capitolo quattordicesimo

Venezia e dintorni

Venezia: prima, durante, dopo. Per «Venezia» intendo, assai prevedibilmente, il convegno di studi e più in generale l’incontro internazionale anarchico che vi avrà luogo tra meno di un mese [settembre 1984]. E con «prima/durante/dopo» intendo (parafrasando non la nota formula della verginità della madonna cristiana, ma piuttosto il chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo? di Gauguin) attribuire un segno particolare a quel convegno e a quell’incontro, come di soglia tra un prima («da dove veniamo») e un dopo («dove andiamo»), come di punto privilegiato nel continuum spazio-temporale dell’anarchismo dal quale guardarsi attorno e dentro e chiedersi «chi siamo».

Beninteso, l’attribuzione di un tale segno a Venezia è arbitraria (ma non del tutto), come è arbitrariamente convenzionale – poniamo – stabilire che a 18 o 21 anni si entra nella maturità. Sono convinto che nelle storie individuali e collettive i «punti», i singoli eventi, segnalano solo convenzionalmente e simbolicamente i processi, le mutazioni, le transizioni. E infatti ho parlato di «segno» e non d’altro, e per smorzare ulteriormente quella che, rileggendo le righe precedenti, mi è parsa un’enfasi eccessiva, premetto subito che non intendo sopravvalutare il convegno e l’incontro di Venezia veri e propri. Da quel convegno (e da quell’incontro) non mi aspetto lì per lì grandi cose. Non intendo attribuirgli surrettiziamente il valore di un «congresso di rifondazione» dell’anarchismo. No. Non foss’altro perché non sarà (e non è stato mai pensato e strutturato) come congresso ma, per l’appunto, come convegno di studi e come incontro informale. Dal primo non verranno delibere ma idee, al secondo non converranno delegati ma singoli membri della tribù libertaria internazionale che, come gli zingari all’appuntamento di Saintes-Maries-de-la-Mer, rappresenteranno solo se stessi.

So (credo di sapere) che Venezia sarà, nella migliore delle ipotesi, una «grande abbuffata» emozionale e intellettuale, che nessuno dei grandi problemi teorici e pratici dell’anarchismo vi saranno risolti, che nessuna delle lacerazioni più o meno serie del movimento anarchico vi verrà ricucita, che tutti-insieme-separatamente ci incontreremo, discuteremo, ci azzufferemo forse un po’, gusteremo – spero – una pur effimera comunità libertaria. Molti torneranno a casa con l’impressione che non sia successo nulla d’importante (e, in un certo senso, non può succedere in effetti nulla d’importante a Venezia), di aver partecipato o assistito a un brainstorming collettivo un po’ caotico, in una cornice di festosa Torre di Babele anarchica…

Epperò insisto a dire che, emblematicamente, Venezia (l’incontro più il lavoro che l’ha preceduto e quello – di lenta digestione – che lo seguirà) può segnalare un «passaggio» di importanza fondamentale nella vita del movimento anarchico.

Non è quel passaggio, ripeto, ma lo segnala. Di fatto, del tutto indipendentemente da Venezia, un po’ ovunque nel mondo il movimento anarchico va da anni prendendo coscienza, in vari modi e forme e a vari livelli di consapevolezza, della sua profonda crisi. Paradossalmente, proprio grazie alla ripresa quali-quantitativa degli anni Sessanta e Settanta che l’ha sottratto all’estinzione, l’anarchismo ha tratto (o può trarre) gli elementi per vedere come quella che credeva crisi congiunturale fosse invece crisi storica e ha tratto (o può trarre) le energie e la volontà e la fantasia necessarie – anche se forse non sufficienti – per risolverla.

L’anarchismo oggi è dunque di fatto costretto (e di fatto sempre più si dà conto d’esserlo) a un passaggio drammatico dal vecchio al nuovo, seppure senza sapere ancora bene cos’è il «nuovo» e che cos’è il «vecchio» dentro di sé. Superata con il ‘68 (non l’anno, ma il nome convenzionale di un processo culturale iniziatosi anni prima, soprattutto in America, ed esauritosi anni dopo) la soglia quali-quantitativa della sopravvivenza, l’anarchismo vuole ora superare la soglia quali-quantitativa oltre la quale sta la possibilità di essere un vero soggetto di trasformazione sociale. E deve superare questa seconda soglia, altrimenti rischia di essere di nuovo ricacciato, prima o poi, sotto la prima.

