capitolo settimo

L’immaginario sovversivo

Un atlante che non includa Utopia non merita neppure uno sguardo, poiché lascia fuori l’unico Paese che l’umanità ha sempre avuto quale suo approdo, e quando l’umanità vi approda, spinge oltre lo sguardo e, scorgendo un Paese ancora migliore, alza la vela. La vecchia landa, la vecchia isola abbandonata ha perduto il suo nome di Utopia.

Oscar Wilde

Alternativamente l’utopia ha conosciuto periodi di fortuna e periodi di disgrazia, periodi cioè in cui prevalevano i suoi estimatori o i suoi detrattori. Gli uni e gli altri, comunque, non mancano mai: non manca mai chi usa il termine con connotazione negativa e chi al contrario gli attribuisce una valenza positiva. Un lungo periodo di disgrazia è stato quello che è seguito alla ben nota critica di Marx ed Engels (che tuttavia era assai meno distruttiva dell’atteggiamento dei loro epigoni e del cosiddetto «marxismo volgare»). Poi vi è stato un progressivo recupero di favore, anche presso marxisti come Ernst Bloch e Otto Rühle, sino a riguadagnare una prevalente connotazione positiva negli anni Sessanta. Nel frattempo, però, si sviluppava una nuova tendenza critica, questa volta di segno «liberal-democratico» (alla Popper, alla Dahrendorf) più che «scientifico-socialista», cosicché nella letteratura sociologica e politica degli ultimi dieci-quindici anni (così come negli atteggiamenti mentali e nei comportamenti sociali) si trovano elementi e argomentazioni pro e contro l’utopia in abbondanza e per tutti i gusti: rivoluzionari, riformisti, conservatori, reazionari.

Quello che appare abbastanza evidente a una lettura attenta dei libri e dei giornali è che le discordanze di giudizio sull’utopia nascono a) dalla molteplicità di significati attribuiti al termine e/o b) dai presupposti ideologici di chi esprime il giudizio.

Anche tra gli anarchici c’è stato, in oltre cent’anni, e c’è tuttora un ampio ventaglio di atteggiamenti, pur potendosi in genere escludere sia un rifiuto assoluto sia un’esaltazione acritica. Nel caso degli anarchici, l’uso in positivo o in negativo dei termini «utopia», «utopico», ecc., rimanda in parte a influenze culturali esterne, alle quali accade che la cultura anarchica di volta in volta risponda – un po’ troppo meccanicamente – per imitazione o per reazione, ma soprattutto al primo dei due motivi visti sopra, e cioè all’ambiguità semantica di quei termini. Preliminare dunque a qualunque discorso sull’utopia anarchica, e più in generale sull’utopia, è un’analisi dei significati che stanno dietro le parole.

Tesi del presente saggio è che l’utopia rappresenti, nella gran parte dei suoi significati, una dimensione ineliminabile e positiva dell’uomo – la dimensione della speranza, della volontà innovativa, della creatività – e che l’anarchismo debba, criticamente ma senza complessi, esplorare e dilatare quella dimensione. Se un Mumford scrive che «il compito più importante che ci aspetta è quello di costruire castelli in aria»1 (e si tratta notoriamente non di un sognatore ma di un concreto riformatore), se un Riesman scrive che «un risveglio della tradizione del pensiero utopico ci sembra uno dei più importanti compiti intellettuali del nostro tempo»2, se un Marcuse dice che «dobbiamo perseguire l’idea di una via al socialismo che dalla scienza porti all’utopia e non, come credeva Engels, di una via che dall’utopia porti alla scienza»3, a maggior ragione la cultura anarchica, che esprime la speranza e la volontà del più radicale mutamento sociale della storia, può e deve riappropriarsi di tutta la ricca positività dell’utopia, deve riconfermare il suo tradizionale «coraggio dell’utopia»4.

L’utopia, secondo Bloch, svolge tre funzioni fondamentali. La prima è quella di mostrare agli altri che «il reale non si risolve nell’immediato», la seconda di essere uno strumento di lavoro «che permette di esplorare sistematicamente tutte le possibilità concrete», la terza di «renderci coscienti delle imperfezioni di questo mondo, non per fuggirlo in un passato dorato o in un futuro illusorio, ma per trasformarlo secondo le esigenze proposte dall’utopia stessa». Un anonimo redattore così definisce l’utopia su una rivista d’arredamento: «[…] è aspirazione a una vita differente da quella che presenta la società che viviamo, è la proiezione di quella società che vorremmo. Utopia, quindi, non è sogno, non è chimera, non è fuga dalla realtà: ma è tensione intellettuale, pensiero per il futuro, progettazione»5.

Come affermazione o come negazione, troviamo nelle frasi precedenti tutti i significati rilevanti che vengono attribuiti al termine «utopia»:

1) ciò che è assolutamente irrealizzabile e dunque gioco gratuito della fantasia o fuga schizoide in un mondo illusorio;

2) immagine del futuro;

3) coscienza critica dell’esistente e tensione al mutamento sociale;

4) modello mentale di una società diversa;

5) progetto di una società diversa.

Resta fuori l’utopia come genere letterario, ma in questa sede non ci interessa. Che si esprima come saggio o come canzone, come sogno a occhi aperti o come piano, come racconto di viaggi o come romanzo di fantascienza, l’utopia ci sembra comunque di volta in volta riconducibile, come funzione sociale, a una o più delle accezioni su riportate, dall’evasione al progetto.

Il primo significato dell’utopia, come di cosa bella ma impossibile, di società ideale ma irrealizzabile (e dunque di sogno inutile, nel migliore dei casi, se non addirittura dannoso, perché può portare all’inazione o al contrario a forme di azione sociale irrazionale), è senz’altro quello più diffuso, soprattutto nel linguaggio corrente. Non ci si deve tuttavia lasciare eccessivamente impressionare dall’apparente crisma del «buon senso comune» (che sappiamo spesso derivare dall’ideologia dominante) e neppure dalla valenza negativa apparentemente inoppugnabile di questo significato.

È nuovamente necessaria una definizione terminologica e concettuale: che cosa si intende per impossibile e, nella fattispecie, che cosa si intende quando si dice che una speranza o un progetto di trasformazione sociale è irrealizzabile? Impossibile in assoluto o impossibile in un certo contesto? Impossibile perché in contraddizione con leggi scientifiche, biologiche, fisiche, chimiche, ecc., realmente determinate e ragionevolmente certe, oppure irrealizzabile nelle condizioni del presente, i cui modi di essere vengono arbitrariamente (e spesso con aperta disonestà scientifica) spacciati per leggi eterne e universali?

