Sono tempi di scarse e magre soddisfazioni: è perciò bene, per il nostro morale un po’ basso, non perdere alcuna occasione. Non perdiamo dunque l’occasione di scaldarci un po’ il cuore con la discreta performance del non voto alle elezioni legislative dello scorso giugno [1983].
Gli astenuti in senso stretto sono aumentati di quasi il 2 per cento, i non votanti in senso lato (astenuti, più schede bianche e nulle) sono aumentati del 2,9 per cento alla Camera e del 3,6 per cento al Senato, un aumento consistente che ha portato il «terzo partito» rispettivamente a oltre il 16 per cento e il 17 per cento degli italiani adulti. Con tutta la campagna antiastensionista di terrorismo psicologico, condotta dall’estrema sinistra all’estrema destra (con la sola eccezione della disinvolta ambivalenza radicale), non è cosa da poco che un altro milione e mezzo di «cattivi cittadini» abbiano in qualche misura accettato di passare per «analfabeti politici». Che si tratti di un fenomeno significativo lo indicano i giudizi a caldo dei politicanti (Craxi: «Siamo preoccupati per questa vasta area di protesta, contestazione e rifiuto»; Rognoni: «Il fenomeno è segno di disaffezione e protesta»). Più a freddo, un commentatore del «Corriere della Sera» scriveva, una settimana dopo le elezioni, che i non voti sono «voti meditati, consapevoli, non solo politicizzati, ma iperpoliticizzati». «Si dedica attenzione troppo scarsa a quel partito che sono le astensioni, più le schede bianche, più le schede annullate» scrive Alfredo Pieroni. E prosegue: «Sappiamo benissimo che in paesi di democrazia più affermata l’astensionismo è prevalentemente un atto di fiducia nel mondo politico: lo si ritiene talmente degno di fiducia che l’elettore può prendersi una vacanza. Da noi è diverso, tutti lo sanno: da noi è esatto proprio il contrario».
Non è dunque indifferenza da consenso passivo quella dei «nuovi astenuti». Lo dicono Craxi, Rognoni e il «Corriere»: volete non crederci? Scherzi a parte, un’analisi comparata del non voto al Senato e alla Camera segnala che il suo incremento non è dovuto alla generazione dei nuovi elettori, quelli tra i 18 e i 25 anni, tra i quali i non votanti sono stati solo l’8,3 per cento contro il 17,3 per cento del Senato (ma si potrebbe forse aggiungere anche un 2 per cento di beffardi suffragi giovanili per il Partito dei Pensionati, che tra i più anziani ne ha raccolti percentualmente la metà). Non è cioè attribuibile a quella generazione che si sapeva «spoliticizzata», ma verosimilmente a trentenni e quarantenni che tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta hanno respirato un’atmosfera politico-ideologica densa, a volte da tagliare col coltello, come in certi giorni la nebbia in Valpadana.
Una conferma indiretta può venire da un’ulteriore analisi delle differenze Camera/Senato, riferendo per omogeneità le percentuali non ai soli votanti, ma agli aventi diritto al voto. Questo confronto sembra indicare che quel 9 per cento in più di non votanti nell’elettorato più anziano penalizza fortemente il centro, ma anche di un buon 3 per centro la sinistra. L’ipotesi viene rafforzata dalla considerazione che la penalizzazione della sinistra risulterebbe assai più sensibile se i debuttanti del voto non fossero già di per sé assai meno di sinistra (quanto meno in senso partitico) della generazione che li ha preceduti e che oggi vota (o «non vota») per il Senato. Tant’è vero che i comunisti sono meno numerosi tra i minori di 25 anni che tra i maggiori (mentre nel 1979 era il contrario) e che demoproletari e radicali (veri e propri partiti giovanili, in quanto raccolgono rispettivamente il 40 e il 30 per cento dei loro suffragi tra i 18-25enni) hanno perso tra i giovani un quarto della loro forza rispetto all’estrema sinistra parlamentare del 1979, che aveva allora il 10 per cento del voto giovanile e ha oggi il 7,5 per cento.
