capitolo tredicesimo

Gli ex, il buon senso e l’utopia

Gli ex. Sentite questa. Sono sul treno, tra V. e T., quando entra nello scompartimento un uomo sui 25-30 anni, alto, elegante, con una barba bionda ben curata, il quale, dopo aver sistemato sulla reticella una cartella in cuoio da executive, comincia a guardarmi con una certa insistenza. Poi mi rivolge la parola sorridendo e, dopo un cauto approccio a spirale («Ma noi non ci siamo già conosciuti?», «A Milano», «In redazione o al circolo» e via via sempre più esplicito), mi si svela per un «ex», un ex militante anarchico che finalmente riconosco, sciogliendo così la mia diffidente scontrosità.

Non era facile ricordarlo, anche per qualcuno più fisionomista di me: sono passati dieci anni e quello che era un imberbe diciassettenne o diciottenne garzone di macellaio è adesso un giovane uomo barbuto che – mi dice – si occupa di computer. Ora ricordo, frequentava una scuola serale e per questo aveva cessato di frequentare il circolo, per questo e per una graziosa ragazzina che, del tutto comprensibilmente, riempiva il tempo rimastogli tra scuola e bottega. Lavora a V. e abita a T., con la moglie… Sarà la sua ragazzina? Non ho tempo di domandarglielo. E lui che ha preso a chiedermi di F., di L., di R., di P. e di quello che e di quell’altra che…

La conversazione sembra prendere un po’ la piega dell’incontro tra ex commilitoni ma, prima che la faccenda cominci a tediarmi, passa a chiedermi del movimento anarchico e della nostra attività. È palesemente interessato a quello che gli dico e la conversazione diventa un dialogo tra compagni. Infatti… il treno entra in stazione a T. e il giovanotto deve scendere, ma ci tiene a farmi sapere, prima di lasciarmi, che è «sempre della stessa idea» perché – dice, un po’ enfaticamente – anarchici una volta, anarchici per sempre.

Roba forte, ragazzi! Pensate a questo giovanotto che è stato in contatto con il movimento per non più di un anno e che poi se n’è andato per vicende personali e che due lustri dopo mi dice una cosa del genere… L’aneddoto è autentico, anche se sembra inventato per esemplificare quello che scrivevo due anni fa su questa rivista (Lasciamo il pessimismo per tempi migliori): se molti disertano la militanza, pochi disertano l’anarchismo. (Parentesi: disertare. Avete mai fatto caso a quante espressioni di derivazione militare utilizziamo? Militante, strategia, ecc. Bisognerebbe, prima o poi, dare una ripulita anche al linguaggio).

Lo so che un caso individuale non dimostra nulla, lo so che non è «scientificamente» legittimo generalizzarlo alle migliaia di ex. E infatti non voglio generalizzarlo all’universo degli ex, che è certamente assai differenziato. E non mi nascondo affatto l’esistenza dei doppi ex (ex militanti ed ex anarchici). Ma, intanto, non è l’unico caso del genere, ma solo l’ultimo di una nutrita serie in cui mi sono imbattuto direttamente o indirettamente in un paio d’anni. E poi non voglio generalizzare, ma solo interpretare questo episodio – questi episodi – come segno di un fenomeno più ampio, sufficientemente ampio da rientrare necessariamente o comunque utilmente nell’attuale processo di autoriflessione anarchica, dell’anarchismo che riflette su se stesso.

Il discorso sugli ex può stimolare più di una domanda proficua e forse anche qualche risposta. Sia come sia, ho deciso di prenderlo come punto di partenza per alcuni frammenti di riflessione.

L’anarchismo sommerso. La prima cosa che il «fenomeno ex» ci dice, nella mia interpretazione, è che se pure sono assai magri i risultati palesi di un quindicennio di attività (da quando il movimento si è allontanato dalla soglia dell’estinzione), se pure il movimento strictu sensu (quello «militante») è da diversi anni in marea calante, non per questo ci si deve abbandonare a depressivi bilanci di inutilità dell’azione anarchica.