Mannheim ha ben chiaro l’errore (o il trucco) di «ignorare o confondere la distinzione tra ciò che è inattuabile in senso assoluto e relativo», tra ciò che per l’appunto chiama utopie assolute e ciò che chiama utopie relative. «La riluttanza a superare i limiti dello status quo», scrive, «porta a ritenere ciò che è irrealizzabile in un determinato assetto sociale come del tutto inattuabile in qualunque altro ordine, così che, venendo meno queste distinzioni, si possa negare la validità delle istanze contenute nell’utopia cosiddetta relativa. Denominando utopistica ogni idea che oltrepassa la realtà presente, si tende pertanto a eliminare il senso di incertezza che potrebbe insorgere dalle utopie relative»6. Non a caso, osserva, ogni qual volta un’idea è chiamata utopica, a ritenerla tale è quasi sempre un rappresentante di un’epoca già trascorsa.

Così, di volta in volta, sono state ritenute assolutamente irrealizzabili, dagli ideologi della classe dominante, le utopie di cui erano portatrici le classi in ascesa, o anche più modesti progetti riformatori, quali l’abolizione della schiavitù, il suffragio universale, il miglioramento delle condizioni di vita dei salariati, ecc. Fino a poco più di mezzo secolo fa, l’abolizione della proprietà privata era considerata un’utopia assoluta, mentre è ora una realtà indiscutibile per oltre un terzo dell’umanità. È pur vero che il «comunismo» tecnoburocratico che ha sostituito il capitalismo si è dimostrato orribile, ma gli orrori dello Stato-padrone (peraltro chiarissimamente previsti dai socialisti antiautoritari) non inficiano l’argomentazione di fondo: la realizzabilità di ciò che era ritenuto irrealizzabile, di ciò che si diceva essere utopia assoluta ed era invece utopia relativa.

È chiaro dunque che l’utopia di cui parleremo d’ora in avanti, quella che mi interessa e cui attribuisco un valore positivo insostituibile, non può essere l’utopia «assoluta», ma è altrettanto chiaro, mi pare, che non si può delegare la definizione di ciò che è assolutamente impossibile né al common sense, né all’ideologia (nel significato mannheimiano), né alla scienza di chi cerca di dimostrare che i comportamenti umani sono naturalmente determinati e quindi in larga misura immodificabili.

Noi siamo ragionevolmente certi (ragionevolmente, cioè non dogmaticamente) che il comportamento sociale dell’uomo sia essenzialmente culturale, cioè appreso, e che sia improponibile una sua assimilazione ai comportamenti animali, che sono essenzialmente istintuali. Proprio in questa mediazione culturale sta la specificità umana, il salto qualitativo tra l’uomo e gli altri animali, e qui stanno anche le radici della sua specifica libertà.

Nella «natura umana» sono in realtà a malapena identificabili (e, a dire il vero, neppure del tutto dimostrate) labili tracce di istinti in senso proprio, cioè di comportamenti geneticamente determinati, mentre quelli che comunemente sono indicati come istinti sono in realtà meri impulsi o «bisogni» fisiologici, la cui espressione comportamentale è tutta culturalmente determinata. Si sa, cioè, che anche le azioni umane corrispondenti alle funzioni biologiche elementari, quali l’alimentazione, l’accoppiamento, ecc., sono determinate, nel loro specifico modo di esplicarsi, dal mondo simbolico, dalla ragione, dalla religione, dai costumi, dalle leggi, dalle ideologie… e dalle utopie. E si sa che c’è un’evoluzione culturale, non necessariamente lineare e progressiva, che non procede solo per accumulazione quantitativa, ma anche per salti qualitativi, nelle scienze come nell’etica, nelle istituzioni come nei rapporti sessuali…

Non vogliamo con questo dire che l’uomo sia una tabula rasa dove si può scrivere tutto, casualmente e indifferentemente. Vi è, noi crediamo, un nucleo irriducibile nella «natura umana», un nucleo però in cui è a nostro avviso impossibile – per lo meno allo stato attuale delle conoscenze – discriminare quanto vi sia di natura in senso stretto e quanto di cultura. E mentre gli apologeti della diseguaglianza vogliono vedervi le radici insopprimibili dei comportamenti aggressivi e gerarchici, noi preferiamo vedervi l’insopprimibile ricerca della libertà e dunque dell’eguaglianza, che della libertà è la necessaria dimensione sociale.

E ancora, dal momento che non pretendiamo di dimostrare la necessità naturale delle nostre utopie, perché saremmo degli utopisti ben miseri e tutto sommato contraddittori, e soprattutto perché commetteremmo – simmetricamente – lo stesso errore scientifico degli antiutopisti, possiamo benissimo ammettere, senza rischio per la nostra coerenza logica, che nella «natura umana» ci siano, come potenzialità, la diseguaglianza, il dominio, la sopraffazione, ecc. Perché, comunque, noi sappiamo che esistono e sono esistiti tipi antropologici non aggressivi (si veda ad esempio la rassegna curata da Montagu)7; sappiamo che un tipo antropologico non gerarchico è possibile, non foss’altro perché è esistito in modo talmente solido da resistere per millenni alle pressioni culturali di segno opposto (si veda Clastres8, si veda in Evans-Pritchard la bellissima definizione del carattere propriamente anarchico dei Nuer9). Noi sappiamo dunque che, quand’anche ci venisse dimostrato (e sinora non ci è stato dimostrato in modo convincente) che l’aggressività reciproca, la gerarchia e altri consimili comportamenti, cari all’ideologia «scientifica» dello status quo, sono «scritti» nella natura umana, vi sono «scritti» allo stesso modo anche i comportamenti opposti. E sappiamo altresì che le «tendenze» aggressive, gerarchiche, ecc., possono essere annullate da meccanismi culturali che, anziché favorirle e potenziarle (o, forse, generarle), siano modellati su opposte «tendenze» solidali, egualitarie, libertarie… C’è la possibilità, e tanto ci basta.

Da un estremo all’altro: dalla prima definizione che, con le riserve viste, può essere quasi universalmente accettata come negativa, passiamo al secondo significato (utopia come immagine del futuro) che, in qualche misura, può assumere una valenza positiva per chiunque. Lo stesso Dahrendorf, che è uno dei più sottili – ma non per questo meno convinti – nemici dell’utopia, si vede costretto a precisare che «vi è un concetto più ampio di utopia che comprende ogni immagine del futuro». Non è a questo significato che egli si riferisce, perché «senza un’immagine del futuro gli uomini non riescono a vivere, e tanto meno a strutturare la loro vita. Desideri, sogni e speranze, programmi e obiettivi sono i moventi delle nostre azioni»10. È probabilmente a questa concezione dell’utopia che pensa un altro grande antiutopista, Benedetto Croce, quando in apparente contraddizione con altre frasi di decisa ripulsa della dimensione utopica, si lascia scappare che «l’utopia dell’oggi si converte nella realtà del domani», quasi parafrasando Oscar Wilde («il progresso è una realizzazione di utopie») e Karl Mannheim («possibile che le utopie di oggi divengano le realtà di domani»).