Da anni va crescendo la sensazione (più o meno consapevole) che per superare quella seconda soglia critica sia necessario innanzi tutto e al più presto un salto di qualità. Ecco che allora acquista il suo valore emblematico un incontro come quello di Venezia, simbolico crogiolo di diverse culture anarchiche, simbolico luogo di fecondazione incrociata di lavoro intellettuale e di esperienza militante, di lucidità e di passione, di pragmatismo e di tradizione radicata, di buon senso e di utopia…

Tutto questo segnala Venezia, o può segnalare, o quanto meno io e molti altri compagni che hanno lavorato per quasi due anni a preparare questo incontro vorremmo segnalasse. Dietro questo «segno» generale stanno molti significati e contenuti particolari. Ognuno li legge o li leggerà a modo suo. Anch’io, naturalmente, ho le mie idee in proposito e chi ha letto il mio editoriale su questa rivista di un anno fa esatto (Lasciamo il pessimismo per tempi migliori) può immaginare dove andrò a parare.

L’orgoglio di essere anarchici. Nel settembre del 1972, in un convegno organizzato per celebrare il centesimo anniversario di quella che (di nuovo: convenzionalmente) si considera la nascita del movimento anarchico, concludevo il mio intervento con la rivendicazione dell’orgoglio di essere anarchici. Delle centinaia di persone che mi applaudirono allora (ma in realtà – e giustamente – applaudivano il proprio orgoglio di anarchici) ne sono rimaste poche dodici anni dopo. Molti anziani sono morti, molti giovani hanno evidentemente trasferito altrove il loro orgoglio… anche se dubito che abbiano altrettanti motivi di andare orgogliosi. Ne sono rimasti pochi (seppure non pochissimi). E nondimeno continuo a sentire tanto quanto allora l’orgoglio di essere anarchico, non (spero) per senilità precoce («non s’insegna un nuovo trucco al vecchio cane», come dicono gli inglesi), non semplicemente (spero) perché sono, anche in questo, un po’ fuori moda (la coerenza non è più una virtù, a occhio e croce), ma perché non vedo motivo per modificare il mio giudizio razionale sull’anarchismo e la mia adesione emotiva a esso. Anzi, filtrato dall’esperienza e dalla riflessione di questa dozzina d’anni, quell’orgoglio è oggi più solido d’allora, meno nutrito di entusiasmo ma, forse proprio per questo, più solido.

Beninteso, il riferimento a quanto dicevo nel 1972 non era un pretesto per una riaffermazione di fede un po’ narcisistica. È che l’orgoglio di essere anarchici, nello spirito con cui lo rivendicavo allora e lo rivendico adesso, cioè non un orgoglio di autocompiacimento ma un’orgogliosa rivendicazione d’identità, mi pare debba più che mai essere programmaticamente affermato e coltivato. Come non è vero che il coraggio o lo si ha o non lo si ha – ce lo si può dare – così l’orgoglio, il nostro orgoglio di anarchici, possiamo e dobbiamo anche «darcelo». Solo con un forte, diffuso, orgoglioso senso d’identità anarchica è possibile che l’anarchismo passi attraverso quella profonda trasformazione che io credo (che tanti di noi credono e sentono) necessaria e urgente, senza perdersi nel corso di questa trasformazione, senza perdere ciò che lo fa diverso, unico, senza assimilarsi ed essere assimilato. L’anarchismo deve mutarsi, restando però una mutazione, irriducibile alle culture dominanti (cristiana, marxista, liberale, musulmana…).

L’orgoglio di cui parlo, l’orgoglio che ci serve prima/durante/dopo Venezia, cioè in tutto il processo di transizione dal vecchio al nuovo, non è presunzione, non è arroganza, al contrario rende possibile l’umiltà intellettuale necessaria a essere continuamente aperti al dubbio, al dialogo, alla verifica, alla curiosità per tutto ciò che è dentro e fuori di noi. Perché quell’umiltà può permettersela, contrariamente alle apparenze, solo chi ha la certezza della propria identità. Chi non l’ha, oscilla fra due poli, quello della chiusura dogmatica, della corazza difensiva contro l’altro, e quello della zelighiana mimesi con l’altro.

