capitolo undicesimo

Émile Henry e il senso della misura

Avevamo sempre creduto che Émile Henry e il suo attentato al Café Terminus facessero parte, come l’attentato al [Teatro] Diana e qualche altro episodio, del passato anarchico meno esemplare. Che, se non proprio uno «scheletro nell’armadio», fosse quanto meno quel tipo di anarchismo da spiegarsi (o forse solo da esorcizzarsi) con un particolare contesto socio-economico-politico, eccetera. Avevamo sempre creduto che tutto il movimento anarchico, traendo esperienza dal suo passato, avesse acquisito una concezione equilibrata del possibile uso della violenza come mezzo di lotta, che il «terrorismo anarchico», sia perché contrario alla nostra necessaria coerenza mezzi/fini sia perché dimostratosi disastrosamente controproducente, fosse considerato un «ramo secco», e che solo i più grossolani mistificatori prezzolati della storiografia e dell’editoria e della stampa potessero agitarne il fantasma.

Ci sbagliavamo. Alfredo Maria Bonanno, dalle pagine dell’ultimo numero della rivista «Anarchismo», in una recensione di Colpo su colpo, ci dice non solo che l’attentato di Henry fu un salto qualitativo (positivo) nell’uso rivoluzionario della violenza, perché segnò il passaggio dall’attentato discriminato (contro singoli personaggi del potere e del privilegio) all’attentato nel mucchio del «nemico di classe», ma che oggigiorno un gesto alla Henry indicherebbe un analogo «salto qualitativo» e porterebbe un «contributo teorico al movimento»!

Abbiamo cercato di ridere – a fatica, come di uno scadente umorismo nero – ma, pur sforzandoci di non prendere troppo sul serio quanto andavamo leggendo, ci sentivamo ugualmente rizzare i capelli in testa.

Abbiamo cercato di riderne perché conosciamo l’autore e la sua incontentabile esigenza di esibirsi in rodomontate sempre più impressionanti, pour épater le bourgeois, o più probabilmente, visto che di questi tempi è difficile impressionare il borghese con truculenze verbali decisamente inflazionate, pour épater l’anarchiste. Sono anni, del resto, che Alfredo Maria si va dedicando a flagellare il rammollito e imborghesito movimento anarchico (Lui escluso) con la modestia di un pubblico ministero, il garbo di un attaccabrighe e l’ingenuità di un pubblicitario.

Così, siamo riusciti ancora a «digerire», sullo stesso numero della stessa rivista, il pezzo su Proudhon dove ci invita a sparare in testa ad alcuni personaggi. Non è nuovo, il Nostro, a inviti del genere. Ha avuto un certo successo pubblicitario lo «spara, ragazzo, spara» (alias «armiamoci e partite») di un suo opuscolo condito di gioiose immagini come quella del cervello che schizza fuori dal cranio. D’altronde, sembra si tratti di questione semantica, più che altro: oggi pare si dica «ti sparo in bocca» con la stessa facilità con cui si dice «al limite», «cazzo» e «cioè». Certo dev’essere faticoso continuare a doversi superare in virulenza verbale per continuare a «fare scandalo». Si deve ricorrere a difficili esercizi retorici, come taluni recuperi tardo-ottocenteschi, già anticipati dal «falso Sartre», altro discreto successo pubblicitario (è tempo di revival): ad esempio le immagini del grasso borghese (che nel contesto è diventato l’intellettuale socialista) che si forbisce la bocca del sangue proletario e si toglie di tra i denti filacce semi-masticate di carne operaia. Ma sin qui siamo, forse, ancora nell’ambito di una cattiva retorica, non tanto in termini di gusto, quanto in termini di sproporzione troppo vistosa tra realtà e linguaggio.

Sin qui, dunque, non avremmo trovato sufficiente stimolo a prendere la penna, ad esempio, per chiedere polemicamente se l’Apocalittico ritiene che Malatesta fosse un rammollito quando discuteva con Costa e Merlino, anziché piantar loro una pallottola «in mezzo alla fronte», o per chiedergli secondo quale logica gli appare degno di quel trattamento un riformista e non uno stalinista, di quelli ad esempio di cui golosamente pubblica dovizia di documenti e comunicati.