I giovani, dunque, non sembrano avere espresso in astensionismo la loro indifferenza politica. Il che non stupisce molto perché, per quanto si disinteressi di politica, dev’essere difficile per un giovane rinunciare al gusto della «prima comunione laica», al gusto di sentirsi per la prima volta ritualmente partecipe della società politica. Tanto più che è a tutti nota la scarsa propensione all’anticonformismo di quella generazione. Inoltre, mi pare che l’indifferenza politica si possa esprimere altrettanto logicamente nel voto che nel non voto. Mentre quest’ultimo, soprattutto nella forma dell’astensione e della scheda annullata volontariamente, implica una certa dose, per quanto piccola, di rifiuto, cioè di un atteggiamento negativo ma attivo di fronte al rituale elettorale, un adempimento del «dovere democratico», quasi altrettanto privo di partecipazione emotiva e intellettuale dell’obliterazione di un biglietto tramviario, è del tutto compatibile con l’indifferenza. È più verosimile che il rifiuto del «dovere coniugale» venga da un’avversione al sesso o dal desiderio di un sesso più soddisfacente che non da una frigidità indifferente.
Insomma, i «nuovi indifferenti» danno un voto conformistico, mentre presumibilmente una parte non trascurabile dell’astensione giovanile esprime non indifferenza ma rifiuto, così come una parte considerevole dei «nuovi astenuti». Anche a voler essere cauti, c’è almeno un milione di non voti cui, se non si può certo pannellianamente attribuire una valenza anarchica, non si può neppure negare un positivo significato di disponibilità psicologica al discorso libertario. Non segnalano un me-ne-frego ma un vaffanculo. Che è già una bella differenza. Che poi dal vaffanculo si possa abbastanza facilmente passare al me-ne-frego, in assenza di un’alternativa teorica e pratica plausibile alla politica istituzionale, è del tutto ovvio.
Fin qui l’editoriale che avevo cominciato a scrivere. Potrei abbastanza agevolmente continuare con un’ulteriore analisi del voto, con facili sarcasmi sul nuovo (?) governo, e via di questo passo. Con grande noia mia per certo e, forse, del lettore. Grande noia mia perché sono altre le cose cui da un bel po’ di tempo vado pensando, ma di cui ho sinora evitato di scrivere perché si tratta di un campo di riflessione arduo e delicato, perché le mie idee in merito sono più simili a una matassa ingarbugliata che non a un filo di pensiero, perché in queste condizioni la scrittura è per me un esercizio faticoso e dagli incerti risultati. E però continuo a pensarci. Bene, questo editoriale, che m’è stato rifilato dagli altri compagni della redazione come penitenza per sei mesi di assenza e che malvolentieri ho preso a scrivere e più volte interrotto e sempre più malvolentieri ripreso, è forse l’occasione buona. Mi restano giusto un po’ di pagine per cominciare a delineare la «cosa». Perciò, punto e a capo. Cambio registro.
Torno in Italia, dopo sei mesi, a fine giugno, e trovo la tribù in pessime condizioni di salute. Non che sei mesi prima stesse molto bene. Anzi. Ma nutrivo la speranza un po’ irragionevole che si fosse toccato il fondo della crisi e che in questo frattempo fosse cominciato il recupero. Irragionevole perché la mia scettica ragione in realtà mi ammoniva del contrario. Ma ci speravo lo stesso, un po’ come quando si spera che «dormendoci su» si trovi al risveglio che il problema si è risolto da sé o che comunque la situazione si presenti meno fosca della sera precedente. E invece no. La tribù sta ancora peggio.
Quando dico tribù intendo il movimento anarchico, o meglio quegli anarchici in vario modo militanti che si riconoscono – come io mi riconosco – in una specie di comunità ideale. Una comunità dai confini indefiniti e forse indefinibili e pur tuttavia una comunità percepita come tale da chi vi si riconosce, una comunità culturale, quasi una comunità etnica, che fa sì che il movimento non sia riducibile a una forma particolare di partito politico. Per alcuni è qualcosa di più, per altri molto di più, per altri ancora tutt’altra cosa.