L’orgoglio di cui parlo (un orgoglio ampiamente giustificato, se non sul piano della pura razionalità, per lo meno su quello della ragionevolezza: anche se in oltre cent’anni di storia non abbiamo né vinto né convinto, il nostro bilancio è paradossalmente più attivo di chi ha vinto e/o convinto – Berti docet) è dunque uno stato d’animo collettivo funzionale al popolo dei «mutanti» anarchici e alla loro «riproduzione allargata», e in particolare funzionale alla loro ambivalente crisi attuale, di cui Venezia vuole essere momento emblematico. La depressione, l’autocommiserazione, i complessi d’inferiorità possono essere fatali all’anarchismo in questa fase della sua storia («Lasciamo il pessimismo per tempi migliori: seconda puntata»).

L’orgoglio della propria identità, del resto, è funzionale all’esistenza e all’azione collettiva di ogni gruppo sociale. Il pensiero va subito all’orgoglio della «negritudine», dell’essere donna, dell’essere gay… Ma, più tradizionalmente, si può anche pensare all’orgoglio della borghesia (nella fase ascendente della sua storia). E all’orgoglio della classe operaia. In passato questo orgoglio si esprimeva nell’orgogliosa trasmissione del mestiere, o quanto meno della condizione sociale, di padre in figlio. Oggi quanti padri metalmeccanici (tanto per usare lo stereotipo sinistrese dell’operaio) sognano per i loro figli un futuro da metalmeccanico e quanti invece li vorrebbero dottori o quanto meno impiegati statali? E infatti l’orgoglio operaio è in via di estinzione, assieme a Cipputi e alla classe operaia tradizionale. A proposito di operai…

La bicicletta e l’operaio. Nelle passate generazioni di anarchici gli operai erano una componente importante e, in alcuni tempi e luoghi, largamente maggioritaria, con buona pace della storiografia marxista. Oggi, quand’è più facile tra compagni imbattersi in un insegnante (magari precario) che in un metalmeccanico, un fantasma s’aggira per il movimento: l’Operaio figura retorica, l’Operaio categoria dell’immaginario nostalgico libertario, un po’ ereditata dall’anarchismo tradizionale e un po’ mutuata dalla cultura sinistrese marxista per malintesa contiguità ideologica. A leggere e sentire i discorsi di tanti compagni (a dire il vero anche i miei di anni fa), specialmente – ma non solo – nell’anarchismo «latino», sembrerebbe davvero che a quell’Operaio corrisponda o possa ancora corrispondere una classe operaia (la classe) cui spetta il compito di cambiare corso alla storia e faccia al mondo.

A me pare che quell’Operaio, qui e ora, sia solo di ostacolo alla comprensione della realtà (non alla comprensione delle nostre radici e della nostra storia, di cui spiega molto), alla riflessione, alla discussione, all’azione. Parlo di quell’Operaio-mito, non degli operai in carne e ossa, quelli veri, più o meno rivoluzionari, più o meno libertari. Un sindacalismo libertario (e fors’anche rivoluzionario in taluni contesti socio-politici) è verosimilmente possibile, pur se la recente storia – cnt compresa – non lascia grande spazio all’ottimismo, ma solo ripulendo la teoria e la prassi da modelli e miti che, per dirne il meglio, non funzionano. Questo è ovviamente quello che penso io, non quello che pensano i compagni che verranno a Venezia. Però è certo che l’idea della Grande Rivoluzione Proletaria è una di quelle che traballano un po’ ovunque nella comunità libertaria internazionale (oltre che nel mare, ben più vasto, delle varie società contemporanee in cui si agitano fermenti libertari).