Siffatti bilanci soffrono infatti di «miopia del militante»: non prendono in considerazione l’esistenza e lo sviluppo quali-quantitativo di quello che potremmo chiamare l’anarchismo «sommerso», un anarchismo assai più vasto di quello «emerso» («ufficiale», «militante»), forse dieci volte più vasto.

Questo anarchismo sommerso di cui fanno parte tanti ex, ma anche tanti che militanti non sono mai stati (anzi questi ultimi sono forse più numerosi), è stato finora pressoché estraneo a ogni analisi del movimento anarchico. Movimento è quello emerso, il resto è un limbo di simpatizzanti, presi in considerazione solo come lettori della stampa «ufficiale», come «massa» (?) da mobilitare per le manifestazioni, come serbatoio di potenziali militanti.

Ora, la tradizionale bipartizione degli anarchici in militanti e simpatizzanti presuppone una corrispondente bipartizione in anarchici «attivi» e anarchici «passivi» tutt’altro che corretta. Nell’anarchismo sommerso c’è un buon numero di anarchici che sono attivi, a volte molto attivi, anche se non nelle forme e negli ambiti canonici della militanza ufficiale. E nell’anarchismo emerso c’è un buon numero di «militanti» che sono attivi solo formalmente, cioè con ridottissimo impegno di energia psico-fisica e magari solo come stanca partecipazione rituale. Anzi, diciamocelo, rispetto al modello quali-quantitativo ideale del militante siamo tutti o quasi degli ex. I confini tra militanti ed ex sono prevalentemente formali, di autodefinizione da parte dei militanti stessi.

I confini tra movimento militante e anarchismo sommerso sono dunque oggettivamente labili sia perché – in negativo – i militanti militano in genere assai poco, sia perché – in positivo – nel sommerso c’è chi attivamente persegue fini di trasformazione sociale di segno anarchico. Di fronte a questo dato oggettivo, c’è la tendenza un po’ narcisistica e un po’ difensiva del movimento emerso a rispondere alla crisi quantitativa conservando o addirittura rafforzando la distinzione. Io ritengo invece che questa crisi sia una buona occasione per sciogliere ulteriormente e consapevolmente quei confini, i confini tra militante (convenzionalmente definito) e non militante, tra anarchismo emerso e anarchismo sommerso.

Quest’ultima distinzione, del resto, ha anch’essa un ridottissimo valore oggettivo: nel corpo sociale (in tutti gli strati sociali) e di fronte alla cultura dominante, siamo tutti sommersi. Il che, di nuovo, non è necessariamente un male. Forse è bene, per lo meno per ora e per lungo tempo a venire, che siamo e restiamo sommersi, non per complottare, beninteso, improbabili insurrezioni, ma per operare mutazioni socio-culturali reali anziché logorarci in vani tentativi di rappresentare una parte nello spettacolo politico.

Utopia e buon senso. Una fusione tra anarchismo emerso e anarchismo sommerso, a mio avviso, potrebbe essere di grande utilità per quel «nuovo» anarchismo che dobbiamo pensare e costruire in questo scorcio di secolo ventesimo, per fare nuovamente varcare all’anarchismo la soglia della significanza sociale, per farlo tornare a essere un movimento sociale reale e una plausibile alternativa all’esistente.

L’emerso ha grandi potenzialità, soffocate dalla sclerosi istituzionale dell’ufficialità: la sua creatività viene ridotta (autoridotta) dalla necessaria conservazione (necessaria alla sua logica interna di gruppo «assediato») di stereotipi ideologici e organizzativi. Molte delle sue energie sono impiegate per il funzionamento di una macchina che in buona parte è fine a se stessa.

