introduzione

Ai compagni delle cavalcate anonime

Si inventi così un anarchismo cangiante e multiforme in cui si riconosca il militante ma anche il poeta, che comprenda in sé la lotta ma anche la vita.

L’antologia che segue parla da sé e non avrebbe bisogno di un’introduzione. Se un gruppo di persone – compagni di militanza e di vita – sente il bisogno di introdurre un discorso che sarebbe di per sé chiaro e di firmare in forma collettiva è perché in questi testi, e nel percorso esistenziale che li ha prodotti, c’è un «noi» che la semplice lettura potrebbe non far emergere. E invece questa storia di pensiero, azione e orgoglio anarchici, durata oltre un cinquantennio, è stata fondamentalmente una storia comune, la storia di una «fratellanza» che ha attraversato i decenni, i contesti e i cambi di paradigma, sempre alla ricerca di un modo condiviso di elaborare e sperimentare «analisi nuove per la strategia di sempre» (come recitava il titolo di un pamphlet del 1970, scritto appunto in forma collettiva). È un «noi» nel quale Amedeo Bertolo si riconosceva pienamente e che consente di comprendere meglio il suo orizzonte intellettuale ed emozionale, il suo approccio etico ed estetico. Amedeo non si è mai identificato con il pensatore solitario che basta a se stesso, ma ha sempre portato avanti le sue riflessioni all’interno di un’intelligenza collettiva che trova le sue ragioni (e le sue passioni) nell’agire comune. E questa storia comune non solo attraversa tutte le iniziative militanti, culturali ed editoriali che ha contribuito a fondare e animare, ma travalica i confini nazionali, linguistici, generazionali e persino «dottrinali» (i tanti anarchismi che compongono il mosaico libertario), dando vita a una rete internazionale – «nostra patria è il mondo intero», appunto – che è un tratto distintivo di questo «noi». Come lo è la scelta dell’anonimato. Che non è solo il rifiuto «di recitare una qualche parte nello spettacolo politico», ma è anche il desiderio di essere artefici e partecipi di quelle cavalcate anonime della storia anarchica evocate da Louis Mercier Vega nella sua «pratica dell’utopia», la cui straordinaria forza collettiva è ben superiore alla somma delle forze individuali.

Uno stretto connubio tra pensare e agire, peraltro intrinseco all’anarchismo, è certamente presente in tutti gli scritti qui raccolti, anche in quelli più teorici. Appare evidente che se quei dubbi vengono sollevati, se quei temi vengono affrontati, è perché servono alla sperimentazione sociale. I due aspetti sono inscindibili, e la scelta del linguaggio, delle modalità interpretative, dell’angolo visuale da cui guardare la realtà, risponde a quella imprescindibile interazione tra pensiero e azione, basata su un equilibrio instabile che va costantemente ricercato. Il rischio è di cadere da un lato nell’elaborazione teorica fine a se stessa, che risponde a esigenze ideologiche estranee all’agire, e dall’altro nell’azione fine a se stessa, ovvero nell’atto autoreferenziale che non è azione sociale ma rituale autocelebrativo, rappresentazione liturgica del proprio credo.

Pur essendo questa un’utile chiave di lettura per addentrarsi nei saggi che seguono, nondimeno va rilevato che la selezione fatta privilegia, per motivi di spazio, il percorso intellettuale e dunque non rispetta in pieno quell’essenziale equilibrio. Non va invece dimenticato che Amedeo Bertolo è stato anche un uomo d’azione, come si intuisce dalla breve nota biografica che segue e da una più articolata intervista biografica, significativamente intitolata Pensiero e azione. L’anarchismo come logos, praxis, ethos e pathos (Quaderni del Centro Studi Libertari/elèuthera, 2018).

Se uno dei fili conduttori che attraversano l’antologia è certamente quello dell’orgoglio anarchico, l’orgoglio di far parte di una minoranza agente che opera nella storia ma contro la storia, un altro cruciale filo conduttore, che contestualizza questo orgoglio, è l’urgente necessità di attualizzare l’anarchismo. Già all’inizio degli anni Sessanta, quando comincia il suo impegno militante in un movimento senescente, la carica dirompente dell’anarchismo classico sembra essersi diluita, come scrive, «nella stanca e retorica riproposizione di un’obsoleta vulgata anarchica». Il passaggio dalla modernità alla postmodernità, le cui dinamiche non vengono colte nell’immediato (quanto meno in Italia), ha infatti spinto l’anarchismo nel vicolo cieco di una pura reiterazione che gli ha tolto incisività. È il salutare scossone del 1968 a riattivare una vitalità solo sopita, segnando al contempo un radicale cambiamento di paradigma: l’orizzonte non è più il domani, la società del futuro alla quale accedere attraverso una rivoluzione palingenetica, ma è il qui e ora, è il vivere e agire da anarchici nella società attuale stando ben attenti a non farsi assimilare da questo qui e ora.

