti di comando/obbedienza.

Riassumendo. Ho identificato quattro categorie concettuali che nel linguaggio corrente e scientifico sono o possono essere tutte coperte da uno stesso termine: potere. Ho proposto di conservare questo termine solo per definire la prima categoria identificata: la funzione regolativa sociale, l’insieme dei processi cioè con cui una società si regola producendo norme, applicandole, facendole rispettare. Se questa funzione viene svolta da una parte soltanto della società, se il potere è cioè monopolio di un settore privilegiato (dominante), esso dà luogo a un’altra categoria, a un insieme di relazioni gerarchiche di comando/obbedienza che propongo di chiamare dominio. Propongo, infine, di chiamare autorità le asimmetrie di competenza che determinano asimmetrie di determinazione reciproca tra gli individui e influenza le asimmetrie dovute a caratteri personali.

Ripeto che quello che mi interessa non è la parte terminologica, formale, della proposta definitoria, ma la parte sostanziale, di identificazione concettuale. Non è tanto importante il nome che diamo ai colori (anche se per intenderci rapidamente e senza tante perifrasi è utile anche accordarci sui nomi) quanto il concordare sull’esistenza di colori diversi, corrispondenti a diverse fasce di frequenza della banda visibile della luce.

Quello che propongo è una prima differenziazione e identificazione di quattro gruppi di contenuti, funzionali a un’analisi generale dei fenomeni sociali. Ulteriori o diverse differenziazioni (corrispondenti a varie forme e contenuti del potere, del dominio, dell’autorità) sono necessarie per analisi particolari e/o più approfondite, naturalmente, ma per un primo approccio anarchico al problema credo che le quattro categorie proposte possano essere sufficienti.

Necessaria in ogni caso mi pare la differenziazione tra la categoria che ho chiamato potere e quella che ho chiamato dominio. È una differenza qualitativa fondamentale che gli anarchici, più o meno chiaramente, hanno sempre percepito (quando ad esempio distinguono tra società e Stato): sta qui, anzi, il nocciolo dell’intuizione centrale al loro pensiero. Non sempre però nell’analisi hanno saputo esplicitare questa differenza, identificando chiaramente le due categorie concettuali. Questo ha portato gli anarchici ad aberrazioni teoriche e pratiche rilevanti, in opposte direzioni (ad esempio a teorizzare e praticare il rifiuto di ogni norma e di ogni sanzione oppure – come durante la Rivoluzione spagnola, con la partecipazione al governo repubblicano – a praticare e semi-teorizzare il dominio).

I pensatori non anarchici si sono in genere dimostrati incapaci anche di percepire la differenza tra potere e dominio e comunque non hanno saputo o voluto esplicitarla in una differenziazione concettuale e terminologica. Ma questo, come dicevamo, non è in loro un difetto, data la loro funzione istituzionale di razionalità interna a un’ideologia di dominio.

È una proposta di identificazione concettuale, dicevo, quella che ho qui fatto assai più che una proposta di definizione terminologica. E dunque vorrei che la discussione che ne nascerà – se nascerà, come spero vivamente – riguardi più i concetti che i termini. Mi piacerebbe che si analizzassero criticamente i contenuti e i concetti delle categorie proposte e che mi si contestasse, ad esempio, che se una norma deve essere sorretta da sanzioni severe non è semplice potere ma ha natura di dominio, oppure che è inutile – a questo stadio della riflessione – distinguere tra ciò che ho chiamato influenza e ciò che ho chiamato autorità; oppure che sarebbe utile distinguere le asimmetrie di capacità effettiva da quelle di competenza formale…

Tuttavia vale la pena, credo, di spendere qualche parola anche sulla proposta terminologica, che si presenta delicata, tra anarchici, in quanto uso due etichette (potere e autorità) che per gli anarchici non sono neutrali, per concetti e contenuti che sono – o meglio, che a me sembrano – neutrali. Come dicevo in apertura di questo scritto, gli anarchici usano i termini «potere», «dominio» e «autorità» – soprattutto i primi due – come sinonimi e con ovvia connotazione negativa (stanno per quella «-archia» che essi negano e combattono).