Anche il sommerso, d’altronde, ha grandi potenzialità di energie e creatività immobilizzate oppure disperse perché prive di quel «senso» (senso come significato, senso come direzione) che solo l’appartenenza a un movimento può dare. Non che quel senso lo possa dare l’attuale movimento, quel senso deve essere ripensato e ricostruito. E mi sembra una buona ipotesi che a ripensarlo e a ricostruirlo possano essere insieme «emersi» e «sommersi», a partire da un nucleo condiviso di valori (semplificando e per ora non precisando: libertà, eguaglianza, diversità, ecc., in quella peculiare e unica miscela che fa dell’anarchia un principio di organizzazione simbolica del reale inconciliabile con le culture e le società del dominio). A partire da questo, che è il nucleo duro, «utopico», dell’anarchismo, dev’essere mobilitata tutta la ricchezza possibile e immaginabile di esperienze, sensibilità, creatività individuali e collettive, emerse e sommerse, per pensare e fare un arcobalenico anarchismo vivente, una mutazione culturale in atto che esprima insieme il rifiuto e l’alternativa. Un anarchismo che sia dentro questa società, ma anche contro e (in qualche misura) fuori e comunque sempre altro.

Un pasticciaccio di inconciliabili? No, se non secondo una razionalità riduttiva, all’interno della quale non c’è per l’anarchismo soluzione tra la marginalizzazione millenaristica e l’integrazione riformistica, cioè tra due forme di suicidio. C’è (ma in gran parte da esplicitare) un’altra logica che consente di pensare la contemporaneità, nell’anarchismo, di tensione utopica e di pragmatismo, sia nell’azione collettiva sia nella vita quotidiana. Una logica di buon senso anarchico che non perda mai di vista la «realtà» ma neanche il «sogno», che non ci chiuda in un’impraticabile identità tra valori e prassi, pur vincolandoci a una necessaria coerenza tra mezzi e fini, che faccia di ogni momento dell’agire non solo un mezzo per il momento successivo ma anche un fine in sé. Una logica che non ci impedisca di vedere e praticare le possibili approssimazioni al «modello ideale», negli stili di vita, nelle relazioni interpersonali, nell’azione sociale, nelle strutture organizzative, ma che costantemente ci impedisca di appiattirci soddisfatti su quelle approssimazioni.

La necessità della mediazione tra l’essere e il dover essere non è, naturalmente, una grande novità. La vita individuale e il fare del movimento sarebbero pressoché impossibili senza questa mediazione, cioè senza qualche compromesso con la natura non anarchica della realtà sia esterna sia interna (interiorizzata). Ma la pratica di questa mediazione viene generalmente rimossa sul piano teorico. È un «non detto», se non un «indicibile», una cosa di cui non si riesce a fare a meno ma di cui ci si vergogna. Il che ci fa vivere, come persone e come movimento, in uno stato permanente di schizofrenia (specie come persone), e se ha forse il vantaggio, da un lato, di impedire che la pratica compromissoria del movimento vada oltre certi limiti (ma quali?), dall’altro nutre tra i militanti una (falsa) coscienza di illusoria «purezza», nefasta per l’apertura non dogmatica del movimento a tutto ciò che nella società si muove in senso libertario ed egualitario, nefasta per un movimento che, in assenza di strategie rivelate, non può che procedere serenamente e arditamente per tentativi ed errori. E infatti il movimento, nel timore degli errori, non procede, nel timore dell’inquinamento, non si apre. Le rimozioni si pagano care.

Per tentativi (e, inevitabilmente, per errori) deve muovere il nostro percorso, dal momento che nessuno ha la mappa dell’accidentato terreno tra noi e l’elusivo orizzonte. E l’anarchia è solo una bussola, ed è impossibile procedere in linea retta seguendo l’ago ma solo andando a zig-zag (e magari ritornando indietro per fare un giro più lungo ma più praticabile), ed è bene che di fronte ai passaggi più difficili, nei momenti di crisi del movimento, si tentino più vie contemporaneamente e anche si inviino esploratori su e giù lungo il fiume a cercare il guado migliore… Di utopia e buon senso abbiamo bisogno, sempre e soprattutto nei momenti di crisi, nei passaggi difficili, dell’uno e dell’altra inseparabilmente. L’utopia senza il buon senso è Don Chisciotte, il buon senso senza l’utopia è Sancho Panza.