Al mio ritorno la tribù, nonostante la crisi, è un po’ vivacizzata grazie a Craxi e alle sue elezioni anticipate. Per fortuna in Italia c’è una chiamata alle urne quasi ogni anno (l’anno prossimo ci saranno le regionali, mi pare, poi le amministrative o le europee…). Così il rituale elettorale ci consente una ripetizione confortevolmente frequente del nostro astensionismo rituale e ci garantisce un mese o due di volantini, manifesti, comizi, ecc. Poi, con un po’ di fortuna, ci si può rallegrare, come quest’ultima volta, di un discreto aumento delle astensioni, di una batosta democristiana, di una delusione socialista, di un ridimensionamento piccolo ma significativo dei comunisti… Poi comunque ci sono ferie e vacanze e a settembre o a ottobre si vedrà (sindrome del dormirci sopra). Non si fraintenda il tono ironico. Anch’io ho partecipato, e con un certo gusto, al rituale astensionistico o meglio alla sua parte finale: ho bruciato il certificato elettorale e ho brindato a quel 3 per cento in più di non votanti, eccetera. E anch’io sono stato tentato di rinviare nuovamente il problema della crisi della tribù…
Continuo a prenderla alla larga. Se vado avanti così, furbescamente inconcludente, arrivo al limite dello spazio concessomi per un editoriale. Allora sputiamo il rospo, liberiamo il gozzo. Il movimento anarchico è in crisi. In crisi gravissima, qualitativa e quantitativa. La stampa continua a perdere lettori, i libri quasi non si vendono più, i gruppi si sfaldano, i contatti si allentano e diventano puramente formali o di amicizia personale. I circoli (quelli che non hanno ancora chiuso i battenti) sono quasi permanentemente vuoti di persone e comunque di idee. L’attività esterna (e il dibattito interno) è scesa a livelli bassissimi. I compagni se la squagliano sempre più numerosi, con cento motivazioni individuali differenti (ma nel loro presentarsi contemporaneo non può non esserci un importante elemento comune). Creatività, fantasia, voglia di fare, spirito d’iniziativa sono quasi un ricordo.
Già da qualche anno il movimento scricchiolava, è vero, perdeva un po’ d’intonaco, ma sembrava che nel complesso potesse tenere ancora bene sulla distanza, avendo retto sia all’ondata di riflusso del neo-riformismo e del privato, sia, simmetricamente, alle tentazioni e al disastro della scelta armata. Poi sono cominciate le prime crepe. Ora siamo allo sgretolamento e l’edificio minaccia rovina. Alcuni traslocano tranquillamente, altri con senso di colpa. Qualcuno ha detto che andava a prendere le sigarette e nessuno l’ha più visto. Qualcuno si fa prendere dal panico e salta dalla finestra. Si fa anche male, ma zoppicando s’allontana, non senza qualche sguardo di rimpianto per la casa in cui è vissuto per tanti anni. Quelli che restano non riescono più a puntellare le strutture pericolanti. Si guardano in faccia, stanchi, sfiduciati e un po’ sospettosi (chi è il prossimo che taglia la corda? chi è che fa finta di lavorare ma in realtà si sta solo avvicinando alla porta?). Qualcuno comincia a suggerire di rifugiarsi nei sotterranei, che già hanno retto altri crolli. Ma c’è posto per pochi. E c’è chi soffre di claustrofobia.
Se continua così, non ci metteremo ancora molto a ritrovarci con un simulacro di movimento come negli anni Cinquanta e Sessanta. Anzi peggio. Perché allora c’erano dei testardi irriducibili vecchi anarchici a tener duro e una manciata di testardi appassionati giovani anarchici ad aprire il futuro. Oggi, mezz’età spompati e sbarbati incerti non garantiscono e non promettono altrettanto.
