prefazione alla parte prima

Le ragioni del pensare anarchico

di Giampietro N. Berti

I temi e i problemi affrontati da Amedeo Bertolo nel corso della sua cinquantennale riflessione teorica riguardano la tecnoburocrazia, l’autogestione, le esperienze comunitarie, l’utopia, l’immaginario sovversivo, la rivoluzione, l’economia, l’epistemologia, l’ecologia sociale, l’antropologia, la democrazia; temi, tutti, che intendono dar voce agli aspetti di una cultura militante, secondo una modulazione interdisciplinare che comprende la dimensione politica e sociologica, con uno guardo che abbraccia il passato, il presente e il futuro. Qui prendiamo in considerazione tre fondamentali direttrici del suo pensiero: il nodo centrale del potere; il rapporto tra anarchia e democrazia; le ragioni dell’anarchia. Centrale, in questi saggi, come del resto in tutta la sua ricerca, è il problema della chiarezza concettuale, secondo un approccio che potremmo senz’altro definire cartesiano, lontano da ogni argomentare ideologico criptico e iniziatico. Per Bertolo vanno individuate, all’interno delle scienze umane, quelle specifiche valenze libertarie in grado di indicare le possibilità di una strategia della trasformazione sociale capace di porre la coerenza ideale dell’anarchismo all’interno di uno sguardo lucido e disincantato della realtà.

Le relazioni fra potere, autorità e dominio

A giudizio di Bertolo con potere si deve comprendere l’esercizio collettivo della «produzione e l’applicazione di norme e di sanzioni»; un insieme che svolge una «funzione regolativa sociale». Esso è necessario «all’esistenza della società, della cultura e dell’uomo stesso». In quanto funzione regolativa sociale, volta alla produzione di regole necessarie per il funzionamento della società, il potere deve essere visto quale esercizio «neutrale».

L’autorità va individuata in una situazione di asimmetria tra soggetti interagenti, che si dispiega come influenza nel caso di relazioni personali e come autorità vera e propria nel caso di relazioni funzionali. L’autorità può essere applicata a competenze e a facoltà professionali specifiche, che comunque non implicano quasi mai un’asimmetria permanente (ad esempio: sono un medico e ho bisogno dell’avvocato perché sono in causa giudiziaria con il mio vicino, oppure, specularmente, sono un avvocato e ho bisogno del medico perché ho mal di pancia). Intesa in questo senso, l’autorità non ha una vera e propria valenza di dominio.

È invece con quest’ultimo termine, dominio, che deve essere indicata una condizione anarchicamente inaccettabile. Si definisce una situazione di dominio quella che vede il potere espropriato da una minoranza a danno della stragrande maggioranza, indipendentemente dal fatto che questa minoranza lo utilizzi per i propri privilegi (anche se quasi sempre avviene così). Vale a dire che siamo in una situazione di dominio quando il potere, cioè la funzione regolatrice della produzione di norme necessarie per il funzionamento della società, diventa possesso privilegiato di pochi a danno dei più. Di qui le relazioni tra ineguali in termini di potere. Questo fenomeno è simile «al possesso privilegiato dei mezzi di produzione materiale». Si vede così che la definizione bertoliana di dominio è universale: può essere infatti utilizzata/applicata – beninteso, nell’età moderna e contemporanea – sia per gli assetti capitalistici sia per gli assetti collettivistici, tanto a destra quanto a sinistra.

Il perno centrale della trattazione di Bertolo è costituito dunque dal concetto di potere, precisamente dall’approfondimento della polisemia del termine stesso: poter fare e poter far fare. Il potere è il neutro confine fra la libertà e il dominio: il poter fare definisce l’ambito della libertà, il poter far fare definisce l’ambito del dominio, naturalmente se questo poter far fare si esplica attraverso l’attivazione di mezzi coercitivi e ultimativi. La libertà è concepita in senso positivo: libertà di (poter fare), cioè sulla base dell’accezione kantiana di libertà come autonomia; mentre non risulta un utilizzo della libertà da intesa come non interferenza da parte di qualsiasi ente (Stato, Chiesa, partito, e così via), volto a impedire o limitare la volontà e l’azione degli individui. Interpretata in questo modo, la chiarificazione bertoliana sul poter fare costituisce la versione anarchicamente più lucida e consapevole della democrazia diretta: siamo in una situazione ottimale quando tutti possono poter fare e poter decidere. Osserviamo anche che il termine «potere», sempre in questa accezione peculiare, designa l’esercizio collettivo della libertà nel senso del suo incrocio con l’eguaglianza: «Un eguale accesso di tutti i membri di una società al potere è, dunque, prima ineludibile condizione di un’eguale libertà per tutti. Condizione necessaria a una libertà eguale». Dove qui, pare evidente, la «quantificazione» di libertà individuale stabilisce il valore anarchico dell’eguaglianza sociale.