Il fatto è che il futuro è contenuto nel presente, come il passato. E non già solo come potenzialità, per cui «una valutazione dei fattori esistenti nel presente e un’analisi delle tendenze latenti in queste forze possono approdare a un risultato concreto solo se il presente viene interpretato alla luce della sua effettiva realizzazione nel futuro»11. Questo è, a mio avviso, una concezione meccanicamente limitativa dei rapporti tra presente e futuro, che non tiene conto dell’effetto di feedback psicologico per cui il futuro influenza il presente.

Più prossimo alle mie convinzioni è Bookchin, quando scrive che «chi cessa di cercare il nuovo e il potenziale in nome del realismo ha già perso il contatto con il presente, perché il presente è sempre condizionato dal futuro»12. È inconcepibile un uomo che esista nel puro qui e ora, se non come un sughero che galleggia passivamente sull’eterno presente. Se l’uomo agisce più o meno volontariamente, se sceglie più o meno liberamente, lo può fare solo grazie al suo passato e al suo futuro, o meglio alla sua immagine del passato e alla sua immagine del futuro. Di più, anche la sua rappresentazione del passato (che non è beninteso fatta solo delle sue esperienze personali, ma è partecipe dell’immaginario sociale) viene influenzata dalle sue previsioni e dalle sue aspettative, cioè dalla sua immagine del futuro, perché la memoria individuale (e collettiva) non è un magazzino, ma una funzione vitale che continuamente rielabora il passato, valutando e organizzando diversamente i dati che lo costituiscono.

Se è vero che noi viviamo concretamente solo qui e ora, è altrettanto vero che, da animali culturali quali siamo, nel qui e ora viviamo anche, simbolicamente, altrove e ieri e domani. Con una metafora spaziale, possiamo dire che il tempo dell’uomo è in ogni istante «tridimensionale», fatto cioè insieme di presente, passato, futuro.

Quanto sia importante il futuro per il presente lo hanno sempre saputo gli ideologi dello status quo, che sono sempre stati incaricati (preti o scienziati che fossero) di costruire un’immagine del futuro sostanzialmente simile al presente, di rimuovere dal futuro – e dunque dal presente – le aspettative incompatibili con l’ordine sociale esistente, spostandole in un tempo mitico o sostituendole con piccole aspettative di piccoli miglioramenti. Al contrario, i gruppi sociali opposti alla classe dominante (in lotta concorrenziale per il potere o in lotta antagonistica contro il potere) hanno sempre fatto un uso utopico del futuro, cioè sovversivo dell’ordine esistente.

Ma oggi, quando già da un pezzo l’utopia liberale si è rivelata per quello che era o che comunque è diventata – ideologia borghese – e neppure il progressivo smascheramento dell’utopia marxista per quello che era o che comunque è diventata – ideologia tecnoburocratica – può giustificare lo squallido repêchage dell’«utopia» borghese; oggi, quando neppure quel surrogato quantitativo di utopia che è il progresso come sviluppo economico sembra più garantire un futuro accettabile, che cosa succede? Succede che capita di leggere, sul principale quotidiano dell’establishment italiano brani come quello che segue. «Abbiamo paura del futuro, non riusciamo più a immaginarcelo. Gli uomini che vivevano secoli fa […] lo pensavano più o meno come il presente. In epoca più recente, con lo sviluppo della scienza e della tecnica si è diffusa l’idea di progresso: il futuro sarà migliore del presente […]. Oggi noi non siamo in condizione di immaginare come sarà il mondo fra cento anni. Se – come facevano i nostri predecessori – estrapoliamo il presente, dobbiamo pensare a un formicaio umano, dove tutto è razionato, città di cento milioni di abitanti, dove non sappiamo se regnerà l’anarchia o il totalitarismo […]. In ogni caso non riusciamo a immaginare qualcosa di felice e nemmeno di migliore. Questo vuoi dire aver perso il futuro. Ma una società che ha perso il futuro a cent’anni, ha, in realtà, un futuro a trenta, venti, dieci anni? La scomparsa del futuro remoto non coinvolge patologicamente anche il futuro più prossimo?»13.

Ecco allora un Alberto Cavallari, sempre sulle pagine dello stesso quotidiano, inneggiare a una nuova utopia, una «real-utopia» in cui «la politica si risposi all’etica». Perché «questo pianeta impazzito […] sta precipitando nel vuoto di una crisi spirituale illimitata». E «la crisi è la mancanza di futuro». «L’uomo deve realizzare una ‘mutazione culturale’, avere il coraggio di strategie e di politiche globali […]. L’uomo ha solo vent’anni di tempo per fare una ‘rivoluzione’ senza la quale il Duemila sarà l’inizio della catastrofe […]. Mentre si verifica la crisi di tutte le ideologie, mentre le politiche parziali e ‘realiste’ stanno creando la catastrofe, l’ultima piaga del millennio è credere che non vi sia più spazio per le utopie»14. Sembra di rileggere René Dumont, quando scriveva: «I Realisti, o quanto meno i migliori tra essi, ci mostrano che il ‘loro’ mondo va verso la catastrofe. Passano dunque la parola agli Utopisti che sono chiamati […] a ricercare le basi di tipi diversi di società»15!

Che cosa succede? Succede che la completa chiusura del futuro è pericolosa per la stabilità sociale come la sua completa apertura, e succede che qualcuno comincia a preoccuparsi di tenere aperto un qualche spiraglio di immagine decente del futuro, per evitare che ai difensori dello status quo resti solo un uso «terroristico» del futuro (proiezioni orribili per giustificare un presente «meno peggio»). O che si riapra nell’immaginario collettivo un uso veramente utopico del futuro, un uso veramente rivoluzionario – senza le virgolette.