Perché allora proporre un uso anarchicamente neutrale di potere e autorità? Un po’ a scopo provocatorio, per indurre cioè a una maggiore attenzione alla sostanza del discorso con un piccolo scandalo lessicale, per sottolineare quella che mi pare una novità concettuale con una novità linguistica. Poi perché mi pare assurdo che il nostro linguaggio, il linguaggio anarchico, abbia tre termini per un solo concetto e nessuno per altri due. Ma soprattutto perché, in ciò che sia il linguaggio specialistico sia il linguaggio comune definisce come potere e come autorità, credo che ci sia proprio quello che ho precedentemente definito come potere e come autorità, più il dominio. Se cioè al potere e all’autorità togliamo il dominio, facendone una categoria a parte, concettualmente ben distinta, anche se in tutte le società esistenti (tranne forme residuali di società primitive) di fatto sovrapposta alle altre due, restano per l’appunto quei tipi di relazioni che ho proposto di chiamare potere e autorità.

D’altronde, nessun anarchico userebbe positivamente il termine «impotenza» (politica, sociale, economica…) come sinonimo di assenza di dominio, perché il potere di cui si segnala l’assenza con questa parola ha la connotazione positiva di «poter fare», di esercitare la propria libertà17. E sono certo che a gran parte degli anarchici non suona eretica l’espressione «potere di tutti»18, perché in questo caso si intende per potere la facoltà decisionale individuale e/o la partecipazione ai processi decisionali sociali…

Lasciamo la questione nominale e torniamo alla questione sostanziale. Qual è l’utilità per il pensiero anarchico della definizione concettuale proposta?

Essa (o un’altra definizione che comunque distingua due-tre-dieci colori in quella banda indifferenziata o malamente differenziata che è il potere) consente di meglio concepire ed esprimere la negazione centrale della filosofia anarchica (cioè dell’interpretazione anarchica del mondo) e dunque anche della sua affermazione centrale, del valore fondante: la libertà. Poi, questa definizione consente di formulare meglio un’infinità di problemi della scienza anarchica, della scienza che studia sia le «leggi» (le uniformità, i rapporti che si ripetono costantemente, i nessi causali, le condizioni necessarie) del dominio sia le «leggi» della libertà.

Facciamo solo alcuni esempi.

In politica essa consente di pensare con maggior chiarezza allo scarto tra la norma e la legge, di evidenziare la diversità sostanziale tra la libertà dei liberali e la libertà degli anarchici, di analizzare i processi decisionali sociali, di arricchire criticamente tutto il «già-detto» su assemblea, rotazione degli incarichi, delega, mandato revocabile, ecc. Anzi, non è forse eccessivo ritenere che questa definizione, o comunque una definizione che distingua la funzione regolativa dal suo possesso privilegiato, sia addirittura necessario punto di partenza per pensare a una scienza politica anarchica. Non è certo un caso che gli anarchici abbiano generalmente rifiutato la politica, ritenendola scienza e pratica del potere e identificando il potere con il dominio (questa sovrapposizione è, del resto, la regola delle società esistenti).

In sociologia, questa definizione può servire a distinguere meglio tra diversità e diseguaglianza di individui, ruoli e categorie sociali; può essere utile per individuare i meccanismi e le istituzioni del dominio, enucleandoli o differenziandole dalle strutture del potere; può mettere in una nuova luce le forme e i contenuti della cooperazione e della conflittualità.

In economia, questa definizione consente di formulare meglio il potere (e il dominio) economico come forma particolare del potere (e del dominio) sociale. Essa consente di concepire il potere economico come distinto dal dominio economico e quindi di meglio distinguere tra leggi economiche generali, leggi economiche comuni a tutte le società di dominio, leggi economiche proprie delle singole società di dominio.

In psicologia, questa definizione consente di distinguere tra asimmetrie individuali inevitabili e asimmetrie evitabili, tra differenze personali e di ruolo (positive o neutrali in termini di libertà) e diseguaglianze negatrici di libertà. Essa consente di studiare meglio la «personalità libertaria» e la «personalità autoritaria»19. Essa consente forse di capire più facilmente perché il messaggio anarchico risulti incomprensibile, tranne che in periodi eccezionali, alla maggior parte delle persone, perché lo «spirito di rivolta» kropotkiniano sia abitualmente meno forte del conformismo sociale.

In pedagogia, questa definizione può forse consentire di risolvere la contraddizione tra autorità dell’adulto e libertà del minore20 e di capire perché la permissività, intesa come anomia tollerata, non è più idonea all’educazione libertaria, cioè al processo di costruzione della personalità libertaria, di quanto lo sia la disciplina imposta coercitivamente.