La linea di demarcazione tra compagni è l’uso della violenza «rivoluzionaria»? Sono la bomba e la p38 (vere o di carta stampata)? Allora sono compagni anche i fascisti «rivoluzionari» dei nar [Nuclei Armati Rivoluzionari]?

Non avrei sin qui trovato sufficiente stimolo a raccogliere la «provocazione». Non perché, per carattere, sia del tutto estraneo al gusto della polemica. Il fatto è che dopo quasi vent’anni di presenza nel movimento, comincio ad averne fin sopra i capelli di polemiche, rivelatesi spesso – quasi sempre – occasioni di facile sfogo interno di un’aggressività che non si riesce a rivolgere all’esterno, così come l’ulcera è stomaco che si autodigerisce, corpo che si autoaggredisce, riflesso di un’angosciosa impotenza individuale. Una discussione, anche vivacizzata da qualche punta di bellicosità (come del resto richiama la radice greca della parola «polemica»), può essere costruttiva o comunque chiarificatrice, certo. Ma l’esperienza militante mi ha insegnato che quando la discordanza tra le posizioni è ampia e va oltre l’oggetto di una specifica questione, e ancor più quando vi è nell’interlocutore una palese e compiaciuta rissosità, la polemica ha alte probabilità di perdere i connotati sostanziali della discussione e diventare gioco di massacro verbale. Meglio allora scegliere non la via della polemica diretta, del botta-e-risposta, ma la via del confronto indiretto tra quanto si fa e dice e quanto fanno e dicono altre componenti individuali o collettive dell’anarchismo.

Eppure ho preso la penna, correndo il rischio di sopravvalutare l’importanza negativa di certa prosa, riecheggiando su «A» le allucinanti sciocchezze apparse su un’altra rivista. Il fatto è che la citata recensione, a mio avviso, supera il limite del consueto tremendismo di quella rivista, del violentismo verbale con cui si cerca di far vivere un surrogato in carta stampata dell’insurrezione, di spacciare per pratica sociale – non diversamente dalle Risoluzioni della Direzione Strategica dell’autonominatosi nucleo d’acciaio del Partito comunista combattente – quella violenza diffusa che è in realtà una pratica militante, versione armata dell’illusoria «rivoluzione domani». Su pregi e difetti di queste forme di lotta, su cui siamo ben lungi dall’esprimere un giudizio indiscriminatamente negativo, la discussione è tutta aperta, anche se a nostro avviso dovrebbe essere condotta con maggiore equilibrio e rigore morale, dal momento che la storia avrebbe dovuto insegnarci quale rapporto delicato e non facilmente prevedibile vi sia tra uso del mezzo violento e crescita rivoluzionaria e libertaria delle coscienze, cioè della coerenza sia etica sia tattica e strategica tra mezzi e fini. Finché, tuttavia, qualcuno fantastica di «sviluppo dello scontro a livelli inimmaginabili» (da leggersi con un crescendo di voce in falsetto e magari con inflessione artatamente dialettale, da falso proletario), vi si può semplicemente leggere un eccesso di «ottimismo» così come qualcuno di noi forse eccede in «pessimismo».

Quando però teorizza il colpire nel mucchio, si supera, credo, il limite tollerabile dell’artificio retorico costruito su misura di un improbabile catastrofismo, per cadere nell’irresponsabilità di un’eccitazione e autoeccitazione emozionale che sono più materia di psicoanalisi che di analisi politica.

Per ora, in quella recensione, si pone ancora un limite all’indiscriminazione della violenza: nel mucchio della «borghesia». Ma che cos’è la borghesia oggi? Se la colpa di chi si uccide non è individuale ma «oggettiva», di classe, come si stabilisce dove inizia e dove finisce quella «borghesia»? Laddove, come nelle strutture tardo-capitalistiche italiane, il potere è diffuso, diluito in una sfumatura continua così come diffusi, diluiti, intrecciati sono il privilegio e il parassitismo, dove lo Stato è interiorizzato, dove il «cuore dello Stato» è anche negli sfruttati perché non esiste più una cultura proletaria estranea e antagonista allo Stato, qual è questa borghesia da colpire nel mucchio? È vero che a livello di astrazione sociologica è possibile ancora individuare, come abbiamo fatto anche noi, una classe dominante (ibridamente capitalistica e tecnoburocratica) che occupa il vertice della piramide sociale, ma un conto è individuare le barriere di classe in sede analitica, un altro è identificarle operativamente.