Qualche giorno fa ho letto su un quotidiano i risultati di un’indagine sui «milanesi in bicicletta». La composizione socio-professionale di coloro che usano abitualmente la bicicletta per muoversi a Milano vede al primo posto gli impiegati (con il 30,3 per cento), seguiti dagli studenti (con il 25,6 per cento). Gli operai sono penultimi, con il 2,5 per cento: eppure molti ricorderanno, come me, i tempi non lontanissimi in cui la bicicletta era a Milano veicolo quasi emblematicamente operaio. Mi si dirà che l’operaio in moto o in macchina è operaio come quello che va in bicicletta (il che non è del tutto vero), ma non è questo il punto. Quella curiosità statistica mi serve qui come simbolo della profonda trasformazione culturale della classe operaia nelle società industriali avanzate e, più ancora, come trasparente metafora. I fabbricanti di biciclette hanno, nel corso di questo trentennio, cambiato prodotto o cambiato clientela. Noi non possiamo continuare a produrre biciclette (di modello vecchiotto) e pretendere di venderle alla stessa clientela. Certo, le metafore non dimostrano nulla. E non è affatto detto che ci si trovi di fronte alla drastica scelta se rinunciare a «produrre» pensiero e azione anarchica o cambiare radicalmente «clientela». Può ben essere che si possa pensare e fare (e vivere) da anarchici rivolgendosi, senza rinunciare a nessun interlocutore, a tutte le categorie del vasto e differenziato popolo degli oppressi (Bookchin docet). Però la metafora mi è piaciuta; ho un debole per le metafore e sento che ve ne rifilerò ancora qualcuna prima della fine di questo articolo.

Pensare da anarchici. Pensare da anarchici, oggi, è altrettanto importante che agire da anarchici, laddove l’agire implica non solo la militanza, la propaganda e la lotta, ma tutto l’ambito del vivere, cioè dell’interazione con l’ambiente umano (Ambrosoli docet) e naturale. Anzi, quello di pensare mi sembra compito drammaticamente prioritario, dato il drammatico ritardo che abbiamo accumulato in questo ultimo mezzo secolo e che il lavoro intellettuale anche eccellente, in questi ultimi dieci-quindici anni, di alcune individualità (tra cui metto senza false modestie quanto ha fatto e promosso il Centro Studi Libertari di Milano) ha solo scalfito. Pensare in tutte le direzioni e a tutti i livelli. Pensare per agire, naturalmente, ma pensare, non rimasticare banalmente, non scopiazzare incongruamente. E pensare da anarchici, cioè aprendosi non dogmaticamente ma neppure acriticamente a tutto ciò che nella cultura contemporanea si muove o sembra muoversi in senso libertario, e affrontare ogni aspetto del reale con quello straordinario criterio interpretativo che è la nostra critica radicale del dominio. Pensierino: il vero realista è chi conosce il mondo e conosce il sogno (Ursula K. Le Guin).

Un compito, in particolare, mi sembra urgentissimo per il «pensare da anarchici»: fare i conti con le nostre radici, per darci un’identità priva della nostalgia del passato, un’identità ridotta all’essenziale e proprio per questo più adatta a ogni tempo e luogo, a ogni situazione, a ogni contesto. La nostra identità di anarchici è ora un pesante bagaglio in cui stanno alla rinfusa elementi essenziali e inessenziali, elementi universalmente validi ed elementi storicamente datati e/o specifici a peculiari realtà geopolitiche. Ho già fatto l’esempio dell’Operaio e della Rivoluzione (con la maiuscola), l’una e l’altro mitizzazioni di una realtà o comunque di una potenzialità connessa a un contesto sociale europeo verificatosi tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento (emblematicamente: la Rivoluzione spagnola), ma ci sono innumerevoli altri esempi.

Il bagaglio è ricchissimo ma ingombrante e anche contraddittorio, se preso alla rinfusa: si pensi solo all’apparente inconciliabilità, nella tradizione anarchica, di individualismo e comunismo, di classismo e umanesimo, di violenza e nonviolenza… Il bagaglio è ingombrante e apparentemente contraddittorio, e così ogni tanto qualcuno cerca di alleggerirlo e renderlo unilateralmente coerente buttando via questo o quel pezzo. Ma così si rischia di buttare via ogni volta un po’ di anarchismo.