L’ho detta la «cosa». Un po’ male, un po’ semplicisticamente, un po’ letterariamente e anche un po’ caricaturalmente, esagerando un poco. Ma l’ho detta. E ora vi dirò anche che il principale motivo per cui continuavo a resistere all’idea di scriverne era il timore di peggiorare la situazione, di moltiplicare gli effetti depressivi della crisi, dandole voce, di scatenare il panico (ma quale peste, per carità, si tratta di un po’ d’influenza!). Ora sono però (quasi) convinto del contrario. E allora, avanti senza pietà (il medico pietoso ecc.). La crisi del movimento anarchico italiano (ma in Francia cos’è successo dieci anni fa? E in Spagna che cosa sta succedendo?) è la crisi dell’anarchismo. E si tratta di crisi non congiunturale (o meglio, non solo congiunturale), ma strutturale. È una crisi storica. Congiunturali, semmai, sono state le riprese del 1945 e del 1968. La tendenza di fondo, meno percettibile durante i picchi superiori dell’andamento ciclico, drammaticamente visibile, come ora, nei tratti discendenti, è una crisi storica.
(Apocalittico. Brivido nella sala, tra il pubblico). È la fine dell’anarchismo? Dell’anarchismo forse no. (Sospiro di sollievo). Di un certo anarchismo storicamente determinato probabilmente sì.
È tempo di ottimismo, lasciamo il pessimismo per tempi migliori. Spiritoso, vero? L’ho letto un mese fa su un poster anarchico svizzero e l’ho trovato non solo spiritoso ma straordinariamente idoneo a diventare il nostro mot d’ordre per il prossimo futuro. Il mio, quanto meno. Se per vent’anni ho usato il pessimismo, o meglio lo scetticismo di una parte della mia personalità (diciamo la ragione), per equilibrare l’eccessivo ottimismo di un’altra parte (diciamo il cuore), è tempo che il ruolo si capovolga. Visto che, con la situazione che ci ritroviamo, l’emozionalità tende al pessimismo (ho, abbiamo, il morale quasi ai tacchi), bisogna che si ristabilisca l’equilibrio spingendo la ragione al polo dell’ottimismo.
La lucidità, ora, deve non frenare ma sorreggere. Com’è possibile in un quadro oggettivamente tanto disastroso come quello che ho appena tratteggiato? Quale ottimismo della ragione, se ho appena detto che la crisi del movimento anarchico è crisi strutturale, crisi storica? Non certo un ottimismo panglossiano da «tutto-va-per-il-meglio-e-questo-è-il-migliore-dei-mondi-possibili». Ma un ottimismo che, più utilmente, legga non solo il reale in senso stretto, ma anche il possibile (si è tanto parlato tra noi, un paio di anni fa, di funzione utopica e non s’era affatto negato alla ragione una funzione utopica). Un ottimismo che, pur non mentendo sulla crisi, anzi, se necessario, portandone l’analisi fino ai limiti (ma non oltre) dell’autolesionismo, ne dischiuda, anticipandole e costruendole, le potenzialità positive. Ora, io credo che tali potenzialità siano enormi (ecco che la ragione, obbediente, comincia a svolgere la sua funzione ottimistica). Per superare questa crisi l’anarchismo deve trasformarsi profondamente, ma se si trasforma profondamente può non solo superare la crisi, ma attingere una vitalità pari, se non superiore, ai suoi tempi d’oro.
In realtà, a ben vedere, si tratta di una crisi del militante più che dell’anarchico. Se molti disertano la militanza, pochi disertano l’anarchismo (e quelli che non disertano ma «non stanno bene» dubitano della militanza, non dell’anarchismo). È un po’ come se (orrida analogia ma efficace) migliaia di preti gettassero la tonaca alle ortiche (mi scusino le ortiche), non sopportando più gli oneri del mestiere e/o non credendo più nella funzione della Chiesa, pur restando cristiani. Certo, l’anarchismo degli «ex» è un anarchismo represso e malinconico, ma confessata o inconfessata rimane nei più la convinzione che, come filosofia dell’uomo e della società, l’anarchismo è una gran bella cosa. Quello che è venuto e sempre più viene a mancare è la fiducia nel senso della militanza, specialmente nella sua forma del «fare politica», e nella possibilità della nostra bella rivoluzione.