L’urgenza è dunque quella di avviare una riflessione a tutto campo, alla quale deve corrispondere una sperimentazione a tutto campo, per definire i contorni di una rottura sociale che non si configura più come le grand soir, ma come una mutazione – culturale, immaginaria, etica… – altrettanto epocale e sovversiva, in grado non solo di ridefinire valori e comportamenti, ma di dissolvere l’inconscio gerarchico che è in tutti noi. Perché «lo Stato è soprattutto nella testa della gente, dei servi più ancora che dei padroni».

Il che ci riporta alla necessaria dimensione internazionale che una tale riflessione/sperimentazione deve avere e che dà ragione degli innumerevoli incontri, convegni e seminari organizzati in Italia e all’estero, dei contributi editoriali sollecitati in tutto il mondo, dei fitti scambi epistolari e diretti con una molteplicità di interlocutori, alcuni internazionalmente noti (come Noam Chomsky, Judith Malina, Julian Beck, Murray Bookchin, Colin Ward, Kurt Vonnegut, Cornelius Castoriadis, Enrico Baj…), altri figure di spicco del mondo anarchico (come Cipriano Mera, Giovanna Caleffi Berneri, Max Sartin, Attilio Bortolotti, Ruben Prieto, Liber Forti, Eliane Vincileoni…). Uno sforzo di grande respiro che mira a sprovincializzare le tradizioni nazionali e a creare un anarchismo meticcio e globale che torni a essere innovativo ed efficace.

Da quanto detto potrebbe apparire che il senso di questa antologia sia tutto interno a un movimento e a una visione politica. Non è così. Anzi, qui si palesa un altro tratto tipico dell’approccio di Amedeo Bertolo al mondo circostante (anarchico e non), ovvero una sorta di strabismo culturale che gli consente di volgere contemporaneamente lo sguardo verso due tipologie di interlocutori. Se infatti da una parte parla sempre agli anarchici, stando però ben attento a non chiudersi nel ghetto, dall’altra parla sempre anche a tutti coloro che, pur collocandosi fuori dall’Ecclesia, non per questo sono impermeabili a un discorso antigerarchico, a una progettualità sociale basata su valori e metodi libertari. In altre parole, instaura una relazione stretta e continua con una poliedrica cultura libertaria che si rivela cruciale per il rinnovamento dell’anarchismo. E per quanto orgogliosi si possa e si debba essere della propria identità, mette in guardia su un’estremizzazione (spesso estetizzante) della disaffinità: «Siamo diversi – sì – e dobbiamo restarlo, perché la nostra diversità è il senso della nostra esistenza e della nostra resistenza all’assimilazione […]. Siamo diversi, ovvero mutanti culturali. Ma non marziani».

Anche il linguaggio, di conseguenza, si adegua a questo peculiare strabismo scegliendo codici di comunicazione in grado di mantenere il doppio registro. Codici che però non si configurano come rigidi binari paralleli, ma come linee flessibili che si intersecano e si intrecciano in ogni scritto. Il mondo così com’è e il mondo come lo vorremmo non sono universi separati, e per passare da questo a quello non possiamo prescindere dagli intrecci e dagli incastri, né tanto meno dal patrimonio di lotte e conquiste che ci ha portato sin qui.

Proprio perché il linguaggio nasce dal contesto e dal fare, ovviamente si modifica con il passare del tempo così come si modificano i riferimenti e le priorità. D’altronde, si sta parlando di oltre mezzo secolo e di un tempo storico segnato da vaste e accelerate trasformazioni sociali, economiche, tecnologiche. Se alcuni testi sono evidentemente più influenzati dalla narrazione degli anni Sessanta e Settanta, con il tempo certi topos anarchici classici – la lotta, la rivoluzione, la classe… – si stemperano e cedono il passo ai nuovi linguaggi e ai nuovi immaginari dell’alterità contemporanea. L’obiettivo però rimane lo stesso: un’analisi nuova per la strategia di sempre, ovvero un attacco frontale al dominio in qualunque forma socio-storica o relazionale si presenti.

Non è stato facile scegliere i brani che seguono, decidere cosa includere e cosa omettere così da rendere immediatamente leggibile un percorso intellettuale che si è sviluppato su più livelli. In modo arbitrario (né potrebbe essere altrimenti) abbiamo deciso di non seguire un ordine strettamente cronologico, ma di riordinare, in base a una prospettiva di più lungo termine, le tappe di una riflessione che interagiva con le esigenze «del momento». E se talvolta i riferimenti rimandano a cose, fatti o persone la cui rilevanza è legata a specifici contesti, le considerazioni generali che ne derivano travalicano quella contingenza e concorrono in modo efficace alla visione complessiva.

