Eppure le tre idee di base di quell’effimero «periodico di azione e studi libertari» sono solo tre, ma piuttosto forti. Non ideuzze. Uno: critica del marxismo, a partire dalla polemica ottocentesca (Bakunin, Cafiero, Merlino…) e come ideologia di una nuova classe dominante in ascesa (la «piccola borghesia» burocratica e tecnocratica). Due: l’analisi di questa nuova classe e del relativo processo storico («feudalizzazione»), mutuando creativamente gli apporti del dibattito tardo-trotzkista e post-trotzkista sulla natura sociale dell’urss (Burnham, Rizzi…). Tre: la necessità di abolire, oltre alla proprietà privata giuridica dei mezzi di produzione, anche la «proprietà intellettuale», attraverso l’integrazione del lavoro, la rotazione degli incarichi e l’assemblea.
Non ebbe, «M. e L.», un grande successo nel movimento anarchico dell’epoca, un po’ per demeriti suoi e un po’ per la miseria culturale del movimento. Però gli elementi di novità di «M. e L.» (o meglio, la carica e la volontà innovative che esprimeva) erano importanti. Tant’è che vennero notati a distanza dall’attento e curioso intellettuale «francese» Louis Mercier Vega, che lo citò sei anni dopo nel suo L’Increvable anarchisme.
«M. e L.» era il primo – rozzo ma significativo – tentativo di pensare ecletticamente un anarchismo «neo-classico» (come faranno – a partire dagli anni Settanta e con migliori risultati – le riviste «A», «Interrogations», «Volontà», il Programma dei Gruppi Anarchici Federati, e diversi convegni promossi dal Centro Studi Libertari di Milano). E anche il più recente emergere di un pensiero anarchico «post-classico» italiano – coetaneo dapprima e progressivamente sostitutivo poi di quello «neo-classico» – ha, in fondo, una delle sue radici personali e culturali in «Materialismo e libertà».
Fonte: Come eravamo ambiziosi, «Libertaria», n. 4, 2000.