Eppoi (sia detto tra anarchici), quante nostre inutili diatribe si potrebbero evitare, quante liti tra sordi potrebbero risolversi in confronto razionale! Si pensi solo alla ricorrente discussione sull’organizzazione anarchica in cui da un secolo l’incomprensione nominale ha almeno altrettanto rilievo del disaccordo sostanziale…

Fra i numerosi quesiti che la mia proposta può forse contribuire se non a risolvere per lo meno a formulare meglio o comunque diversamente (e di cui ho dato diversi esempi nel paragrafo precedente, riferendoli ai diversi settori di conoscenza in cui convenzionalmente vengono suddivise le scienze dell’uomo e della società), ce n’è uno che quasi inevitabilmente si pone nel corso di qualunque riflessione sul potere e che, in particolare, si propone da sé in più di uno dei passaggi logici del processo di identificazione e di definizione da me seguito. Qual è la genesi del potere? Come, perché, quando nascono potere, autorità, dominio?

Secondo la distinzione definitoria che ho proposto, il quesito in realtà si pone solo per il dominio. Per l’autorità e per il potere la risposta è implicita nelle rispettive definizioni. Se partiamo dall’assunto antropologico che l’uomo è privo di determinazioni istintuali e che viceversa, grazie a una peculiare evoluzione del suo organo cerebrale, è in grado di produrre un universo normativo simbolico, ne discende che la funzione regolativa culturale è per lui insieme possibile ed essenziale21. Allo stesso modo, nella mia definizione, l’autorità discende come corollario dal postulato che la società si articoli in ruoli funzionali (si potrà discutere su questo, ma non su quella, oppure si potrà discutere sulla definizione).

Quello che invece non trova fondamento necessario nella natura dell’uomo e della sua società è il dominio. È perciò la sua genesi che, all’interno della mia definizione, si pone come problema.

Vediamo, innanzi tutto, quali soluzioni hanno proposto i pensatori non anarchici. Come si è già detto, essi non fanno una chiara distinzione tra potere e dominio. Quand’anche accennano a una differenziazione concettuale, è per essi automatico – non necessario di dimostrazioni – il passaggio dall’uno all’altro: spesso il passaggio è dal dominio al potere (cioè il contrario del mio procedere logico); per pochi soltanto si va dal primo al secondo, ma anche per loro in modo indiscusso, per cui l’uno e l’altro nascono assieme: dalla necessità dell’uno discende la necessità dell’altro.

Prendiamo in considerazione quelle che, nel corso delle mie letture, mi sono sembrate le spiegazioni esemplari dei principali approcci giustificativi del dominio. Un primo tipo di approccio è quello che, procedendo dal dominio al potere, giustifica il primo con motivazioni bio-psicologiche (cioè di meccanismi psicologici «naturali», innati): ci sono personalità naturalmente portate al dominio e ci sono personalità naturalmente portate alla soggezione22. Dopo la posa di questa prima pietra del loro edificio teorico, gli apologeti del potere-dominio si affrettano a ricoprirla con elementi strutturali più accattivanti e ci viene detto che la suddivisione «naturale» degli uomini in due categorie (di padroni tendenziali e di tendenziali schiavi) produce benefici effetti per entrambi ed è in fondo un mirabile artificio della natura o della provvidenza per rendere possibile la società umana e i vantaggi che ne derivano23. Riconducibile a questo tipo di approccio è anche la spiegazione di Sennet, che però parte formalmente dall’influenza per risalire, attraverso l’autorità, al potere e al dominio24.

Il secondo tipo di approccio è quello culturale, di cui mi sembra esemplare Dahrendorf, il quale ritiene insostenibile ogni spiegazione «naturale» del potere-dominio: non questo è effetto di una diseguaglianza pre-esistente, al contrario esso è causa della prima diseguaglianza fondamentale tra gli uomini. Sennonché, non distinguendo tra potere e dominio, deriva logicamente la necessità del dominio dalla necessità del potere (che lui chiama autorità), cioè della funzione regolativa: per lui la funzione regolativa e il suo possesso privilegiato sono tutt’uno25.

Gli approcci al problema della genesi del potere-dominio si possono anche classificare da un altro punto di vista: quelli che esplicitamente o implicitamente lo presuppongono coevo all’uomo e/o alla sua società e quelli che ne postulano la nascita a un certo punto della storia; e curiosamente (per delle teorie che identificano potere e dominio) non è in genere il potere-dominio che compare, ma è il solo dominio quello che irrompe in uno spazio sociale non meglio definito o definito come stato di natura26.