Il potere eguale di tutti si determina nella funzione regolatrice della produzione di norme, necessaria per il funzionamento della società. «Le norme non sono semplice riflesso di necessità naturali, ma creazione di necessità arbitrarie. Cioè, la produzione di norme è necessaria perché scritta nella natura umana (nella paradossale libertà dell’uomo che gli impone di autodeterminarsi), ma non sono necessari i singoli contenuti delle norme stesse». L’uomo deve produrre norme «ma può produrre le norme che vuole». Si arriva così al pieno riconoscimento che la libertà è una «scelta fra possibilità determinate». Ne consegue un rapporto diretto tra possibilità determinate e norme, per cui l’esercizio della libertà si compendia nella valenza anarchica della scelta: la libertà non è un farsi spontaneo, ma un’opzione razionale all’interno di oggettivi condizionamenti che sono, allo stesso tempo, naturali e culturali. Naturali, perché determinati dalle limitazioni materiali che caratterizzano gli esseri umani (fisiologia, tempo, spazio, clima, e così via); culturali, perché rimandano a tutto il patrimonio della storia pregressa dovuta ai miliardi di scelte – in realtà infinite – fatte dalle generazioni precedenti. Possiamo dire che, in un certo senso, il pensiero di Bertolo incontra qui quello di Chomsky. Come per il reticolo linguistico chomskyano, si osserva anche in questo caso che le possibilità sono oggettivamente determinate, ma i modi delle loro interne combinazioni variano ampiamente.

Con Bertolo il pensiero anarchico supera il retaggio dello spontaneismo, che vuole la «società futura» pressoché libera dal principio di condizionamento, che non sia quello che gli individui si autoimpongono. Schematicamente – ma non tanto – si deve concludere che la libertà non è inscritta nella natura, ma nella cultura. Viene individuato infatti il senso anarchico profondo del condizionamento e la logica che lo pervade: ogni scelta è una libera creazione destinata a formare nuovi vincoli culturali, per cui la necessità della produzione di norme è la condizione stessa della libertà, la quale, in tal modo, scaturisce sempre da una valutazione razionale e cosciente. Necessità, creazione, condizione costituiscono dunque i termini del processo della libertà anarchica, ossia dell’anarchia concettualmente possibile.

Il rapporto tra anarchia e democrazia

Per Bertolo, la democrazia e l’anarchia non sono «riducibili l’una all’altra ma (a determinate condizioni) neppure antitetiche», nel senso che l’anarchia è, allo stesso tempo, «la forma più compiuta della democrazia ma anche un suo irriducibile superamento». La forma più compiuta perché solo l’anarchia realizza pienamente la democrazia, un suo irriducibile superamento perché soltanto nella società anarchica vi è l’inveramento supremo della libertà e dell’eguaglianza. La democrazia compatibile con l’anarchismo è ovviamente la democrazia diretta, che si dà sempre sotto le forme assembleari e le deleghe temporanee e revocabili; modalità, tuttavia, che non possono esaurire l’idea di un mondo senza dominio perché, nell’apparente continuum tra anarchia e democrazia, esiste un salto ontologico incolmabile. Esso è dovuto al fatto che anche la democrazia diretta, sebbene superi ampiamente quella rappresentativa, esprime un potere «coattivo», dato che il potere di tutti è pur sempre potere su qualcosa o qualcuno. Oltretutto, con il metodo democratico si possono anche decidere cose del tutto incompatibili con la concezione anarchica.

Alla luce del rapporto fra l’individuo e la società, va sottolineato che l’anarchia, diversamente dalla democrazia, concepisce la sovranità politica come tensione irrisolta – e irrisolvibile – tra l’uno e l’altra: se prevale l’individuo, c’è disgregazione e perdita di senso, se prevale la società, c’è tirannia. L’equilibrio – sempre precario – di questa irrisolvibilità si dà pertanto con l’individuo comunitario, essere consapevole della sua contemporanea soggettività e socialità: la soggettività genera la diversità, la socialità garantisce l’eguaglianza. L’anarchia, pertanto, è un insieme societario costituito da soggetti politici equivalenti, i quali si riconoscono in un’organica interrelazione di funzioni politiche, economiche e culturali che danno luogo a un ethos contemplante l’eguaglianza, la libertà, la solidarietà. In conclusione, il salto ontologico tra anarchia e democrazia si riassume nella considerazione che l’anarchia è un «al di là», allo stesso tempo qualitativo e quantitativo, rispetto alla concezione democratica, essendo un principio di organizzazione della realtà potenzialmente estensibile a ogni piano e a ogni aspetto dell’esistenza; quindi non solo alla sfera politica, ma anche alla filosofia, all’etica, all’estetica e a ogni altro ambito dell’esperienza umana.