E tuttavia il bagaglio va alleggerito. Ci aspetta un lungo viaggio in territorio sconosciuto e dobbiamo portare con noi solo l’essenziale: semmai, arricchiremo di nuovo il bagaglio strada facendo, a seconda di quello che, in tutte le direzioni per le quali siamo partiti, ci troveremo di fronte. Il problema è definire l’essenziale perché, sia se terremo troppo sia se prenderemo con noi troppo poco, non ce la faremo ad andare lontano. E io credo che si tratti, per noi, di andare molto lontano. Fuor di metafora, il delicatissimo compito che spetta oggi al «pensare da anarchici» è quello di individuare l’essenza dell’anarchismo, ciò che definisce l’identità anarchica al di là delle concrete manifestazioni storiche e geopolitiche in cui si è concretamente determinato l’anarchismo. Non per disincarnarlo in una pura essenza filosofica da contemplare, ma per immergerlo nuovamente nelle diverse manifestazioni del reale, per dargli una flessibilità e un’adattabilità che gli consentano di farsi espressione e strumento e riferimento per tutte le attuali forme di negazione teorica e di resistenza pratica al dominio, in qualunque contesto sociale.

Allora, meglio del bagaglio vale un’altra metafora. Si tratta di distillare l’anarchismo in tutte le sue manifestazioni passate e presenti, perché l’essenza dell’anarchismo sta a quelle manifestazioni come l’alcol sta alle innumerevoli bevande alcoliche che – sia lode infinita alla natura umana – sono state inventate a tutte (o quasi) le latitudini e longitudini. E come l’alcol puro è imbevibile, così anche l’anarchismo «puro» è probabilmente imbevibile, e come i vari popoli hanno prodotto e producono bevande alcoliche dalla diversa concentrazione alcolica e dal gusto diverso a partire dalle diverse realtà eco-climatiche, così anche l’anarchismo ha dato luogo in passato a forme di pensiero e di azione sociale diversificate e in futuro (in un futuro che forse è già un po’ presente) potrà dar luogo a forme di pensiero e di azione enormemente più diversificate, e quindi più funzionali e godibili. Ma che venga dall’uva o dalla noce di cocco, dall’agave o dalla segale, dal mais o dalle prugne, diluito o concentrato, è l’alcol l’elemento essenziale delle bevande alcoliche. Lo hanno sempre saputo intuitivamente tutti i produttori e i consumatori di vino, birra, vodka, cachaça, toddy, sidro, whisky… e oggi lo si sa a livello di consapevolezza scientifica e tecnologica.

Ora, insistendo ancora un po’ con la metafora, qualunque siano i gusti di chi intraprende un lungo viaggio verso lidi ignoti, meglio sarà portare con sé dell’alcol concentrato (ad esempio un barilotto di rum su un veliero pirata) che non alcol diluito, in cui è meno funzionale, anche se forse più gradevole, il rapporto volume complessivo/alcol. Meglio ancora sarà portare con sé il sapere necessario a produrre l’alcol in qualunque nuovo contesto. E l’anarchismo sta per partire (deve partire e forse partirà comunque, che lo vogliano o no gli eredi più o meno legittimi della tradizione, cioè noi) per lunghi viaggi di pensiero e di azione, in varie direzioni. Ed è bene che nelle loro borracce gli anarchici mettano anarchismo ad alta gradazione e nelle loro teste o nei loro taccuini il sapere essenziale sulla fermentazione e sulla distillazione dell’anarchismo, a partire da ogni situazione di dominio e di rivolta.

Stato e anarchia. Distillare l’anarchismo non significa beninteso ridurlo a una formula. L’anarchismo è una filosofia dell’uomo e della società (ed è o dovrebbe esserlo, come ci segnala giustamente Bookchin, anche della natura), è una concezione del mondo che sarebbe ridicolo pretendere di ridurre a una o poche definizioni formali. È però possibile e necessario identificare le strutture essenziali, togliere all’ambiguità e alla genericità i valori fondanti e i concetti chiave.

Ad esempio: è, credo, a tutti evidente che non basta parlare di eguaglianza-libertà-diversità per definire il nostro fondamento assiologico. Bisogna chiarire che cosa significano i tre abusati termini nello specifico contesto dell’anarchismo. Non basta parlare di azione diretta e di democrazia diretta (di democrazia diretta parla anche Gheddafi); non basta dire che l’anarchismo è «contro» il potere e lo Stato se non si chiarisce che cosa intendiamo per potere e per Stato.