Come si pone il problema della genesi del dominio nella logica della mia ipotesi definitoria? Poiché tutto, in quella logica, muove dal postulato della plasticità culturale dell’uomo, ne vengono a essere escluse tutte le ipotesi basate su elementi bio-psichici innati quali «volontà di dominio», «istinto di dominazione», ecc. (e, necessaria controparte, propensione all’obbedienza, volontà di sottomissione, ecc.). Nella prospettiva di autodeterminazione culturale dell’uomo, i suoi modelli di comportamento non sono scritti nella sua natura: quelli gregaristico-autoritari non più di quelli anarchici. (Con quest’ultima affermazione non voglio dire che non sia possibile un’interpretazione «naturalistica» dell’anarchismo, che anzi è stata piuttosto diffusa, un anarchismo che postula la naturale bontà dell’uomo, nel senso di una naturale potenzialità autoregolativa della società umana, che non necessita di determinazioni normative. Anche questo anarchismo, tuttavia, non può spiegare naturalisticamente, ma solo culturalmente, cioè come invenzione dell’uomo, il dominio).

Secondo un’interpretazione tutta culturale dell’uomo, non stupisce che in situazioni culturali di dominio si trovino tratti caratteriali modellati sul e per il dominio. E non stupisce neppure il non trovare quei tratti in culture caratterizzate dall’assenza di dominio (la già rilevata inconcepibilità dell’obbedienza e del comando, il fatto che, come scrive Clastres, «nessuno prova il desiderio assurdo di fare, di possedere, di apparire più del vicino…»). È il contesto culturale che dà senso alle differenze caratteriali a esso funzionali. È così evidente che in un contesto di dominio le differenze caratteriali individuali vengono forzate entro modelli riconducibili a uno dei due poli del rapporto comando/obbedienza.

Tutto questo, però, non ci dice ancora come e quando sia nato il dominio. Non mi sogno neppure, del resto, di dare qui una risposta. Il problema è forse destinato a restare scientificamente sempre aperto se, come appare per lo meno allo stato attuale delle conoscenze, le risposte che gli si possono dare sono speculazioni indimostrabili perché «non falsificabili» empiricamente. È più facile dunque che sull’origine del dominio si costruiscano «miti» (apologetici o critici) che non teorie scientifiche.

Mi limiterò, in questa sede, ad abbozzare un’ipotesi esplicativa in chiave culturalista e anarchica. Questa ipotesi è che il dominio si sia presentato a un certo punto della vicenda umana come «mutazione culturale». Mi spiego. Recentemente si è cominciato ad applicare lo schema dell’evoluzione naturale (mutazioni casuali e selezione positiva dei caratteri più idonei alla sopravvivenza) all’evoluzione culturale dell’uomo27. Il dominio potrebbe essere visto come una mutazione, cioè nel nostro caso come un’innovazione culturale che in determinate condizioni si è rivelata vantaggiosa per quei gruppi sociali che la adottavano, in termini di sopravvivenza, ad esempio per una maggiore efficienza militare, per cui finiva per imporsi come modello o per conquista o per imitazione difensiva.

Una variante di questa ipotesi, che mi pare abbastanza convincente, consiste nell’immaginare che la mutazione-dominio non sia comparsa completamente ex abrupto, ma che elementi di dominio (cioè relazioni sociali parzialmente o temporaneamente modellate sul rapporto comando/obbedienza e sulla diseguaglianza di potere che questo implica) siano sempre esistiti, o comunque pre-esistiti alle società del dominio, ad esempio nelle relazioni uomo/donna, anziani/giovani, guerrieri/non guerrieri, capo/tribù. (In queste relazioni, il dominio potrebbe essere stato presente come imitazione culturale delle asimmetrie viste – o meglio interpretate – in natura, cioè negli animali sociali cacciati o allevati o comunque osservati28. Ma questa è un’altra ipotesi ancora). Questi elementi di dominio sarebbero stati tenuti sotto controllo dalle prime società umane, che non consentivano loro di generalizzarsi come elementi centrali della cultura e della società, finché mutate condizioni «ambientali» interne o esterne ai gruppi non ne hanno reso possibile la trasformazione in modello regolativo dominante. A questo punto sarebbe avvenuta la mutazione, cui sarebbero sfuggiti solo i gruppi immuni dal «contagio» perché isolati geograficamente e/o culturalmente.