Tre sono dunque le immagini del futuro: una è la lettura ideologica del futuro come copia del presente, copia fedele o appena ritoccata in meglio, che si presta solo a un uso conservatore; un’altra è quella che proietta alcune tendenze «degenerative» del presente per immaginare un possibile futuro peggiore e può prestarsi sia a un uso ideologico di conservazione dell’esistente («terroristico» o correttivo), sia a un uso utopico (o meglio distopico, cioè di utopia negativa che critica il presente amplificandone i difetti: si pensi a Zamjatin, Huxley, Orwell); un’altra ancora è la lettura propriamente utopica, che ci porta direttamente al terzo significato dell’utopia, quella ben identificata da Mannheim nella sua classica distinzione tra ideologia e utopia e nella sua altrettanto classica definizione di mentalità utopica. «Esistono due principali categorie di idee che trascendono la realtà presente: le ideologie e le utopie», scrive. «Le utopie trascendono la situazione sociale in quanto orientano la condotta verso elementi che la realtà presente non contiene affatto»16. Per Mannheim la realtà presente dà origine alle utopie, che a loro volta ne rompono i confini per lasciarla quindi libera di svilupparsi nella direzione dell’ordine successivo (verso una successiva «topia», direbbe Landauer)17, mentre la trascendenza dell’ideologia ha una funzione conservatrice, mistificatrice. E ancora: «Una mentalità si dice utopica quando è in contraddizione con la realtà presente […]. Utopici possono invero considerarsi solo quegli orientamenti che, quando si traducono in pratica, tendono, in maniera parziale o totale, a rompere l’ordine prevalente»18.

Così intesa, la funzione dell’utopia – come tensione innovatrice – non può che essere caricata di valenza positiva da chiunque condivida un rifiuto radicale dell’assetto sociale esistente. Qualsiasi progetto di trasformazione sociale che non si fermi al restauro del vecchio edificio (che non si limiti cioè a un’intelligente conservazione), ma miri quanto meno a un’ampia ristrutturazione, qualunque progetto non dico rivoluzionario, ma anche riformatore di ampio respiro, non può non partecipare a questa mentalità utopica, a questa consapevole contraddizione tra aspirazione e realtà. Chi oppone un realismo riformatore a un utopismo rivoluzionario non comprende che senza una certa dose di spirito utopico non è concepibile neppure alcuna vera riforma (come del resto senza una certa dose di realismo non è neppure possibile alcuna rivoluzione); oppure vuole spacciare, con l’aggettivo «riformatore», una pura e semplice realpolitik ed è solo uno dei tanti ideologi incaricati di esorcizzare l’utopia con banalità del tipo «meglio un uovo oggi che una gallina domani».

Mentre lo spirito dell’utopia, la tensione con cui il domani si riversa sull’oggi, ci dice che l’uovo di oggi può essere fatto dalla gallina di domani, che senza questa non avremmo neppure quello.

«Se l’utopia non si è spenta, né in religione, né in politica», scrive Silone, cristiano senza chiesa e socialista senza partito (come si era autodefinito), «è perché essa risponde a un bisogno profondamente radicato nell’uomo. La storia dell’utopia è perciò la storia di una sempre delusa speranza, ma di una speranza tenace»19. La tensione utopica è certo fatta di speranza, ma non solo di speranza. La speranza di un diverso assetto sociale non basta a definire la specificità della tensione utopica (se non forse nelle sue espressioni fideistiche): è necessaria anche la dimensione della volontà. La dimensione volontaria è la dimensione dell’intelligenza creativa, dell’intelligenza progettuale e ci porta diritto alle due ultime definizioni/funzioni dell’utopia: l’utopia come modello mentale e come progetto.

Qui siamo del tutto dentro lo spazio della ragione e della scienza sperimentale. L’utopia, scrive Carmela Metelli di Lallo, è «un ‘esperimento mentale’, formalmente analogo a quello che ha contribuito al balzo in avanti della scienza contemporanea, là dove ‘scienza’ non significa accumulazione di fatti, ma sfida al mondo come fenomenologicamente avvertito, in virtù di un disegno teorico non ricavato dal già noto, bensì proposto dall’intelligenza creativa al fine di scoprire significati del mondo altrimenti irreperibili»20. E ancora, George Kateb: «Molti libri utopici sono in effetti delle sociologie di vasta portata e fanno progredire la nostra comprensione dei rapporti sociali nello stesso modo degli studi sulle società reali condotti su larga scala»21.

Come attraverso l’uso di modelli la scienza sociale può rappresentarsi e comprendere strutturalmente e funzionalmente i sistemi reali, così attraverso l’uso di modelli utopici è possibile esplorare razionalmente lo spazio dell’«impossibile», per discriminarne il relativo dall’assoluto e per trarne ulteriori elementi di critica razionale alla falsa necessità dell’esistente. Attraverso l’uso di modelli, l’utopia allarga lo spazio del progettabile al di là dell’immediatamente possibile e consente un ulteriore screening in sede logica delle coerenze e delle incoerenze nei progetti di mutamento rispetto ai valori verso la cui realizzazione si vuole indirizzare il mutamento stesso.

Se della trasformazione sociale auspicata si ha una concezione volontaria, progettuale (dell’uomo che si costruisce il suo futuro), è perfettamente adeguato un uso – critico – dei modelli utopici, non solo di quelli positivi, ma anche di quelli negativi, di quelli cioè che prospettano gli sbocchi allucinanti cui può portare la realizzazione di certi modelli.

Il riformatore, il rivoluzionario, può fare a meno di proporre modelli e progetti minuziosamente dettagliati, ma non può fare a meno di indicare chiaramente la direzione del mutamento. E per indicare la direzione non basta indicare i valori perseguiti (libertà, eguaglianza, giustizia, ecc.) perché questi valori restano parole dai cento significati se non sono lette dentro un contesto sociale, reale o progettuale, che dia loro un senso preciso.

Solo una concezione angustamente deterministica del mutamento sociale può fare a meno di modelli, nella convinzione che il nuovo non debba essere progettato e costruito ma sia tutto dentro i meccanismi necessari – della storia o della provvidenza. Neppure il materialismo storico dialettico ha potuto rinunciare del tutto ai modelli. Marx, come è noto, è stato molto prudente nella descrizione della società comunista. Più volte arriva alle soglie di una descrizione di questa società, per poi indietreggiare e accontentarsi di alcune formule generali, che adotta molto presto (nel Manifesto) e che poi tornano ad apparire spesso (dall’Ideologia tedesca alla Critica del programma di Gotha). Si tratta di un modello appena accennato, utile tuttavia a lui e ai suoi seguaci per darsi un’identità che non sia esclusivamente «scientifica»… e sufficiente agli anarchici per denunciarne il carattere autoritario e gli sbocchi totalitari. Ma si è rivelato un modello insufficiente per i suoi epigoni, alle prese dapprima con un movimento che voleva sapere un po’ meglio dove stesse andando e poi con i problemi della costruzione di un socialismo che non nasceva da solo. Costoro, per ironia della storia, hanno così fatto rientrare dalla porta di servizio molte «invenzioni» degli utopisti. E certo non tutte scelte tra le migliori, visti i risultati. Oppure hanno sperimentato in vivo – cioè sulla pelle di milioni di persone – ciò che avrebbe potuto essere vagliato in sede logica.

