capitolo nono

Anarchici… e orgogliosi di esserlo

Sul noto fogliaccio reazionario «Corriere della Sera» (mi si perdoni il riferimento), il noto pennivendolo Indro Montanelli (mi si perdoni doppiamente il doppio riferimento) scriveva, a conclusione di un suo inopinato pezzo storico-letterario-sentimentale sul centenario della Conferenza di Rimini [1872], che, se vi è qualcosa ancora «di romantico, di poetico, di gratuito» nel movimento socialista italiano, lo si deve anche a una qualche sopravvivenza della natura originariamente anarchica del socialismo italiano stesso.

È, questa, un’affermazione che sollecita la nostra vanità sentimentale, ma che al di là di un briciolo di verità è fondamentalmente mistificatrice. Certo, la scelta anarchica, che è scelta globale, coinvolge in larga misura (assai più di altre scelte meramente politiche) anche aspetti esistenziali. Solo noi anarchici sappiamo quanto di «poetico» (cioè di ricerca della bellezza, dell’armonia nei rapporti interumani), di «romantico» (cioè di sentimentale, di emozionale), di «gratuito» (che va oltre cioè l’interesse immediato dell’individuo o della categoria), vi è stato nella nostra scelta iniziale. Ed è certo molto. Più di quanto vorremmo ammettere per un certo pudore e una radicata avversione per la retorica sentimentale e una diffidenza ragionata per l’«irrazionale». Ma non sono questi i tratti caratteristici dell’anarchismo. Questi sono tratti comuni a tante scelte umane e politiche. Anche la vecchietta monarchica che morendo lascia a Umberto di Savoia quattro soldini, risparmiati a fatica sulla pensione da fame, ha qualcosa di romantico, di gratuito e, in un certo senso, di poetico.

Non è l’adesione appassionata, disinteressata, di tanti militanti famosi e oscuri a distinguere l’anarchismo (che pure ne è ricco) dalle altre dottrine sociali e in particolare da quelle socialiste autoritarie, ma un complesso originale di ipotesi scientifiche e proposte di lotta, un patrimonio secolare di applicazioni, di approfondimenti, di rettifiche, di arricchimento di tali ipotesi.

L’anarchismo è insieme una scienza sociale e un progetto rivoluzionario. È, cioè, da un lato un sistema di ipotesi interpretative della società e della storia (ovvero del mutamento sociale), di analisi che, partendo dal riconoscimento dei mali sociali, risalgono alla natura dello sfruttamento e dell’oppressione, dell’ingiustizia e della diseguaglianza, ne seguono l’evoluzione storica e ne identificano le cause. E dall’altro, esso è anche (e soprattutto) un progetto rivoluzionario, cioè una volontà organizzata di trasformare radicalmente la realtà sociale, sostituendo alla logica gerarchica dei potenti (dei padroni, dei re, dei generali, dei vescovi, dei presidenti, degli alti burocrati…) la tendenza egualitaria e libertaria delle classi sottoposte (dei proletari, degli schiavi, dei servi della gleba, dei sudditi, dei cittadini…). Una volontà organizzata sulla base di scelte operative, strategiche e tattiche, derivate dalle ipotesi scientifiche assunte come fondamentali.

Se è da questa volontà che deriva la possibilità di passare dall’osservazione della realtà alla sua pratica trasformazione, è dalla validità della scienza sociale utilizzata per il «progetto» che deriva la possibilità di adeguare i mezzi ai fini, di ottenere cioè risultati conformi agli obiettivi posti.

La validità delle ipotesi nel campo delle scienze sociali si verifica non in «laboratorio» (se non per aspetti circoscrivibili a esperimenti ridotti nel tempo e nello spazio e con risultati più indicativi che risolutivi), ma nel «futuro», cioè nella conferma delle previsioni, nella verifica storica a posteriori.

Ora, sono passati cento anni da quando gli antiautoritari della Prima Internazionale (fondatori del movimento anarchico) enunciarono in modo dapprima intuitivo e schematico, poi man mano più completo e articolato, alcune ipotesi scientifiche di base, e a nostro avviso sono stati cento anni di conferme clamorose della validità di quelle ipotesi e di clamorosa condanna delle ipotesi autoritarie alternative. Cento anni di lotte sociali, di sommosse, di rivolte, di rivoluzioni, di esperimenti, di sacrifici, di realizzazioni, di delusioni, di sangue, di Spagna, di Russia, di parlamentarismo, di dittatura proletaria… che hanno verificato puntualmente le previsioni anarchiche e smentito quelle marxiste, che hanno verificato il progetto socialista antiautoritario e smentito quello autoritario.

Dimostrazioni palesi, se solo si voglia vedere, dimostrazioni tessute di fatti (e che fatti!) e non parole, dimostrazioni del fatto che, se vi è nel socialismo qualcosa di scientifico, di razionale, di sensato, esso attinge all’anarchismo.