Partito e comunità. La simbiosi tra anarchismo sommerso e movimenti ufficiali (e in prospettiva la scomparsa della distinzione tra l’uno e l’altro, in un continuum di anarchici variamente attivi nella mutazione culturale e nella trasformazione sociale, in campi molto diversi e con intensità diverse a seconda delle storie individuali, delle situazioni, degli interessi…), quella simbiosi che ho suggerito come utile e forse necessaria per uscire dall’attuale impasse, implica anche una ridefinizione dell’immagine che il movimento ha e dà di sé.

Coesistono (sono, credo, sempre coesistite) nel movimento anarchico due concezioni del movimento stesso: strumento di azione politica e controsocietà, organizzazione (o insieme di organizzazioni) di lotta anticapitalista, antistatale, ecc. e «città degli anarchici». Le due concezioni coesistono non come correnti definite, ma come varia combinazione dell’una e dell’altra immagine (e funzione) del movimento. Quando nella combinazione prevale la prima immagine potremmo parlare di «modello-partito» e quando prevale la seconda di «modello-comunità».

Quando dico modello-partito, naturalmente, non penso alla forma-partito in senso stretto ma, in senso più lato, a un’associazione di individui che, condividendo un’ideologia e/o degli interessi, «fanno politica», cioè agiscono in modo coordinato per gestire o trasformare in modo più o meno radicale le istituzioni politiche della società, in funzione di quell’ideologia o di quegli interessi. Secondo il modello-partito, il movimento è essenzialmente un insieme più o meno coerente di militanti dediti alla propaganda, all’agitazione sociale e al reclutamento di nuovi militanti. Il momento comunitario, se c’è, è secondario e derivato, come la camerateria dei combattenti, e la comunità finisce dove finisce il movimento, è cioè comunità di militanti.

Quando dico modello-comunità penso a un tipo di comunità culturali, quali ad esempio le minoranze etniche (o religiose), non istituzionalizzate in forme politiche statuali, minoranze che si identificano in una cultura comune, cioè in un complesso di valori, codici morali, stili di vita, ecc., che è elemento di coesione prima (e più) delle specifiche strutture organizzative comunitarie. Nel nostro caso, gli anarchici condividono, per lo meno nei tratti essenziali (il nucleo duro dell’anarchismo), una concezione del mondo talmente singolare da fare di loro degli «stranieri» in qualunque contesto socio-politico. (Parentesi: è significativo che tra gli anarchici italo-americani – doppiamente stranieri in quanto italiani e in quanto anarchici – sia sempre stata forte un’immagine comunitaria del movimento). Il modello-comunità non esclude il «fare politica», ma non vi si identifica, non si riconosce come movimento prioritariamente (e tanto meno esclusivamente) nel «fare politica». La militanza è funzione della comunità e non viceversa.

Per farla breve (prima di impantanarmi in un argomento che volevo solo segnalare come problema): dei due modelli di movimento che ho schematizzato un po’ brutalmente, quello oggi prevalente (anzi, in varia misura sempre prevalente), per lo meno in Italia, è il modello-partito. Io ritengo invece che il movimento debba cominciare a ripensarsi e a riaggregarsi secondo il modello-comunità. Perché? Perché dentro il modello-partito, con il suo primato del «politico» sul «culturale», è impossibile risolvere la radicale contraddizione di un anarchismo «che si costituisce politicamente e si nega in quanto tale» (Nico Berti, Per un bilancio storico e ideologico dell’anarchismo, «Volontà», n. 3, 1984). Dentro il modello-comunità, con il suo primato della cultura anarchica complessiva, è invece possibile forse risolvere quella contraddizione (con un «fare politica», ad esempio, il cui soggetto non sia il movimento-partito o il gruppo-partito). E soprattutto, solo dentro il modello-comunità c’è spazio, mi pare, per tutta la ricchezza attuale e potenziale dell’anarchismo, di quello militante e di quello sommerso, c’è spazio per il «politico» e per il «personale», c’è spazio per l’anarchia come pensiero, come azione, come vita, come permanente eresia creativa.

Fonte: Gli ex, il buon senso e l’utopia, «Volontà», n. 3, 1985.

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