Paradossalmente più scientifici, in questo, dei «socialisti scientifici», i socialisti utopisti avevano proposto modelli meno vaghi che potevano essere più facilmente discussi, accettati, rifiutati. Non dico che fossero necessariamente più scientifici (o più desiderabili) i contenuti delle loro proposte, che spesso non lo erano; dico che era più scientifico il metodo, come faceva osservare Martin Buber22. In più, quando gli utopisti o i loro seguaci passarono dal modello al progetto, e da questo alla realizzazione, lo fecero non sperimentando su cavie involontarie, in nome della storia, ma in comunità volontarie.

I risultati, positivi e negativi, delle migliaia di esperimenti utopici, di queste «utopie» realizzate (in modo più o meno effimero, su scala più o meno ridotta, dalle «icarie» americane ai kibbutzim israeliani, dalle comunità industriali francesi alle collettività agricole spagnole)23, hanno fornito un ricchissimo materiale scientifico, quanto e più forse delle colossali sperimentazioni «storiche» dell’Unione Sovietica e della Cina, un materiale ancora in gran parte inutilizzato dall’adolescente «scienza della libertà».

Dopo le precedenti riflessioni sull’utopia nel suo complesso, e prima di passare a considerare più in specifico l’utopia anarchica, è utile soffermarsi brevemente su un paio di osservazioni generali.

Primo: tutte o parte delle definizioni/funzioni che abbiamo distinto nella nostra «classificazione» possono benissimo essere considerate come aspetti di un’unica funzione utopica, se beninteso vengono a esse attribuite specificazioni tra loro coerenti. Ciò, del resto, è apparso chiaramente anche in sede di trattazione analitica, nei passaggi da un significato all’altro. Tra questi aspetti dell’utopia, cioè, possono essere tracciati collegamenti logici tali da ricomporli unitariamente. Ad esempio si può assumere che da una tensione «oggettiva» al mutamento, dovuta alle «oggettive» contraddizioni di un determinato sistema sociale, nasce un’immagine del futuro che nega il presente e che si può tradurre in modelli e progetti «impossibili» in senso relativo, i quali a loro volta, attraverso una retroazione sull’immaginario collettivo, aumentano la tensione verso la rottura dei limiti dell’esistente. Questo significa, nel nostro caso, che i diversi aspetti dell’utopia anarchica possono essere studiati singolarmente, ma devono anche essere considerati come necessariamente correlati l’uno con l’altro.

Secondo: se la funzione utopica è propria di qualunque movimento sociale che persegua una trasformazione radicale, essa non ci dice, di per sé, nulla sul senso di questa trasformazione. Una volta osservato che l’ameba, il pesce, la farfalla e il cavallo sono in grado di spostarsi nello spazio, lo studio della funzione locomotoria è ancora agli inizi: per procedere è necessario andare oltre l’osservazione che questa funzione è presente in (quasi) tutti gli organismi animali e assente in (quasi) tutti quelli vegetali. Ciò che ulteriormente definisce e qualifica le singole «utopie» sono i valori su cui si fondano, le aspirazioni e gli interessi di cui sono espressione dichiarata o meno, i contenuti dei modelli esplicitamente o implicitamente proposti, la natura dei mezzi e delle strategie indicate… Questo significa, nel nostro caso, che la funzione utopica dell’anarchismo va letta dentro il suo contesto teorico-pratico specifico.

Anche un attento studioso dell’utopia come Mannheim non ha saputo cogliere la specificità dell’utopia anarchica. Egli infatti vi vede solo l’ultima, moderna espressione dell’utopia chiliastica o millenaristica. Ora, è vero che, parafrasando quanto lui stesso scrive del bolscevismo, molti dei fattori costitutivi dell’atteggiamento chiliastico si trasformarono e si trasferirono nell’anarchismo (specie in certo anarchismo popolare, latino e slavo), in cui assunsero la funzione di accelerare e catalizzare l’azione rivoluzionaria, ma è anche vero che prima, dopo, a lato e perfino dentro quelle espressioni «chiliastiche» dell’anarchismo ritroviamo altre espressioni che presentano al contrario forti affinità con altre due forme mannheimiane: l’utopia «liberal-umanitaria» (o illuministica) e l’utopia «social-comunista».

In realtà, l’utopia anarchica non è riconducibile ad alcuna delle altre forme, se la funzione utopica viene letta in tutti i suoi aspetti costitutivi e in relazione ai tratti essenziali dell’anarchismo. Essa possiede una specificità straordinaria, non riconoscendo la quale è possibile darne solo un’interpretazione riduttiva e – in buona o mala fede – caricaturale, facendone, di volta in volta o tutt’insieme, una variante tardo-millenaristica, tardo-illuministica o proto-socialista.

Il fondamento assiologico dell’anarchismo, cioè il valore «primo» da cui derivano e cui fanno riferimento costante la teoria e la pratica anarchiche è la libertà. Non volendo qui occuparci della libertà come categoria filosofica ma come categoria sociologica, la definiamo, in prima approssimazione, come assenza di potere. Ne diamo una definizione in negativo perché, in questo contesto, ci pare più utile di una definizione in positivo (del tipo «massimo sviluppo delle potenzialità personali», ecc.). D’altro canto, come indica anche l’etimologia della parola «anarchia», gli anarchici sono convinti che l’assenza di potere sia per l’appunto la condizione sociale che consente il massimo sviluppo… eccetera.

«Assenza di potere» è tuttavia ancora una definizione insufficiente, se non si definisce a sua volta il potere. Con un’altra semplificazione un po’ approssimativa, definiamo qui il potere come la facoltà – attribuita a determinati ruoli sociali – di emanare norme e applicare sanzioni; di emettere ordini e farli eseguire. Ovvero come una serie di rapporti sociali autoritativi permanentemente asimmetrici. Ci spieghiamo. Se, con un uso un po’ eretico rispetto alla semantica anarchica tradizionale, intendiamo per autorità la natura asimmetrica di un rapporto sociale in termini di facoltà decisionale, dobbiamo riconoscere che l’autorità è presente in forme più o meno accentrate ed esplicite in ogni società, reale o immaginaria. Essa appare cioè come una funzione sociale ineliminabile, quanto meno come funzione collettiva (l’assemblea, l’opinione pubblica, ecc.). In società altamente differenziate, non basta immaginare un’autorità collettiva indivisa: in esse è indiscutibilmente ampia la gamma di scelte che oltrepassano la sfera individuale e che non possono essere effettuate collettivamente da tutti gli interessati in senso rigoroso, cioè con unanimità rigorosa e su un piano di rigorosa parità, sia per motivi di funzionalità sia per motivi di competenza, ecc. Singoli rapporti possono così esplicarsi in forma asimmetrica, tra gli individui e tra essi e la comunità. Ma questa asimmetria non è ancora potere se, nel loro complesso, i rapporti sociali ricompongono una sostanziale equivalenza di autorità di tutti gli individui, se cioè si verifica quello che potremmo chiamare un generale ed equo «scambio simbolico» di autorità, per cui nessuno è determinato nel suo comportamento più di quanto determini il comportamento altrui.