Questa ipotesi della mutazione apre (o meglio riformula) una serie di problemi relativi al progetto di abolizione del dominio che identifica l’anarchismo, perché anche la trasformazione anarchica della società si presenta in questa luce essenzialmente come mutazione culturale. In quel progetto gli anarchici sono mutanti che tendono a moltiplicarsi, cioè a trasmettere la loro anomalia culturale (anomalia rispetto alla normalità, cioè al modello dominante) e nel contempo a creare le condizioni «ambientali» favorevoli alla mutazione, cioè alla generalizzazione del carattere mutante. Il che può aprire la via a nuove interpretazioni del rapporto tra anarchismo esistenziale, educativo, rivoluzionario…

Ma tutto questo ci sta portando troppo lontano dalle intenzioni di questo scritto, che era partito con l’intenzione di offrire alla discussione soltanto alcune riflessioni preliminari sul potere, limitate all’ambito di una proposta definitoria. Fermiamoci qui. Almeno per ora.

Note al capitolo

1. Amedeo Bertolo, Per una definizione dei nuovi padroni, in aa.vv., I nuovi padroni, Antistato, Milano, 1978; La gramigna sovversiva, «Interrogations», n. 17-18, 1979; L’immaginario sovversivo, «A rivista anarchica», n. 93, giugno-luglio 1981 [tutti inclusi nella presente antologia].

2. Ad esempio: «Il potere è la categoria formale decisiva sia nell’analisi della struttura sia nell’analisi dei processi della società»; Ralf Dahrendorf, La libertà che cambia, Laterza, Bari, 1979, p. 155. «Nell’intero lessico della scienza politica quello di potere è forse il concetto più fondamentale: il processo politico è la formazione, la distribuzione e l’esercizio del potere»; Harold D. Lasswell e Abraham Kaplan, Potere e società, Etas, Milano, 1969, p. 90. E ancora: «Lo studio del potere è il principio della scienza sociologica»; Irving L. Horowitz, Introduzione a Charles Wright Mills, Politica e potere, Bompiani, Milano, 1970, p. 20.

3. «Potere» deriva dal latino potis (padrone, possessore), così come «dominio» deriva da dominus (padrone di casa, capofamiglia); «autorità» invece viene dal latino auctor che significava originariamente colui che fa crescere, che accresce.

4. Si veda ad esempio Theodor Eschenburg, Dell’autorità, il Mulino, Bologna, 1970.

5. Pierre-Joseph Proudhon, La giustizia nella religione e nella Chiesa, brani scelti in Giampietro N. Berti (a cura di), La dimensione libertaria di P.-J. Proudhon, Città Nuova, Roma, 1982.

6. «Allorché si tratta di stivali, ricorro all’autorità del calzolaio; se si tratta di una casa, di un canale o di una ferrovia, consulto quella dell’architetto o dell’ingegnere […]. Io m’inchino davanti all’autorità degli specialisti, perché è imposta dalla mia propria ragione […]. Noi accettiamo tutte le autorità naturali e tutte le influenze di fatto, nessuna di diritto, e come tale ufficialmente imposta»; Michail Bakunin, Dio e lo Stato, R. L., Genova, 1966, pp. 63-66.

7. Giovanni Baldelli, Social Anarchism, Penguin, Harmondsworth, 1971, cap. iv, «Freedom and Authority», pp. 79-94.

8. Tra i casi di uso «neutrale» del termine «dominio» ne segnaliamo però tre rilevanti: Georg Simmel, Il dominio, Bulzoni, Roma, 1978, per il quale il dominio è una categoria universale di interazione sociale, di cui il potere è forma particolare; Ralf Dahrendorf, Classi e conflitto di classe nella società industriale, Laterza, Bari, 1970, che propone una definizione di dominio inteso come «possesso di autorità e cioè come un diritto di emanare comandi autoritativi»; Lasswell e Kaplan, op. cit., per i quali dominio è modello di potere effettivo (ma il termine inglese è qui rule – e non domination – e potrebbe tradursi diversamente in italiano).