Fra le ipotesi scientifiche dei pionieri dell’anarchismo voglio privilegiarne una, che ritengo fondamentale e dalla quale, a mio avviso, si possono derivare quasi tutte, se non tutte, le altre: quella dell’autorità. All’ipotesi economica marxista, che generalizzando una forma storicamente limitata voleva ricondurre alla proprietà dei mezzi di produzione la causa del privilegio e dello sfruttamento, gli antiautoritari opponevano l’ipotesi sociologica della distribuzione ineguale e gerarchica del potere come origine della diseguaglianza sociale.

Dall’ipotesi marxista derivò un progetto rivoluzionario che esauriva l’essenza della rivoluzione nell’abolizione della proprietà privata (facendo conseguire automaticamente da questo l’abolizione delle diseguaglianze «sovrastrutturali») e che si avvaleva di mezzi autoritari (Partito, Stato, ecc.). Dall’ipotesi anarchica derivò un progetto rivoluzionario che, accanto alla socializzazione dei mezzi di produzione, poneva contemporaneamente la distruzione dell’autorità nella sua forma sociale più completa e moderna – lo Stato – e che si avvaleva di strumenti organizzativi e operativi libertari (il mutuo accordo, la federazione, ecc.) in coerenza scientifica tra mezzi e fini. Alla distinzione tra ricchi e poveri, tra possidenti e non possidenti, gli anarchici affiancavano (e, generalizzando, talora anteponevano, considerando la diseguaglianza economica un aspetto particolare della diseguaglianza sociale e, in certe fasi storiche e probabilmente alle origini, un fenomeno derivato dal potere politico) la distinzione tra governanti e governati, tra quelli che comandano e quelli che devono obbedire.

L’ipotesi sociologica anarchica fondamentale comportò sviluppi necessari e fecondi in mille direzioni, arricchendo il patrimonio culturale del movimento anarchico e dell’intera umanità (grazie anche a influssi diretti e indiretti su pensatori «progressisti» e a «recuperi» riformatori del sistema). Si svilupparono così le acute critiche delle istituzioni coercitive, della pedagogia, della religione e della Chiesa, dell’amministrazione della «giustizia», della repressione sessuale, della famiglia patriarcale, e si svilupparono anche le proposte di integrare la città e la campagna, il lavoro manuale e quello intellettuale… In tanti psichiatri, pedagoghi, sessuologi, urbanisti di avanguardia si ritrova oggi l’ispirazione libertaria (per lo più diluita in modo da perdere il carattere dirompente) di quell’esplosiva fertilissima ipotesi antiautoritaria.

Nel campo più strettamente politico, da quelle ipotesi nacquero indicazioni sui modi per distruggere il potere (distribuendolo tra tutti attraverso un’organizzazione decentrata, federalista, basata sugli accordi anziché sulle leggi, sul consenso anziché sulla coercizione) e previsioni sul fallimento necessario del «socialismo di Stato».

L’ipotesi sociologica anarchica sulla natura della diseguaglianza sociale è un’ipotesi che oggi, a cento anni di distanza, trova conferma scientifica nella sua capacità di comprendere e interpretare mutate realtà socio-economiche, mutate forme di sfruttamento, sia nei paesi sedicenti socialisti che nell’Occidente neo o tardo o post-capitalistico (a seconda della terminologia preferita), mentre l’ipotesi marxista non spiega più nulla di fronte a sistemi dove la proprietà privata non esiste più (urss, ecc.) o dove al potere e ai privilegi da essa derivanti si affiancano quelli derivanti dal controllo esercitato nelle imprese e nell’apparato statale dai tecnoburocrati.

Infatti, l’ipotesi sociologica anarchica è ipotesi scientifica generale, applicabile sempre e ovunque, dalla tribù al superStato, dall’economia pastorale a quella post-industriale, mentre quella marxista è risultata applicabile (e con talune riserve) alla sola società capitalista classica. Così la natura delle classi e del conflitto di classe può essere ragionevolmente spiegata nella sua realtà attuale e nella sua generalizzazione scientifica solo facendo riferimento all’ipotesi anarchica.

Prendiamo, quasi a caso, un sociologo marxista, il polacco Stanisław Ossowski, moderatamente eretico, e il socialdemocratico Ralf Dahrendorf, sociologo tedesco e tecnocrate della cee [ue]. Il primo scrive in Struttura di classe e coscienza sociale che: «L’inadeguatezza della classica concezione marxiana-leniniana della classe all’analisi della struttura sociale dei paesi dai mezzi di produzione nazionalizzati ha trovato espressione da una parte nella concezione staliniana delle classi non antagoniste, dall’altra nelle discussioni sui sistemi di privilegi dei singoli gruppi della popolazione di questi paesi. Ma anche in rapporto ai paesi capitalisti il criterio marxiano della classe sociale ha perduto in parte la sua adeguatezza […]. La concezione ottocentesca della classe sociale, in questo caso sia nell’interpretazione marxiana che in quella liberale, anche sotto altri aspetti ha perduto nel mondo odierno una parte della sua attualità […]. Là dove il potere politico può apertamente ed efficacemente cambiare la struttura di classe, là dove i privilegi decisivi per la posizione sociale, tra cui il privilegio di una maggiore partecipazione al reddito sociale, vengono conferiti per decisione del potere politico, là dove una notevole o addirittura la maggior parte della popolazione è inquadrata in una stratificazione del tipo delle gerarchie burocratiche, il concetto ottocentesco della classe diventa in misura più o meno grande un anacronismo».