Quando invece l’asimmetria tra gli individui viene resa permanente, quando l’asimmetria tra i singoli individui e la comunità viene sottratta all’accettazione spontanea dei suoi limiti inevitabili e la relativa autorità diventa funzione separata dalla società, mediata e imposta da gruppi sociali particolari, quando cioè l’asimmetria viene istituzionalizzata in strutture e codici di comportamento gerarchici, allora nasce il potere.

Il potere deriva dall’autorità, ma non necessariamente, come la diseguaglianza può nascere dalla diversità, ma non necessariamente.

Ripetiamo, a scanso d’equivoci, che il significato che abbiamo qui attribuito ai termini autorità e potere24, per esigenze analitiche, non corrisponde all’uso corrente degli anarchici (che per lo più avvolgono entrambi i termini in un’unica e indistinta valenza negativa) e neppure all’uso corrente degli apologeti della gerarchia, che volutamente confondono autorità e potere per giustificare il secondo con la prima (si veda il banale esempio engelsiano del capitano di nave, ma anche le più sofisticate argomentazioni di Dahrendorf). Distinguendo a modo nostro i due termini, possiamo dire che, per l’anarchismo, quanto più permane o si sviluppa la libertà, tanto più si impedisce che l’autorità diventi potere e la diversità diventi diseguaglianza. Con una differenza sostanziale: che l’autorità presenta per sua natura un alto rischio di trasformarsi in potere, cioè di contraddire e ridurre la libertà, mentre la diversità è perfettamente congeniale con la libertà. La prima va pertanto ridotta ai «minimi» fisiologici, anche come funzione collettiva25, mentre la seconda va dispiegata in tutta la sua ricchezza sino ai «massimi» fisiologici.

Dunque la libertà sociale dell’anarchismo significa necessariamente anche eguaglianza e diversità. O, se si preferisce, la libertà anarchica, che è la più estrema e coerente interpretazione sinora pensata e progettata, può anche essere letta come la più estrema e coerente eguaglianza (perché è tale anche di fronte all’autorità, negandone la trasformazione in potere, cioè in autorità diseguale) coniugata alla più estrema e coerente diversità.

Infatti, lungi dall’essere contraddittori, i concetti di eguaglianza e diversità sono complementari: è la diseguaglianza, paradossalmente, che porta all’uniformità, al livellamento, alla massificazione. Scrive Guiducci: «Anche oggi si sente stancamente ma accanitamente ripetere che proporre l’eguaglianza significherebbe violentare la natura umana, che comporta le differenze, quando è semplice comprendere che le differenze diventano possibili, e senza conflitti per tutti, in situazioni di eguaglianza, e tendono a schiacciarsi, invece, nei livellamenti oppressivi delle classi e degli strati dove tutti sono intercambiabili»26. Come dicevo, scrivendo di autogestione: «La diversità, invece, dev’essere non solo accettata, ma esaltata, ricercata, creata e ricreata continuamente. Perché la diversità è un bisogno dell’uomo, perché la diversità è un valore in sé. Diverso è bello»27.

Libertà, eguaglianza e diversità al più alto grado possibile e in necessaria coerenza tra loro: questo è il nocciolo della specificità anarchica. E da ciò deriva la specificità dell’utopia anarchica.

L’anarchismo è dunque la speranza e la volontà di una trasformazione sociale talmente radicale, talmente in contraddizione con l’ordine esistente, da rendere possibile una fortissima tensione utopica. Ma quella stessa fortissima tensione utopica è anche necessaria per indirizzare l’azione sociale verso un mutamento così eccezionale da implicare un vero e proprio salto di qualità: maggiore è lo scarto fra l’esistente e ciò che lo nega, maggiore deve essere la tensione per consentire al «futuro» di riversarsi sul presente per trasformarlo, per consentire all’impossibile di diventare possibile. Incidentalmente, questo forse spiega la presenza di elementi chiliastici nei movimenti anarchici di massa.

Poiché il mutamento anarchico implica un salto di qualità culturale (una «mutazione culturale», staremmo per dire), la funzione dell’utopia anarchica è innanzi tutto la funzione rivoluzionaria di far crescere la speranza e la volontà di cambiare la società sino al punto non semplicemente di superare i confini di un dato sistema di potere, ma di spezzare addirittura la tenace membrana culturale che separa lo spazio simbolico del potere dallo spazio simbolico della libertà. Una membrana fatta dal millenario depositarsi e stratificarsi e tramandarsi di generazione in generazione, nelle strutture caratteriali e nell’immaginario sociale, dei comportamenti gregaristico-autoritari e dei valori gerarchici, dei fantasmi e dei miti costruiti da e per società costituzionalmente divise in dominanti e dominati.

In questa rottura culturale sta il vero senso della rivoluzione anarchica, che non è le grand soir, non è l’apocalisse, ma una «mutazione» culturale di intensità e portata inaudite, fatta di trasformazioni etiche strutturali, comportamentali, di trasformazioni individuali e collettive. Poiché lo Stato è soprattutto nella testa della gente, dei servi più ancora che dei padroni, la funzione utopica è funzione rivoluzionaria in senso anarchico se e in quanto riesce a dissolvere questo «Stato inconscio», consentendo la liberazione di energie potenziali enormi, aprendo le tanto temute – dai padroni, ma anche dai servi – «cateratte dell’anarchia».

La tensione utopica dell’anarchismo non si esaurisce tuttavia nella funzione rivoluzionaria che consente il salto culturale, perché essa non porta da un sistema chiuso a un altro sistema chiuso, come succede per le utopie che si muovono nello spazio del potere. L’utopia anarchica è un’utopia permanente, forse l’unica utopia che non possa diventare ideologia nel senso mannheimiano, cioè giustificazione dell’esistente. Si può certo immaginare un calo di tensione, dopo la rottura rivoluzionaria, ma la specificità libertaria dell’utopia anarchica garantisce comunque la permanenza di un’irriducibile tensione al mutamento. Perché lo spazio in cui sposta la società è lo spazio delle infinite possibilità da esplorare. La società libertaria è la società aperta. L’utopia anarchica è un orizzonte irraggiungibile: si può dire di essere arrivati in India, quando invece si è arrivati in America, e ci si può costruire sopra un’ideologia, ma nessuno può dire di aver raggiunto l’orizzonte. E nessuno potrà mai sostenere che le infinite forme della libertà si siano esaurite.