9. Eccone alcuni esempi un po’ alla rinfusa. potere. Il p. è «a) capacità o facoltà naturale di agire […]; b) facoltà legale o morale, diritto di fare qualche cosa; c) autorità, specialmente nel significato concreto, corpo costituito che esercita tale autorità, governo»; André Lalande, Dizionario critico di filosofia, isedi, Milano, 1971. «Il p. è la partecipazione alla presa di decisioni» e «una decisione è una linea di condotta che comporta sanzioni severe»; Lasswell e Kaplan, op. cit., pp. 89-90. Il p. è «diritto di comandare»; Guglielmo Ferrero, Potere, Sugarco, Milano, 1981, p. 27. «Come p. designeremo la capacità di una classe sociale di realizzare i suoi obiettivi specifici»; Nicos Poulantzas, in Franco Ferrarotti (a cura di), La sociologia del potere, Laterza, Bari, 1972, p. 410. Il p. è «la capacità di stabilire e di attuare decisioni anche quando altri si oppongono»; Wright Mills, op. cit., p. 18. Il p. è «un corpo permanente al quale si ha l’abitudine di obbedire, che possiede mezzi materiali di costrizione e che è sostenuto dall’opinione che si ha della sua forza, dalla credenza nel suo diritto di comandare, ossia nella sua legittimità, e dalla speranza nella sua beneficenza»; Bertrand De Jouvenel, Il Potere, Rizzoli, Milano, 1947. Per p. si deve intendere «tutti i mezzi di cui un uomo può disporre per piegare la volontà degli altri uomini»; Roland Mousnier, Le gerarchie sociali dal 1450 ai nostri giorni, Vita e Pensiero, Milano, 1971, p. 9. «Si può definire il p. come la capacità di realizzare i desideri»; Bertrand Russell, Il potere, Feltrinelli, Milano, 1967, p. 29. «Per p. si deve intendere […] la possibilità per specifici comandi (o per qualsiasi comando) di trovare obbedienza da parte di un determinato gruppo di uomini»; Max Weber, Economia e società, Comunità, Milano, 1971. «Il p. è una comunicazione regolata da un codice»; Niklas Luhman, Potere e complessità sociale, il Saggiatore, Milano, 1979. autorità. L’a. è «un qualsiasi potere esercitato su un uomo o gruppo umano da un altro uomo o gruppo»; Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia, utet, Torino, 1961. L’a è «un vincolo tra ineguali»; Richard Sennet, Autorità, Bompiani, Milano, 1981, p. 18. L’a. è «un modo di definire e interpretare le differenze di forza»; Sennet, op. cit., p. 118. L’a. «è una ricerca della stabilità e della sicurezza nella forza degli altri»; Sennet, op. cit., p. 178. L’a. è «una dipendenza accettata»; Max Horkheimer, citato in Eschenburg, op. cit., p. 9. L’a. è «(psicol.) superiorità o ascendente personali… e (sociol.) diritto di decidere o di comandare»; Lalande, op. cit. «L’essenza dell’a. […] è di dare a un essere umano quella sicurezza e quel riconoscimento nella decisione che logicamente spetta soltanto a un assioma superindividuale ed effettuale o a una deduzione»; Simmel, op. cit., p. 11. L’a. è «il possesso atteso e legittimo del potere»; Lasswell e Kaplan, op. cit.

10. Questo significato proposto corrisponde un po’ al potere come forza collettiva di Proudhon (cfr. nota 5) e assomiglia alla definizione di Lasswell e Kaplan, citata alla nota 9, che però si riferisce ai singoli processi decisionali e non alla funzione complessiva qui considerata. Anche Clastres sembra intendere qualcosa di assai simile per potere: «Riteniamo […] che il potere politico sia universale, immanente al patto sociale; […] ma che si realizzi in due modi principali: potere coercitivo e potere non coercitivo. Il potere politico coercitivo (o relazione di comando e obbedienza) non è il modello del vero potere, ma semplicemente un caso particolare»; Pierre Clastres, La società contro lo Stato, Feltrinelli, Milano, 1977, p. 21. E ancora: «non è pensabile il sociale senza il politico; in altre parole non vi sono società senza potere»; ibidem. Il potere coercitivo di Clastres sembra corrispondere a quello che più avanti definisco come dominio.

11. Crespi direbbe che l’uomo «oscilla» tra determinato e indeterminato; Franco Crespi, Mediazione, norma, potere, «Volontà», n. 1, 1980.