Dahrendorf scrive in Classi e conflitto di classe nella società industriale che: «Sussistono classi e conflitto di classe in ogni caso in cui l’autorità sia distribuita in misura diseguale tra le posizioni sociali. Potrebbe sembrare poco importante affermare che nelle associazioni della società post-capitalistica si ha una distribuzione diseguale di autorità; tale affermazione serve invece a stabilire l’applicabilità della teoria delle classi».

Ecco perché, cento anni dopo, le ipotesi e il progetto di Bakunin, Malatesta, Cafiero e degli altri pionieri dell’anarchismo sono ancora il progetto e l’ipotesi su cui si muove ostinatamente il movimento anarchico: per ostinazione della ragione e non del sentimento. Ecco perché a cento anni di distanza è ancora più che mai valida e insanabile (se non per artifici dialettici) la contraddizione fondamentale tra anarchici e marxisti, tra autoritari e antiautoritari, non per fedeltà a una contrapposizione di personaggi (Bakunin e Marx), ma per fedeltà a una scelta di fondo che si è dimostrata corretta nei fatti. Una scelta che è divenuta pratica di lotta e di organizzazione per centinaia di migliaia di militanti e simpatizzanti, una scelta che, divenuta da intuizione popolare intuizione scientifica (non dimentichiamo che lo stesso Bakunin dichiarò di avere imparato l’anarchismo dagli operai e dagli artigiani del Giura svizzero), è ritornata verità «viva» nella vita e nella militanza di operai, contadini, artigiani, muratori, minatori, nelle epopee rivoluzionarie e nell’oscura attività quotidiana di diffusione delle idee e di agitazione, nelle fabbriche, nelle scuole, nelle galere, nell’esilio, nelle piazze, nella clandestinità, nelle caserme, nelle campagne, nei gesti vendicatori e nella umanità del gesto quotidiano, nelle rivolte clamorose e nello sforzo educativo e autoeducativo… Nessun movimento sociale ha visto tanta creatività, tanta fantasia rivoluzionaria, tanta varietà di mezzi (nell’unicità del fine e del metodo): dal sindacalismo all’attentato giustiziere o protestatario (non terroristico), dall’impegno pedagogico all’agitazione di massa, dalla propaganda alla fondazione di comunità sperimentali, dall’insurrezione alla nonviolenza…

I cento anni vissuti dal movimento anarchico italiano e internazionale dalla Conferenza di Rimini e dal Congresso di Saint-Imier a oggi ci lasciano un patrimonio inestimabile di pensiero e di esperienza, un patrimonio etico-scientifico unico nella storia dell’emancipazione umana, per coerenza e vastità. (Non un’eredità su cui vivere di rendita, beninteso, o peggio su cui sopravvivere stentatamente esaurendola, ma un capitale, mi si perdoni la metafora, da investire nell’azione, nelle lotte, nello studio).

I cento anni vissuti dal movimento anarchico sono stati cento anni di sconfitte, di repressioni sanguinose, di errori, ma anche e soprattutto cento anni di conferme esemplari della sostanza dell’anarchismo, una serie di durissime prove di fronte alle quali è già quasi una vittoria che sia sopravvissuto come movimento e come sistema di pensiero.

La scienza sociale e il progetto anarchico, se nelle linee essenziali sono più che mai validi, mostrano certo nel loro sviluppo una povertà e un ritardo che mortificano l’anarchismo e che vanno superati nel pensiero e nell’azione. Ma senza complessi di colpa, perché il movimento anarchico ha fatto quello che ha potuto, immerso nelle lotte e alle prese con la repressione, senza mezzi e senza professionisti del pensiero politico; e senza complessi di inferiorità, perché nonostante tutto il disprezzo degli accademici (che è il disprezzo o la paura per tutto ciò che è semplice perché vero) quella scienza e quel progetto hanno segnato sinora il punto più alto raggiunto dal movimento di emancipazione dell’uomo nella sua millenaria storia di sforzi e fallimenti, di tentativi e sconfitte.

Per questo, per quanto oggi il movimento anarchico sia fragile e contraddittorio, appena ripresosi da una crisi che l’ha visto quasi scomparire dalle lotte sociali, per quanto il movimento anarchico sia oggi in taluni suoi aspetti insieme senile e infantile, siamo anarchici e, perdio, orgogliosi di esserlo.

Fonte: Anarchici… e orgogliosi di esserlo, «A rivista anarchica», n. 15, ottobre 1972.

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