Le ragioni dell’anarchia intesa come autodeterminazione

Le ragioni dell’anarchia si compendiano nelle ragioni della libertà, dell’eguaglianza, della diversità e della solidarietà, concepite come quadro d’insieme di un’unica ragione, ovvero come sforzo argomentativo volto a dimostrare la loro necessaria e ineludibile coesistenza. Tuttavia, poiché il valore della libertà costituisce il principio informatore che conferisce un senso generale a questo insieme, è necessario, per Amedeo Bertolo, «proiettare sulla libertà tutti gli altri valori anarchici essenziali, attribuendole così anche ciò che è proprio delle sue relazioni con gli altri elementi [di questa] configurazione assiologica». In altri termini, si devono sussumere «nella libertà gli altri valori». Si avrà così «il nucleo duro» dell’anarchismo, capace di darne una definizione in positivo, superando quella in negativo «tipo» società senza Stato o società senza gerarchia o società senza dominio.

Per Bertolo, la definizione in positivo dell’anarchia sfocia nell’idea della libertà come autodeterminazione dell’essere umano, di tutti gli esseri umani. Ma cosa vuol dire, in termini scientifici, autodeterminazione? Vuol dire fare chiarezza sul rapporto ineludibile tra condizioni oggettivamente determinate e libertà, avendo la piena consapevolezza di tutte le sue implicazioni epistemologiche. A questo proposito ricorda che, a partire da Max Planck e da Werner Heisenberg, gli sviluppi della fisica quantistica, e poi quelli della genetica, hanno riportato in auge il caso, a livello non solo subatomico ma anche macromolecolare, nel senso che la realtà presenta «rotture casuali nella catena causale».

E dopo questa consapevolezza scientifica, va considerata quella socio-culturale, ovvero la dimensione specificamente storico-umana. Qui la libertà emerge come nuova dimensione del reale, che si pone come lucido «arbitrio» tra casualità e causalità. Intesa in tal modo, essa è «scelta individuale o collettiva di un comportamento, fra diversi possibili, di fronte a un certo stato di cose, [che] richiede sia l’apertura su comportamenti egualmente compatibili con lo stato di cose presenti, sia l’intervento volontario su elementi determinabili (e dunque casualmente determinati) del citato stato di cose». Il che vuol dire, in altri termini, che la scelta non è libera da qualsiasi condizionamento; però, una volta che si è deciso di scegliere tra i comportamenti fattibili, i contenuti di questa decisione sono liberi. Come aveva già scritto precedentemente: «L’uomo deve produrre norme ma può produrre le norme che vuole» (corsivi miei).

Gli uomini che si autodeterminano partecipano attivamente, direttamente, ai processi decisionali dell’ambito politico. Ma si autodeterminano anche autorealizzandosi nella condotta della vita privata. Il primo ambito è quello pubblico, dove si dà la griglia generale delle determinazioni sociali del comportamento, le quali sono libere solo se l’individuo partecipa su un piano di parità alla loro continua creazione e ricreazione. Analogamente, il secondo ambito, quello privato, non è un rifugio residuale della libertà, ma lo spazio in cui avviene l’altra autodeterminazione: quella del singolo dentro la rete della libertà collettiva.

Ne consegue che la contrapposizione tra libertà della politica e libertà dalla politica non può investire l’anarchismo, perché essa si risolve in un dilemma solo per chi vede nel pubblico lo spazio della non libertà o, all’opposto, per chi vuole che tutto sia regolato, determinato, prevedibile, e vede nella libertà individuale un intollerabile disordine. Di qui, dunque, il distacco anarchico dal liberalismo e dal socialismo. E di qui, anche, il superamento della distinzione, già teorizzata da Isaiah Berlin, tra libertà negativa e libertà positiva, tra libertà da e libertà di. L’anarchismo, infatti, rappresenta la più alta sintesi delle due libertà. Del resto, fa notare Bertolo, è noto che la libertà positiva si presta a grossolane mistificazioni: identificarla, ad esempio, con un preciso obiettivo da realizzare, in quanto giudicato un bene supremo, dà adito a manipolazioni totalitarie; ma anche una concezione strettamente negativa della libertà è vettore potenziale di mistificazione, perché sottrae agli individui l’ambito fondamentale delle funzioni istituenti e regolative della società.

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