Abbiamo infine deciso di suddividere in tre parti una produzione intellettuale che ha una logica interna fortemente correlata, per evidenziare in modo più netto le riflessioni teoriche sui nodi cruciali del pensiero anarchico (nella prima parte), le argomentazioni più legate all’ambito dell’azione (nella seconda parte) e la ricostruzione di un itinerario editoriale che va da un foglio di lotta stampato in proprio all’inizio degli anni Sessanta a una casa editrice, la nostra, di cui è sempre stato il cuore e la mente (nella terza parte). Così riordinata, ci sembra che questa produzione intellettuale rimanga del tutto coerente.

E la coerenza è certamente stata un tratto caratteristico di Amedeo Bertolo, coerenza tra i mezzi e i fini, tra il dire e il fare… Ma non una coerenza rigida, ideologica, bensì pragmatica, sperimentale e talvolta persino contraddittoria: «credeva» nell’anarchismo ma era profondamente eretico, viveva con passione l’impegno militante ma con un disincanto che a volte sconfinava nello scetticismo… L’anarchismo che ha contribuito a costruire e ricostruire, in stretta e continua relazione con «noi» e con tanti altri, non è fede, non è dottrina politica, non è ideologia. Piuttosto, è un modo di vivere l’anarchia, ovvero di applicare al qui e ora «quella peculiare e unica miscela che fa dell’anarchia un principio di organizzazione simbolica del reale inconciliabile con le culture e le società del dominio. A partire da questo, che è il nucleo duro, ‘utopico’, dell’anarchismo, dev’essere mobilitata tutta la ricchezza possibile e immaginabile di esperienze, sensibilità, creatività individuali e collettive, emerse e sommerse, per pensare e fare un arcobalenico anarchismo vivente, una mutazione culturale in atto che esprima insieme il rifiuto e l’alternativa. Un anarchismo che sia dentro questa società, ma anche contro e (in qualche misura) fuori e comunque sempre altro».

Nota biografica

Amedeo Bertolo, di famiglia friulana, nasce a Milano il 17 settembre 1941 nelle stesse case popolari del quartiere San Siro in cui vivono, per un curioso destino, sia Giuseppe Pinelli sia Pietro Valpreda, che tuttavia conoscerà molti anni dopo e in altri contesti. Dal padre mosaicista, nel cui laboratorio lavora per un anno, impara la capacità di prefigurare un disegno la cui effettiva realizzazione, tassello dopo tassello, richiede tempo, pazienza e tenacia.

Dopo studi classici, approda alla facoltà di Agraria dell’Università di Milano («era la fila più corta per iscriversi», ammette) e lì resterà anche dopo la laurea come docente di economia agraria (e questo forse spiega le ricorrenti metafore agronomiche come quella su anarchismo e gradazione alcolica).

Ma ben prima di approdare all’insegnamento, la sua vita pubblica inizia con un fatto clamoroso come il primo rapimento politico del dopoguerra: quello del viceconsole spagnolo di Milano, Isu Elías, portato a termine insieme a un gruppo di giovani antifascisti per salvare la vita di Jorge Conill Valls, un anarchico spagnolo condannato a morte dal regime franchista (condanna che verrà in effetti commutata nel carcere a vita).

Da qui inizia un’attività militante che accompagna tutto il suo percorso esistenziale e che alla fine degli anni Sessanta si concretizza nella costituzione dei Gruppi Anarchici Federati (gaf), una delle tre federazioni nazionali attive in quel periodo, la cui peculiarità è di essere composta solo da giovani anarchici e di essere organizzata in gruppi di affinità. È un’esperienza forte e intensa che si concluderà con l’autoscioglimento dei gaf nel gennaio 1978 – atto che prelude al passaggio dall’idea di movimento-partito all’idea di movimento-comunità – e che darà vita a quella «fratellanza» aperta destinata a durare nel tempo.

Quegli anni lo vedono protagonista di un altro cruciale momento storico, quello che coincide con la «strategia della tensione» e con le attività di controinformazione portate avanti dalla Crocenera anarchica, fondata nel 1968 proprio da Amedeo Bertolo e Giuseppe Pinelli, le cui strade si sono ora ricongiunte all’interno del gruppo milanese Bandiera Nera e del Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa. L’anno dopo arriva la strage di Piazza Fontana, falsamente attribuita agli anarchici da ben noti funzionari dello Stato, e la morte violenta di Pinelli, precipitato da una finestra della questura di Milano nel pieno di quella montatura antianarchica che nei mesi successivi verrà smontata da una formidabile campagna di controinformazione (basti ricordare il libro-inchiesta Le bombe dei padroni: processo popolare allo Stato italiano nelle persone degli inquirenti per la strage di Milano, scritto appunto dalla Crocenera). Una campagna partita solitaria – Farneticante conferenza-stampa al Circolo Ponte della Ghisolfa titola il «Corriere della Sera» il 17 dicembre 1969 – e divenuta poi corale.