L’utopia anarchica è dunque lo spazio di mille utopie, che non solo possono succedere l’una all’altra, come nell’immagine di Wilde, ma anche coesistere in diverse società contemporanee o addirittura in seno alla medesima società. L’utopia anarchica non ha nulla a che vedere con quelle «costruzioni monolitiche e omogenee, in cui manca il mutamento» paventate da Dahrendorf. Questo può essere vero di singole costruzioni utopiche, di singoli modelli utopici. Non abbiamo anzi difficoltà a riconoscere che la gran maggioranza del modelli utopici presenta questo carattere di asfissiante conformismo e di morta stabilità (non a caso moltissime utopie – quasi tutte – erano utopie autoritarie, cioè modelli di potere). Lo stesso non può dirsi della funzione utopica che è funzione dinamica, come si è visto, e proprio la sua scomparsa, semmai, porterebbe a una «condizione statica in cui l’uomo non è più che una cosa», implicando «la fine stessa della volontà umana»28. E ancor meno si concilia con la specificità dell’utopia anarchica l’immagine che lo stesso Dahrendorf dà della società egualitaria, confondendo diseguaglianza e diversità: «La società totalmente egualitaria è un’idea non soltanto non realista ma anche terribile: in Utopia non regna la libertà […] ma la perfezione del terrore o della noia assoluta»29. Perché l’anarchismo presuppone una scelta della libertà che è la massima concepibile garanzia di quella libertà di scelta di cui soltanto si occupano i liberal-democratici alla Dahrendorf.

L’utopia anarchica è lo spazio delle mille utopie, ovvero è lo spazio dei mille modelli che esplorano le forme della libertà, con la duplice funzione di agire sovversivamente sull’immaginario sociale (indicando le possibilità dell’«impossibile», dimostrando credibile l’«incredibile») e di sperimentare mentalmente progetti di società libertarie ed egualitarie. La costruzione di modelli e il loro raffronto sono operazioni logiche che, come dicevamo, consentono di esplorare razionalmente il futuro che si vuole costruire, proprio per poterlo costruire, riducendo l’ambito della sperimentazione in vivo, dei tentativi e degli errori. Forse, per fare un esempio, molti degli errori e delle fatali incertezze della Rivoluzione spagnola avrebbero potuto essere evitate se il movimento anarchico avesse avuto una visione meno semplicistica della società liberata e dei meccanismi decisionali e dell’enorme problematica della transizione.

Il rifiuto, da parte di alcuni anarchici, di fare questa sperimentazione mentale, di discutere cioè i problemi dell’organizzazione sociale egualitaria e libertaria, è irragionevole, sia che nasca dal timore di «fughe in avanti» sia dalla considerazione che la costruzione della libertà è compito non loro ma delle masse, del protagonista collettivo della rivoluzione sociale, e che ora ci si debba occupare solo del momento distruttivo. Gli errori che stanno dietro a queste argomentazioni sono riconducibili a un’incomprensione della funzione utopica, oppure a una concezione strettamente deterministica della storia o strettamente naturalistica dell’uomo, oppure ancora a una visione mistica, apocalittica della rivoluzione. È un rifiuto che mortifica la creatività sovversiva, che impoverisce il bagaglio intellettuale e la stessa carica emotiva dell’anarchismo, che rischia infine di lasciare la teoria e la prassi libertarie disarmate di fronte ai problemi immediati della distruzione/costruzione e soprattutto di fronte alla formidabile forza d’inerzia sociale con cui il potere si ricostruisce dopo ogni rottura rivoluzionaria.

«Se il vecchio Padrone morisse», scrive Guiducci, «il Servo riuscirebbe finalmente a vincere, ma non saprebbe costruire una nuova società. Infatti ha praticato sempre il rigetto, ma non ha mai elaborato un progetto di società alternativa capace di funzionare democraticamente in ogni sua parte»30. Di una società senza Stato, direbbe più esplicitamente un anarchico.

Lo Stato, oggi più che mai, riassume in sé il principio gerarchico. Se ieri era solo l’organizzazione del potere politico, oggi lo Stato – di fatto o tendenzialmente – assorbe e giustifica (e ne è giustificato) una gran varietà di funzioni sociali (economiche, pedagogiche, logistiche, culturali, assistenziali). L’utopia dello Stato – l’utopia tecnoburocratica – è la strutturazione di tutta la società secondo le sue linee gerarchiche, è il vero potere assoluto. È un’utopia che se si realizzasse significherebbe la morte della società, ma paradossalmente anche il suicidio dello Stato.

Come il virus cancerogeno va a sostituirsi ai nuclei cellulari, cellula dopo cellula, tessuto dopo tessuto, fino a uccidere l’organismo, così lo Stato invade sempre più ampiamente e pervasivamente la società. L’utopia anarchica è dunque l’anticorpo che la società deve produrre in quantità crescente se vuole sopravvivere.

La società contro lo Stato dell’utopia anarchica è la rivolta dei gruppi sociali dominati (delle classi sfruttate, delle donne, delle minoranze oppresse…) contro il principio della dominazione, contro la logica del potere riassunta nello Stato. Ma perché la società si possa muovere contro lo Stato, essa deve innanzi tutto potersi immaginare – come possibilità reale, non come sogno – senza poliziotto, prete, giudice, padrone, burocrate, compagno dirigente… Deve cioè potersi concretamente immaginare senza ruoli di potere, senza strutture gerarchiche. Deve pensare – e per quanto possibile sperimentare – forme di autogestione e di democrazia diretta, di decentramento e di federalismo. Deve pensare e sperimentare rapporti non gerarchici tra uomo e donna, tra adulti e bambini, tra città e campagna, tra lavoro manuale e lavoro intellettuale… Deve pensare e sperimentare modelli utopici anarchici, appunto.

«Non abbiamo la minima intenzione», scriveva Bakunin, «di imporre a qualsiasi popolo un sistema sociale tratto dai libri o da noi elaborato. Il popolo sarà felice e libero solo se potrà organizzarsi da se stesso»31. Ma ciò che qui viene negato con forza non è la progettualità utopica in genere, bensì è la pretesa, irrimediabilmente antianarchica, di imporre dall’alto piani globali al presente e al futuro; è l’orribile sogno tecnocratico di tanti aspiranti ingegneri sociali di costringere la realtà nella camicia di forza della loro razionalità; è la «felicità» pre-confezionata per il popolo da «prìncipi illuminati» (o da dittature «rivoluzionarie»), la «felicità» delle utopie autoritarie costruite sull’idea che di felicità hanno i loro autori.