A proposito di potere, il Centro Studi Libertari ha promosso (e «Volontà» ha pubblicato) studi originali e meditati che esemplificano il tipo di lavoro che dev’essere fatto. A proposito di Stato, lo scritto di Eduardo Colombo su questo numero di «Volontà» [Lo Stato come paradigma del potere] è a mio avviso di un’importanza eccezionale. E la sua idea, lucidamente sviluppata a partire da un’intuizione di Bakunin e di Landauer, per cui lo Stato è soprattutto e innanzitutto – essenzialmente – un principio organizzatore della realtà sociale (anzi, il principio che oggi, ovunque nel mondo, spiega e organizza «razionalmente» la società del dominio in tutte le sue concrete diversità), restituisce una formidabile valenza scientifica alla radicale negazione anarchica dello Stato, apparentemente ingenua e démodé.

Quello stesso saggio suggerisce l’idea, che potrebbe essere feconda sul piano epistemologico, che anche l’anarchia vada soprattutto e innanzitutto considerata come un principio organizzatore, come l’elemento centrale di un immaginario sociale – quello anarchico, appunto – del tutto alieno all’immaginario statuale dominante, anche nelle sue forme liberal-democratiche. Lo Stato e l’anarchia, titolo di copertina di questo numero di «Volontà» e titolo delle due sessioni plenarie del convegno di studi di Venezia, esprimono allora non un’anacronistica contrapposizione ideologico-manichea, ma due modi diversi e incompatibili di pensare e organizzare la realtà.

Di questo e di tanti altri aspetti, forse meno generali ma non meno importanti, del «pensare da anarchici» si parlerà al convegno di studi di Venezia, ma non posso qui farne repertorio: se facessi un elenco tematico, ripeterei il programma, se dicessi la mia su ogni argomento, abuserei dello spazio di un editoriale. Mi limito, in chiusura, a esplicitare due elementi metodologici impliciti nelle pagine precedenti, giacché l’implicito può non essere colto o essere frainteso.

Primo. La chiave di lettura di «Venezia» che ho dato esprime non solo un approccio personale ma anche e soprattutto l’ipotesi di lavoro (discutibile, certamente, ma altrettanto certamente degna di seria considerazione) che si è data il Centro Studi Libertari a partire dal 1976 (e che in buona misura «Volontà» ha riflesso a partire dal 1980). Tutti i convegni e gli incontri di studio e i seminari e i programmi di ricerca organizzati dal Centro Studi Libertari (e gran parte di quanto ha pubblicato «Volontà») hanno cercato di promuovere «l’orgoglio anarchico» (l’orgoglio delle nostre radici culturali e della nostra storia) e, insieme, la ricerca spregiudicata del nuovo, una ricerca aperta alla cultura libertaria (non solo anarchica in senso stretto) internazionale.

Secondo. Il compito di «rifondare» l’anarchismo non è compito di una manciata di intellettuali, ma compito collettivo della comunità anarchica tutta, compito non di un convegno (o due o tre), ma di una generazione: la nostra. Storica incombenza, affascinante e terrorizzante. Sul piano teorico (non anagrafico) siamo la «quarta generazione»: la prima ha gettato le basi, la seconda le ha consolidate, la terza è vissuta di rendita. A noi sta dilapidare quanto resta o ricostruire il patrimonio teorico dell’anarchismo.

A Venezia, a Venezia!

Fonte: Venezia e dintorni, «Volontà», n. 3, 1984.

Parte terza

Caratteristica comune della mia attività libertaria di autore, redattore, editore,

organizzatore di convegni di studi… è stata la volontà (lo sforzo, il tentativo)

di produrre e stimolare a produrre

pensiero anarchico contemporaneo.

È stata, questa, una sfida a ripensare non solo il logos (il discorso razionale) ma anche l’ethos (i valori e i disvalori), il pathos

(la dimensione emozionale) e la praxis

(i modi, le forme e il senso dell’agire)

dell’anarchia, dell’identità anarchica.

Un’identità meticcia, ma con un nucleo

comune ai vari anarchismi socio-storicamente dati. Un’anarchia che sta agli anarchismi presenti, passati e futuri come l’alcol sta alle innumerevoli bevande a varia

gradazione alcolica inventate dall’umanità,

fermentando e distillando uva, orzo,

mele, patate, agave, papaya…

A.B.

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