12. Ralf Dahrendorf, «Amba e Americani», in Uscire dall’utopia, il Mulino, Bologna, 1971.

13. Si veda anche quanto scrivono Lasswell e Kaplan: «Nella misura in cui ci si avvicina all’anarchia, un dominio cessa di essere dominio. La sfera del potere si restringe a un minimo: nel caso limite non viene esercitata alcuna costrizione. Il controllo sociale permane, naturalmente, sotto diverse forme di influenza: ma non è controllo coercitivo»; Lasswell e Kaplan, op. cit., p. 210.

14. Per meglio dire, l’appropriazione privilegiata dei mezzi di produzione materiale è in realtà appropriazione del potere regolativo in un settore della socialità: è dunque un caso e una forma del più generale fenomeno del dominio. Si veda in merito quanto scrive Luciano Lanza in Al di là dell’economia, «Volontà», n. 3, 1981 e in L’economia dal dominio alla libertà, «Volontà», n. 3, 1982.

15. Questa definizione di influenza si approssima a quella di autorità, citata alla nota 9, di Sennet, il quale tuttavia la estende anche alle interazioni asimmetriche di ruolo (compresi i ruoli di potere e di dominio).

16. Questa definizione di autorità si approssima a quella, citata alla nota 9, di Simmel, il quale però la riferisce solo ai ruoli di potere e di dominio.

17. Per la relazione tra volontà e libertà (che emblematicamente sono definite in russo da un unico termine, volija), si veda Roberto Ambrosoli, Volontà e natura umana, «Volontà», n. 4, 1982.

18. Ad esempio nel seguente contesto: «[Potere di tutti] significa qui che ciascuno deve avere tanto potere (reale) di influenzare e controllare le decisioni politiche che riguardano la sua vita, quanto è compatibile con un eguale potere in ogni altro membro della società, sì che ciascuno abbia in ogni momento la massima possibilità, compatibile con la massima possibilità di ogni altro, di realizzare la miglior vita di cui è capace»; Giuliano Pontara, Definizione di violenza e nonviolenza nei conflitti sociali, in aa.vv., Marxismo e nonviolenza, Lanterna, Genova, 1977.

19. Oppure, come dice De Jouvenel, la personalità libertaria e la personalità securitaria: «In ogni momento esistono pertanto in qualsiasi società individui che non si sentono abbastanza protetti e individui che non si sentono abbastanza liberi. Chiameremo i primi securitari e i secondi libertari»; De Jouvenel, op. cit., p. 352. I securitari sono quelli che abbisognano del massimo di determinazione culturale: «Una volta concepiti i sentimenti ‘libertario’ e ‘securitario’ […] possiamo rappresentarci una società qualsiasi […] come una molteplicità di punti che si possono disporre gerarchicamente secondo il loro indice libertario. I più ‘securitari’ saranno situati più in basso e i più ‘libertari’ più in alto» (p. 358). E, oplà, eccoti il dominio, e i «libertari» diventano i membri dei gruppi sociali dominanti. Ed ecco come un’idea abbastanza interessante diventa la solita zuppa.

20. Si rilegga in questa prospettiva quanto scrive Bakunin in «L’istruzione integrale» (Michail Bakunin, Libertà, uguaglianza, rivoluzione, Antistato, Milano, 1976, pp. 197-220; ora in La libertà degli uguali, elèuthera, Milano, 2017). Il processo educativo per Bakunin è un passaggio progressivo dalla «autorità» alla «libertà»: il bambino quanto più è piccolo tanto più abbisogna di determinazioni esterne; crescendo diminuisce l’asimmetria tra lui e l’adulto; con la maturità diventa uomo in senso pieno e in quanto tale può e deve raggiungere il più alto livello possibile di autodeterminazione.

21. «Il ruolo primordiale della cultura è di assicurare l’esistenza del gruppo come gruppo, e dunque di sostituire l’organizzazione al caso»; Claude Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 75. La cultura regola normativamente ciò cui la natura si è «dimenticata» di dare regolarità biologica: il comportamento sociale dell’uomo. Sembra che, a questo proposito, non ci sia uno stacco netto tra l’uomo e gli altri animali: «Tutto sembra svolgersi come se le grandi scimmie, già capaci di dissociarsi dal comportamento proprio della specie, non riuscissero tuttavia a ristabilire una norma su un piano nuovo. La condotta istintiva perde la nettezza e la precisione che le si riscontra presso la maggior parte dei mammiferi; ma la differenza è puramente negativa, e il campo abbandonato dalla natura resta territorio non occupato» (p. 45).