La validità dell’anarchismo come filosofia dell’uomo e della società non è una patetica nostalgia da ex o una forzata fede da militanti. Sono razionalmente convinto che l’anarchismo ha in sé una forza, una ricchezza e una freschezza inesauribili che i revival ideologici (neo-marxisti, neo-liberali…) non fanno che evidenziare, non foss’altro che per l’uso sfacciato di cosmetici libertari nei nuovi maquillages ideologici. La controcultura degli anni Sessanta, il femminismo degli anni Settanta, il pacifismo degli anni Ottanta, la nuova sensibilità ecologica e anche i fenomeni socio-musical-folclorici come i punk avevano e hanno in sé tanti frammenti di anarchismo da far pensare a non pochi compagni che potessero e possano sostituire il movimento anarchico. Se non è un ricorrente fenomeno di necrofagia culturale, vuol dire che l’anarchismo è un alimento sano e corroborante. Se il ‘68 ha portato in tutto il mondo a una ripresa dell’anarchismo, è stato soprattutto perché era anche (non tutto, ma non poco) una rivolta culturale di segno libertario. E se quella ripresa ha avuto il respiro corto (ma non cortissimo, via!) e si è manifestata, per lo meno in Europa, come congiunturale, è perché è stata incanalata in forme teoriche e pratiche sterili. Inevitabilmente sterili, perché riproponevano un anarchismo obsoleto.
Quale anarchismo? Quello formatosi come felice – ma storicamente contingente – sovrapposizione di una filosofia di libertà ed eguaglianza e di un contesto sociale «oggettivamente» rivoluzionario, quello che, da questa sovrapposizione, si è sviluppato come variante libertaria del socialismo rivoluzionario. Ma già la generale crisi dell’anarcosindacalismo degli anni Venti e Trenta segnalava la crisi di quell’anarchismo per mutamento sostanziale di quel contesto. E se ci si poteva ancora illudere, fino alla caduta del fascismo, attribuendo la causa del declino anarchico alla repressione, l’effimera ripresa post-bellica, rapidamente rientrata, avrebbe potuto chiarire le cose.
Invece, negli anni Settanta non abbiamo saputo fare molto di più che riproporre, caricaturandolo, quel modello di anarchismo obsoleto, una parvenza di azione politica che, nelle condizioni date, non poteva che ridursi a ripetere sui volantini, sui giornali, nei cortei qualche variante più o meno sofisticata di viva-l’anarchia e l’unica-soluzione-è-la-rivoluzione. Il risultato non poteva essere diverso: noia e frustrazione. E crisi, naturalmente, prima o poi.
Ma questa crisi, per quanto grave, anzi proprio perché grave, può essere salutare, può essere finalmente l’occasione per vederci più chiaro, senza illusioni (non è difficile), ma anche senza angosce (è già più difficile). Può essere una grande occasione perché ci costringe, per sopravvivere, a ripensare a fondo l’anarchismo. Purché si reagisca subito a un senso di disfatta e di impotenza che va insidiosamente diffondendosi. Per anni mi sono occupato di campagne antirepressive. Ora mi sembra assai più importante una campagna antidepressiva.
La matassa nella mia testa è ancora ingarbugliata, come dicevo, e lo sarà probabilmente ancora per un pezzo, ma credo di aver trovato il bandolo per cominciare a scioglierla. L’anarchismo «ottocentesco», sopravvissuto con qualche aggiornamento fino a oggi, in realtà non funziona più da almeno mezzo secolo. Sopravvive, appunto, ma con crisi periodiche e con trend inesorabilmente discendente. Esso ci tramanda una miscela di elementi datati (strategici soprattutto, ma non solo) e di elementi attualissimi perché – scusate l’enfasi – universalmente validi e dunque sempre attuali, tanto validi che, a pezzetti neutralizzabili, ce li stanno saccheggiando a destra e a sinistra. È oltretutto un anarchismo impoveritosi nelle sue manifestazioni, tanto da non riuscire a esprimersi altro (o quasi) che in forma di anarchismo politico, proprio quando paradossalmente non può dare prospettive politiche praticabili nel qui e ora: tra un’improbabile rivoluzione proletaria e sdrucciolevoli vie democratizzanti sembra restare spazio solo per la parola, non per l’azione. L’impasse è inevitabile.