È, in questa situazione, terribilmente facile dare di «borghesia» una definizione ideologica e psicologica dilatabile a volontà. E allora, per quale motivo ci si fermerà qui, nella escalation terroristica, e non si potrà procedere oltre e dichiarare che altri «salti qualitativi» sono possibili? Ad esempio si può sostenere (a parole si può quasi tutto) che ammazzare delle casalinghe o degli operai significa: 1) colpire individui «oggettivamente» colpevoli (le casalinghe votano dc e danno retta al prete e a Gustavo Selva, gli operai si «fanno Stato» con il pci e i sindacati…), 2) costringere gli ignavi sfruttati a risvegliarsi dal sonno televisivo e consumistico, e metterli di fronte all’oggettiva brutalità mascherata del sistema, 3) chi più ne ha più ne metta. E con quali motivazioni si potrà negare la validità di colpire nel mucchio l’odioso ceto medio?

Fermiamoci qui, perché nostra intenzione non è – per i motivi già esposti – tanto quella di discutere e dunque di argomentare punto per punto e ribattere e documentare, quanto di testimoniare la nostra indignazione e la nostra preoccupazione. Facciamo solo una considerazione finale. Ci pare di tornare indietro di dieci anni, al 1969, quando un manipolo di «arrabbiati» gridava nelle piazze «bombe-sangue-anarchia» e qualche esaltato irresponsabile in vena di nichilismo parolaio discettava sull’utilità o meno di mettere bombe nelle banche, tempio del capitale, e nei grandi magazzini, tempio del consumismo.

Poi venne la strage di Piazza Fontana, fatta da fascisti e servizi segreti meno parolai e attribuita agli anarchici. Non vorremmo ritrovarci per altri cinque anni a dover impegnare tutte le energie del movimento per spiegare di essere nuovamente vittime della «provocazione». E qui ci viene irresistibilmente alla mente l’immagine fotografica di Alfredo Maria Bonanno (pubblicata su un opuscolo edito da La Fiaccola alcuni anni fa) che tiene un comizio dall’alto di un palco su cui spicca una grande scritta: Le bombe le mettono i fascisti.

Peggio ancora. Dato che si va riflettendo anche in seno al movimento anarchico sulla disperazione/disgregazione dell’estrema sinistra (effetto della Grande Delusione delle aspettative rivoluzionarie a breve termine), che va sostituendo alla vitale creatività delle sue più felici espressioni una mortifera distruttività/autodistruttività (omicida-suicida), dato che esistono, oltre ai teorici da tavolino della «violenza proletaria», anche protagonisti in carne e ossa e nervi dell’angoscia esistenziale, dell’emarginazione e dell’estrema ribellione contro una situazione che appare indefinitamente «bloccata», non vorremmo che qualcuno prendesse alla lettera i vaneggiamenti sul colpire nel mucchio e mettesse, poniamo, una bomba in un bar di piazza del Duomo a Milano o – perché no? – in via Etnea a Catania.

Non basterebbe allora, a scaricare la terribile responsabilità morale, scrivere qualcosa di simile a quanto il Nostro scrisse in occasione dell’attentato alla questura di Milano, che è la più recente approssimazione di attentato nel mucchio (ma non poi tanto «nel mucchio» e semmai involontariamente). Allora noi, pur condannando il gesto, difendemmo la figura dell’autore contro le troppo facili e comode calunnie di matrice sinistrese. Non così l’Apocalittico, come risulta alle pagine 429-431 dei suoi scritti editi e inediti, raccolti nella preziosa antologia La dimensione anarchica. Segno anch’essa del tumultuoso mutare dei tempi: in epoca di deplorevole modestia borghese, queste antologie si pubblicavano postume e comunque non a cura dell’autore…

Fonte: Émile Henry e il senso della misura, «A rivista anarchica», n. 72, febbraio 1979-marzo 1979.

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