Tuttavia gli anni Sessanta non sono solo attentati, depistaggi, farse processuali e «stragi di Stato». Sono anche gli anni di una rinnovata creatività libertaria che presto sfocerà nel 1968. Non a caso è proprio alla metà di quel decennio che i giovani anarchici europei decidono di inventare un simbolo in sintonia con il nuovo immaginario anarchico, quella A cerchiata che negli anni successivi conquista i muri di tutto il mondo grazie alla sua iconografia essenziale. Se l’ideazione avviene a Parigi (il simbolo è presentato per la prima volta da Tomás Ibáñez sul bollettino «Jeunes Libertaires»), il «lancio grafico» viene fatto a Milano, dove Amedeo Bertolo la incide a mano – con l’aiuto di un bicchiere capovolto – sulla matrice dei primi ciclostilati prodotti dalla Gioventù Libertaria. Ed è sempre questo gruppo che negli stessi anni apre il primo Circolo Wilhelm Reich, ovviamente focalizzato sulla rivoluzione sessuale, e convoca a Milano il «provotariato» libertario internazionale, decidendo di sperimentare una versione di «rito ambrosiano» delle provocazioni culturali realizzate in Olanda dal movimento Provos.

Accanto all’attività militante si va via via affiancando un’attività editoriale dapprima collaterale e poi con il tempo prioritaria. Se negli anni Sessanta escono solo i tre smilzi numeri di «Materialismo e libertà», nel 1971 Bertolo fonda, insieme ad altri, il mensile «A rivista anarchica». I soldi per dar vita a quella che è stata allora (ed è tuttora) la testata anarchica più venduta in Italia provengono in effetti da un altro progetto: sono le sottoscrizioni raccolte per fondare una comune anarchica nella campagna senese. Ma dato che quel progetto stenta a prendere il via, schiacciato com’è dai tumultuosi eventi che seguono il biennio 1968-69, gli stessi sottoscrittori decidono di dirottare i fondi verso una rivista «di lotta e di riflessione» più in sintonia con i tempi. Inventandosi giornalista e grafico, Amedeo si occupa del mensile sino al 1974, per passare poi la mano agli altri redattori e iniziare a collaborare con altre due testate: il trimestrale internazionale «Interrogations» (che esce dal 1974 al 1979) e la rivista di approfondimento teorico «Volontà» (alla cui redazione partecipa dal 1980 alla chiusura della testata nel 1996).

Parallelamente, con il Centri Studi Libertari «Giuseppe Pinelli», fondato a Milano nel 1976 e tuttora attivo, organizza e partecipa a decine di convegni, seminari, tavole rotonde, conferenze, dibattiti, la maggior parte in Italia ma alcuni anche all’estero, in uno sforzo continuo di mettere tra loro in relazione le riflessioni e le sperimentazioni libertarie che fioriscono in tutto il mondo e nei campi più diversi. Un percorso che ha il suo picco nel 1984 – con l’incontro internazionale anarchico «Venezia ‘84», al quale partecipano migliaia di persone provenienti da oltre trenta paesi – ma che di certo non si ferma lì proseguendo sino ai nostri giorni.

La sua attività editoriale e culturale non si esaurisce però qui. Nel corso dei decenni, infatti, la sua attenzione si sposta progressivamente dai periodici ai libri. Così prende in mano dapprima le Edizioni Antistato, attive dal 1975 al 1985, e poi nel 1986 fonda elèuthera, dando vita a un’altra avventura collettiva che dura da oltre trent’anni.

Muore a Milano il 22 novembre 2016.

Parte prima

Pensare da anarchici, oggi, è altrettanto importante che agire da anarchici,

laddove l’agire implica non solo la militanza, la propaganda e la lotta, ma tutto l’ambito del vivere, cioè dell’interazione con l’ambiente umano e naturale.

Pensare dunque in tutte le direzioni e a tutti i livelli. Pensare per agire, naturalmente, ma pensare, non rimasticare banalmente, non scopiazzare incongruamente.

E pensare da anarchici, cioè aprendosi, non dogmaticamente ma neppure acriticamente, a tutto ciò che nella cultura

contemporanea si muove o sembra

muoversi in senso libertario e affrontare ogni aspetto del reale con quello

straordinario criterio interpretativo che è la nostra critica radicale del dominio.

A.B.

CCshare
Condividi il testo con le seguenti indicazioni: