2. Le previsioni sulle possibilità di azione anarchica in Italia negli anni Settanta e le indicazioni sui contenuti e sulle forme di tale azione sono necessariamente legate alla proiezione della realtà economica, politica e sociale in cui si troveranno ad agire gli anarchici.
A grandi linee, in tutti i paesi industriali a economia avanzata stiamo vivendo un processo storico di transizione fra il dominio della borghesia, basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, e il dominio della tecnoburocrazia, basato sulla proprietà «di classe» dei mezzi di produzione. Tale proprietà «di classe», non sempre facilmente identificabile per ora, si esercita soprattutto nella forma della proprietà statale, attraverso il controllo dell’apparato statale, ma anche in altre forme di transizione (ad esempio società per azioni a proprietà polverizzata, ecc.), e attraverso il controllo della produzione e della distribuzione del reddito.
Il dominio della nuova classe dirigente tecnoburocratica (il cui lungo cammino verso il potere è iniziato nell’Ottocento) è pressoché completo nei paesi sedicenti socialisti, ancora diviso con la borghesia, a diversi gradi di compartecipazione, nei paesi detti capitalisti.
Il nuovo regime sociale corrispondente al nuovo dominio di classe presenta molte sorprendenti analogie con il regime feudale, per cui non è forse impropria, e non è solo impressionistica, la definizione di feudalesimo industriale e di processo di feudalizzazione. Qualche analogia: la forma della proprietà, non più privata ma di classe; il potere e il reddito (percepito in misura rilevante sotto forma di «servizi») commisurati alla funzione, cioè al posto occupato nella gerarchia; la fusione di potere economico e potere politico, nonché di potere civile e religioso (il Partito e la Chiesa); la morte del mercato…
Numerose e variopinte sono le ideologie che esprimono gli interessi della nuova classe dirigente in modo più o meno chiaro e compiuto: dal fascismo al New Deal, dal marxismo-leninismo alla socialdemocrazia. Tutte queste ideologie sono caratterizzate dall’esaltazione più o meno esplicita dello Stato, della sua funzione economica e della programmazione (centrale) della produzione e della distribuzione. Infatti, è principalmente attraverso il controllo dello Stato che la nuova classe afferma il suo dominio ed è l’esigenza della pianificazione, conseguente alla morte lenta ma inesorabile del mercato, che porta con sé l’esigenza di una nuova classe dirigente.
Lasciamo le tendenze evolutive sul lungo periodo e veniamo alle tendenze evolutive della politica sul breve e medio periodo in Italia. Qui le previsioni si fanno più difficili, perché la storia non sempre procede in modo lineare nel dettaglio (dieci anni di politica italiana sono certo un dettaglio). Si possono comunque azzardare delle previsioni di massima, proiettando sul prossimo futuro le più forti tendenze individuabili nel presente.
Più o meno tutti i partiti politici italiani che contano esprimono le esigenze oggettive di quel processo economico-sociale che ho chiamato feudalizzazione. Tutte le politiche possibili portano cioè nella stessa direzione (di statalizzazione, di centralizzazione, ecc.): differiscono solo nei tempi e nei modi.
Fra le politiche possibili, la più probabile, a mio avviso, è un’evoluzione del «centrosinistra» con tempi di passaggio al feudalesimo abbastanza lunghi e con forme apparentemente democratiche (in realtà progressivamente totalitarie). L’asse di questa politica è destinato a spostarsi inesorabilmente a sinistra, fino ad assorbire il pci (dapprima nella forma dell’appoggio esterno, poi della partecipazione vera e propria al governo, poi verosimilmente dell’egemonia). Segni di questa tendenza, che porterebbe il pci al governo probabilmente entro il decennio, sono visibili in convergenze di fatto dei comunisti con il centrosinistra nel passato recente, nella forma dell’astensione su leggi importanti.
Tale tendenza è stata momentaneamente oscurata, ma non interrotta, dalla crisi di governo seguita alla scissione del psu (leggi cia) e dalla repressione contro la sinistra seguita alla serie di attentati provocatori («stranamente» concomitante con la manovra psu). Questi ultimi fatti possono essere interpretati come estremo tentativo di alcuni settori economici e politici di fermare il processo di feudalizzazione su basi autoritarie di tipo gollista o socialdemocratico-tedesco. Questa potrebbe essere una seconda ipotesi di realtà per i prossimi anni in Italia. Non credo però che questa ipotesi sia più probabile della prima. Tutt’altro. Credo che l’Italia possa veramente divenire ingovernabile senza il pci, cioè senza i sindacati.
Rimane una terza ipotesi ed è l’ipotesi del colpo di Stato. Lo spostamento lento dell’asse governativo a sinistra, fino ad assorbire il pci, potrebbe essere bruscamente interrotto dall’instaurarsi di un regime militare o para-militare di tipo neo-fascista (ma non necessariamente neo-fascista nella forma). È un’ipotesi per gli anni Settanta che, per quanto la meno probabile fra quelle viste, non è del tutto improbabile (tollereranno, gli americani, il pci al governo?).
3. Visto il probabile contesto economico-politico in cui si troveranno ad agire necessariamente gli anarchici nei prossimi anni, vediamo ora quali sono gli scopi dell’azione anarchica e poi, dati gli scopi e dato il contesto in cui perseguire gli scopi, vediamo quali forme e quale tipo di azione si possono sviluppare e con quali possibilità di successo.
Gli scopi generali dell’azione anarchica sono noti: costruire una società egualitaria e libertaria, una società cioè in cui sia assicurato a tutti il massimo di libertà mediante la pratica dell’eguaglianza, ovvero mediante l’abolizione della proprietà privata, mediante la distruzione delle strutture autoritarie e gerarchiche (lo Stato soprattutto), mediante l’integrazione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale… Sono questi, a grandi tratti, i fini anarchici di sempre e ovunque che non vengono modificati dalle situazioni contingenti.
Gli scopi specifici dell’azione anarchica in Italia nel prossimo futuro sono invece chiaramente determinati dalla situazione particolare in cui noi anarchici ci troveremo ad agire. Dovremo contrastare l’evoluzione in atto verso l’accentramento, verso la burocratizzazione, verso il sindacato unico di Stato, verso la statalizzazione di sfere sempre crescenti della vita umana, eccetera. Dovremo, in questo periodo, perseguire anche i fini generali, cioè quelli tesi alla costruzione della rivoluzione anarchica, senza illuderci di arrivare a uno «scontro frontale», cioè alla rivoluzione intesa come improvviso e violento rovesciamento del regime sociale, e senza illuderci che il tempo lavori per noi: ci troviamo già ora e ci troveremo sempre più in futuro a contrastare un processo storico, non ad assecondarlo o accelerarlo.
Lo spazio politico in cui ci troveremo ad agire nei prossimi anni è, in teoria, abbastanza ampio. Il pci è sempre meno rivoluzionario e sempre meno lo sarà. Alla sinistra del pci rimangono, è vero, tutte le sette marxiste-leniniste, le quali sono, per lo meno a parole, rivoluzionarie, a volte anche furiosamente; però tutte queste chiesuole sono caratterizzate dalla stretta osservanza dell’ideologia autoritaria marxista-leninista (stalinista). (C’è anche il movimento Lotta Continua, che sinora, grazie a un’ambigua evasività ideologica, è riuscito ad attirare e trattenere molti giovani tendenzialmente libertari, ma che in futuro è destinato – come già il ms [Movimento Studentesco] – a caratterizzarsi in senso marxista-leninista). A parte dunque alcuni gruppetti sparuti di marxisti sedicenti libertari di varia denominazione (situazionisti, consigliari, ecc.), non rimane che il movimento anarchico a raccogliere l’eredità rivoluzionaria del socialismo e insieme le istanze libertarie che le ultime lotte hanno indicato non morte tra i lavoratori e tra i giovani.
La libertà di manovra che avremo dipenderà naturalmente dalla prossima evoluzione della politica. Se, come appare probabile, continuerà il processo di lenta transizione verso l’autoritarismo tecnoburocratico, avremo ancora una certa libertà teorica di manovra – se pure decrescente – per un certo numero di anni. Anche se di fatto la nostra libertà di manovra, cioè l’efficacia della nostra azione, verrà sempre più limitata dalla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa (televisione, giornali e riviste ad alta tiratura, ecc.), tutti in mano al «nemico».
4. In questo spazio politico e con queste prospettive, l’azione anarchica dovrà a mio avviso differenziarsi in tutte le forme possibili di intervento sulla società: dalla propaganda anarchica specifica alla partecipazione a campagne genericamente libertarie, dall’anarcosindacalismo alla sperimentazione di forme associative e produttive libertarie.
Per quanto riguarda la propaganda anarchica specifica, mi preme sottolineare che essa dovrebbe essere preceduta e accompagnata costantemente da studi seri e approfonditi che tengano conto di quella trasformazione delle strutture economiche e sociali che ho chiamato processo di feudalizzazione. Per il resto, i suoi tradizionali contenuti di virulento attacco all’autorità e alla diseguaglianza sono più che mai attuali. Non inutile è anche un richiamo all’esigenza di aggiornare la forma del materiale propagandistico (giornali, manifesti, opuscoli, ecc.) e nello stile letterario e nella presentazione grafica.
Può essere importante e utile anche la partecipazione a campagne genericamente libertarie e particolari, quali l’antimilitarismo, l’antimperialismo, la «rivoluzione sessuale», la lotta anticlericale e antireligiosa, la lotta contro la repressione, ecc., per la possibilità che esse hanno di suscitare agitazioni popolari o anche solo di diffondere un certo spirito critico e libertario. Bisogna però che gli anarchici che partecipano a queste azioni non perdano mai la visione d’insieme, non dimentichino che sono impossibili soluzioni rivoluzionarie parziali, che all’interno del sistema sono solo possibili caricature di soluzioni (quali l’esercito di professionisti in alternativa al servizio militare obbligatorio, quali il divorzio e la pornografia in alternativa alla repressione sessuale, ecc.).
L’anarcosindacalismo è un altro settore di importanza fondamentale. Preciso che per anarcosindacalismo intendo non solo il sindacalismo rivoluzionario e libertario tradizionale (l’usi [Unione Sindacale Italiana] in Italia, la cnt [Confederación Nacional del Trabajo] in Spagna…), ma tutta quell’attività collegata oggi alle iniziative popolari di base, come i comitati unitari di base, le assemblee spontanee di fabbrica, i consigli di quartiere… ovvero tutte quelle iniziative dei lavoratori che sono mosse da spirito antigerarchico e ribelle. In questo gli anarchici devono operare con o senza una loro organizzazione anarcosindacalista specifica, ma comunque tra gli operai e i contadini, con gli operai e i contadini, per appoggiare tutte le loro iniziative libertarie ed egualitarie, per spingerli a usare mezzi di lotta rivoluzionari anziché avanzare semplici rivendicazioni (anche se gli obiettivi immediati per loro natura non possono che essere «riformisti»).
Un altro tipo di azione di estrema importanza è, infine, quello della sperimentazione di forme associative e produttive libertarie, cioè la costituzione di comunità anarchiche, di cooperative di produzione, ecc. Anche questo non è un argomento nuovo per il movimento anarchico, anche se da qualche tempo, per vari motivi, è finito fuori moda. Esperimenti di questo genere ne sono stati fatti in passato e sono tutti finiti male: quasi tutti falliti economicamente, tutti falliti politicamente. Ciononostante, questa è una via che deve essere di nuovo intrapresa, perché la rivoluzione anarchica si deve cominciare a costruirla nelle cose, già prima delle «barricate».
Si devono quindi sperimentare strutture associative e produttive alternative a quelle gerarchiche e autoritarie: comuni giovanili, cooperative libertarie con integrazione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, nuclei e attività collegati fra loro e con l’azione politica generale.
Inoltre – e qui il discorso si ricollega all’anarcosindacalismo – sarà forse possibile appoggiare o sollecitare (ma con cautela, perché in questo campo i fallimenti sono particolarmente scoraggianti) tentativi di autogestione in quelle aziende in cui questo è reso possibile da situazioni particolari (municipalizzazioni, requisizioni…) e dalla forza del movimento operaio.
5. Concludendo, le prospettive a medio termine non sono molto incoraggianti perché il processo di feudalizzazione è in fase avanzata (in Italia oltre metà dell’economia è controllata dallo Stato) e perché parallelamente si va generalizzando la tendenza ad accettare ideologie di tipo feudale. D’altro canto, resterà, almeno in teoria, un ampio spazio politico al movimento anarchico, perché l’anarchismo, con la sua coerenza libertaria ed egualitaria, resta sostanzialmente l’unica teoria che si oppone alla feudalizzazione ideologica, e l’azione anarchica resta l’unica possibile opposizione alla feudalizzazione economica e politica. Tale azione deve essere caratterizzata dalla multiformità e dalla sperimentalità, cioè non deve trascurare alcuna possibilità e deve sperimentare sin d’ora strutture alternative a quelle del potere. L’azione anarchica dovrà colpire in tutte le direzioni e le forme possibili (ma non in modo settoriale, specialistico, disarticolato, bensì organico e collegato), perché solo con la multiformità organica è forse possibile sottrarsi alla spaventosa capacità di neutralizzazione, di integrazione, del sistema.
Contro il flusso antianarchico della feudalizzazione bisognerà cercare di costruire la rivoluzione anarchica nelle coscienze e nelle cose con pazienza, con tenacia, senza illusioni.
Fonte: Una ipotesi di azione anarchica in Italia negli anni ‘70 (una analisi nuova per la strategia di sempre), in aa.vv., Anarchismo ‘70. Materiali per un dibattito, L’Antistato e Volontà, Cesena, 1970.