Per uscire dall’impasse si deve inventare un anarchismo diverso, in cui si conservi il «nocciolo duro» del vecchio (ma, esattamente, qual è? Discutiamone, pensiamoci seriamente), perché senza questo nocciolo non c’è anarchismo né vecchio né nuovo. E si circondi questo nocciolo con una polpa di pensiero e di azione flessibili, adattabili, sperimentabili, discutibili, assolutamente non dogmatici. Si inventi così un anarchismo cangiante e multiforme in cui si riconosca il militante ma anche il poeta, che comprenda in sé la lotta ma anche la vita, che rifletta tutto ciò che nei comportamenti individuali e collettivi si muove in senso libertario e in essi si rifletta… Un anarchismo inteso come grande trasformazione dell’immaginario sociale che nega il dominio in tutte le sue forme, in tutti i «luoghi» culturali in cui da millenni si è insediato, dalle relazioni sessuali alle istituzioni politiche, dal linguaggio alla tecnologia, dall’economia alla famiglia, dai sentimenti alla razionalità. Questo anarchismo non conoscerebbe crisi. Cavalcherebbe le crisi. La crisi di riconversione dei trenta-quarantenni delusi dalla politica ma a disagio nella società; la crisi d’identità dei giovanissimi (il 10 per cento dei quali, stando a un sondaggio fatto un paio di mesi fa, non si riconoscono in nessuna area politica esistente ma ritengono che la società andrebbe radicalmente trasformata); la crisi di impotenza degli operai incazzati, delle casalinghe infelici, dei giovani disperati, dei non integrati, dei disintegrati, dei cassintegrati; la crisi di noia di… metteteci un po’ chi volete.
Un anarchismo come grande trasformazione culturale. È chiaro che una mutazione culturale di questa portata opera sui tempi lunghi. Ma deve operare sin d’ora, nelle forme e con i ritmi che la realtà circostante e la nostra volontà rendono possibili. Senza aspettare la rivoluzione (ma neppure necessariamente rinunciandovi) e senza disperarsi se non la si vede probabile né per domani né per dopodomani.
La rivoluzione non deve più essere né un mito né un alibi. La grande trasformazione deve cominciare adesso. Anzi, è già cominciata da oltre un secolo, perché se anche il vecchio anarchismo è finito in un cul-de-sac (ma più per colpa nostra che dei nostri «padri» e non certo per colpa dei nostri «nonni», per i quali era strumento perfettamente adeguato), esso aveva però già in sé tutti gli elementi essenziali della grande trasformazione, ed è certo che più di un mutamento culturale di segno libertario di quest’ultimo secolo è stato indirettamente indotto da quegli elementi. E che uomini e donne straordinari hanno prodotto quel vecchio anarchismo! Qualcuno di noi ha avuto la fortuna di conoscere personalmente quell’ultima generazione di vecchi anarchici «d’annata» che è in parte scomparsa e che sta inesorabilmente scomparendo, ed è grazie a questa conoscenza diretta che l’anarchismo non ci è stato trasmesso solo «di testa» ma anche «di cuore» e soprattutto che ci è stata in qualche misura trasmessa l’idea della ricchezza poliedrica dell’anarchismo. È anche pensando a loro che lancio questo messaggio di ottimismo. Abbiamo a nostra disposizione un fantastico filone d’oro. Smettiamola di scavare nella stessa direzione e non disperiamoci perché ci sembra che la vena sia esaurita. Proviamo in altre direzioni.
Fonte: Lasciamo il pessimismo per tempi migliori, «Volontà», n. 3, 1983.