22. «La maggioranza degli uomini è composta di esseri timidi, modesti, passivi, che rappresentano la materia plastica del Potere, nati come sono per obbedire. La razza dei padroni è una minoranza con una più intensa forza vitale: sono gli ambiziosi, gli attivi, gli imperiosi che con l’azione e col pensiero hanno bisogno di affermare la propria superiorità»; Ferrero, op. cit., p. 39. Questo volgare luogo comune di sapore razzista segue sorprendentemente osservazioni di ben altra qualità come la seguente: «I principi di legittimità sono giustificazioni del diritto di comandare; perché fra tutte le ineguaglianze umane nessuna ha conseguenze tanto importanti e perciò tanto bisogno di giustificazioni come l’ineguaglianza derivante dal potere» (p. 27). E «se, salvo qualche rara eccezione, un uomo vale l’altro: perché uno deve avere il diritto di comandare e gli altri il dovere di obbedire?» (p. 28). Analogamente, ma più «dialetticamente», Simmel parla di «volontà di dominio» e scrive che «l’essere umano ha un duplice atteggiamento interno rispetto al principio della subordinazione. Da una parte egli vuole infatti essere dominato. La maggior parte degli uomini non solo non può esistere senza guida, ma ne ha anche la sensazione: essi cercano la forza superiore che tolga loro la responsabilità […]. Tuttavia essi non hanno minor bisogno di opporsi a questo potere di direzione […]. Così si potrebbe dire che l’obbedienza e l’opposizione sono i due aspetti o elementi di un comportamento affatto unitario dell’essere umano»; Simmel, op. cit., p. 52.

23. «Questa polarizzazione dell’umanità in padroni e servi sembra mirabilmente adatta al piano d’ordine prestabilito nella natura umana»; Ferrero, op. cit., p. 40. E ancora: «il potere […] è in origine una difesa contro i due massimi terrori che funestano l’umanità: l’anarchia e la guerra» (p. 39). De Jouvenel: «[Il Potere] è una necessità sociale. Grazie all’ordine che impone e all’accordo che instaura, rende possibile agli uomini di vivere un’esistenza migliore»; De Jouvenel, op. cit., p. 291.

24. «L’autorità è un modo di definire e di interpretare le differenze di forza. In un certo senso il sentimento dell’autorità è proprio il riconoscimento che tali differenze esistono. In un altro senso, più complesso, è un modo di tener conto dei bisogni e dei desideri del debole così come del forte»; Sennet, op. cit., p. 118. Poi, «sinonimo di forza nel linguaggio politico [è il] potere» (p. 25). Infine, «la presenza del potere tra due persone significa che la volontà di uno intende prevalere su quella dell’altro» e «la catena del comando è la struttura mediante la quale questo squilibrio di volontà può estendersi a migliaia o a milioni di persone» (p. 155).

25. Dahrendorf, «Amba e Americani», cit.

26. Ecco un esempio: «La società naturale è piccola e non si può passare dalla società piccola alla grande attraverso il medesimo processo. Occorre un fattore di coagulazione, che nella maggior parte dei casi non è l’istinto di associazione ma l’istinto di dominazione […]. Il principio creativo dei grandi aggregati non è altro che la conquista: opera talvolta di una delle società elementari dell’insieme sociale, ma più spesso di una banda guerriera proveniente da lontano» (il corsivo è mio); De Jouvenel, op. cit., p. 103. E ancora: «Così lo Stato trae origine essenzialmente dai successi di una ‘banda di briganti’ che si sovrappone a piccole società particolari: banda che […] tiene nei confronti dei vinti, dei sottomessi, il comportamento del Potere puro» (p. 104).

27. Si veda Luca Cavalli Sforza, Marcus W. Feldman, Cultural Transmission and Evolution: a Quantitative Approach, Princeton University Press, Princeton, 1982.

28. Si può leggere in questa chiave l’osservazione di Clastres secondo cui la politica delle società primitive da lui studiate sarebbe organizzata attorno all’intuizione che il potere coercitivo, per se stesso, «non è altro che un alibi furtivo della natura»; Clastres, op. cit., p. 38.

Fonte: Potere, autorità, dominio: una proposta di definizione, relazione scritta per il seminario «Il Potere e la sua negazione», Saignelégier (Svizzera), 8-10 luglio 1983, poi pubblicata in «Volontà», n. 2, 1983.

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