Al contrario, le utopie antiautoritarie, come osserva Maria Luisa Berneri, «non cercavano di presentare un piano prefabbricato, bensì idee audaci ed eterodosse, […] esigevano che ogni uomo fosse ‘unico’ e non uno tra i tanti», proponevano «un ideale di vita senza farne un piano – cioè una macchina morta applicata alla materia vivente»32.

Tutt’altra cosa rispetto al piano utopistico-autoritario è la progettualità intesa come creatività e sperimentalità individuale e collettiva; una progettualità che si sviluppa insieme alla lotta sociale, con il movimento rivoluzionario, in un’interazione continua tra teoria e pratica, tra scienza ed etica. Infatti, precisa Malatesta: «L’essenziale non è il trionfo dei nostri piani, dei nostri progetti, delle nostre utopie, le quali del resto hanno bisogno di essere confermate dall’esperienza e possono con la pratica esigere delle modifiche». È qui ancora più chiaro che si rifiuta – coerentemente – la rigidità dogmatica dei modelli, non la loro esistenza e la loro utilità. Lo stesso Malatesta diede forma abbastanza esplicita in L’anarchia33 a un suo modello di società libertaria e prima di lui il Kropotkin de La conquista del pane34 e dopo di lui il Besnard de Il mondo nuovo35.

Essi, e tanti altri anarchici, noti e ignoti, hanno dato il loro contributo non solo a distruggere le basi del sistema di dominazione e di sfruttamento ma anche a gettare le basi di una società senza potere, delineando alcuni dei mille volti dell’utopia anarchica, a volte per iscritto più spesso con i loro comportamenti, le loro scelte, la loro vita…

Essi, gli anarchici, hanno tenuto viva con le parole e con l’esempio – nella quotidianità e nelle lotte, nell’entusiasmo dei periodi rivoluzionari o nella stanchezza del riflusso, nelle fabbriche di Barcellona e nei gulag staliniani, con cento contraddizioni ma con un’indistruttibile coerenza di fondo – l’immagine di una possibile/impossibile comunità di uomini liberi ed eguali. Possibile perché è tutta dentro la «natura» umana, impossibile perché tutta fuori dalla cultura dominante. Possibile perché l’uomo può pensarsi e volersi libero tra liberi, impossibile se il servo continua a pensarsi servo o a sognarsi padrone.

Essi hanno dato contenuti di maggiore concretezza e consapevolezza a un’immagine che, come sogno o come progetto, latente per lo più e a tratti emergente, attraversa tutta la storia del dominio, nelle rivolte individuali e collettive. Essi – e quei movimenti sociali che in varia misura, sia spontaneamente sia per loro influenza, hanno cercato di realizzare quella stessa immagine libertaria ed egualitaria – hanno dimostrato che l’utopia anarchica, lungi dal generare «sovversivi immaginari», produce e nutre un immaginario sovversivo.

Note al capitolo

1. Lewis Mumford, Storia dell’utopia, Calderini, Bologna, 1969, p. 206.

2. David Riesman citato in Henrik F. Infield, Dalla utopia alle riforme, Comunità, Milano, 1956, p. 18.

3. Herbert Marcuse, La fine dell’utopia, Laterza, Bari, 1968, p. 10.

4. Citato in Bernardo Cattarinussi, Utopia e società, Angeli, Milano, 1976, p. 38.

5. «Caleidoscopio», a. xiv, n. 23, marzo 1978, p. 2.

6. Mannheim, op. cit., p. 216.

7. Ashley Montagu (a cura di), Learning Non-Aggression, Oxford University Press, Oxford, 1981 [trad. it.: Il buon selvaggio, elèuthera, Milano, 1987].

8. Clastres, op. cit.

9. «Il Nuer è il prodotto di un’educazione dura ed egualitaria […]; nessuno riconosce un superiore sopra di sé […]. Nella loro società non ci sono né padroni né servi, ma solo eguali […]. Nei rapporti vicendevoli il solo sospetto di ricevere un ordine è causa di irritazione, e chi lo riceve non lo compie, oppure lo fa in maniera casuale e dilatoria più insultante di un rifiuto […]. Nelle relazioni quotidiane […] mostra rispetto per gli anziani […] purché non interferiscano nella sua indipendenza, ma non si sottometterà mai ad alcuna autorità che contrasti con i suoi interessi, né si considera obbligato a obbedire a chicchessia»; Edward E. Evans-Pritchard, I Nuer, un’anarchia ordinata, Angeli, Milano, 1975, p. 244.

10. Dahrendorf, Uscire dall’utopia, cit., p. 3.

11. Mannheim, op. cit., p. 261.

12. Murray Bookchin, Utopianism and Futurism, in Toward an Ecological Society, Black Rose Books, Montreal, 1980 [trad. it.: Utopismo e futurismo, «Volontà», n. 3, 1981].

13. Francesco Alberoni, Una società senza futuro, «Corriere della Sera», 22 dicembre 1980.

14. Alberto Cavallari, La real-utopia, «Corriere della Sera», 18 marzo 1981.

15. René Dumont, L’Utopie ou la mort, Seuil, Paris, 1973, p. 15.

16. Mannheim, op. cit., p. 215.

17. Gustav Landauer, La rivoluzione, Carucci, Assisi, 1970, pp. 25-29.

18. Mannheim, op. cit., p. 211.

19. Ignazio Silone, L’avventura di un povero cristiano, Mondadori, Milano, 1978, p. 34.

20. Carmela Metelli di Lallo, Scienza e utopia per l’educazione di domani, «Formazione e lavoro», n. 39, settembre-ottobre, 1969, p. 10.

21. George Kateb citato in Massimo Baldini (a cura di), Il pensiero utopico, Città Nuova, Roma, 1974, p. 80.

22. Martin Buber, Sentieri in utopia, Comunità, Milano, 1967.

23. Sulle comunità americane si veda Ronald Creagh, Laboratoires de l’utopie, Payot, Paris, 1983 [trad. it.: Laboratori d’utopia, elèuthera, Milano, 1987]; sulle collettività spagnole si vedano José Peirats, La cnt nella rivoluzione spagnola, vol. ii, pp. 7-120, Antistato, Milano, 1977, e Carlos Semprun Maura, Rivoluzione e controrivoluzione in Catalogna, Antistato, Milano, 1976, pp. 93-169 [elèuthera, Milano, 1996].

24. In un altro scritto (Potere, autorità, dominio…, cit.) mi sono più estesamente occupato di «potere» e «autorità», dandone una definizione differente e più articolata (e, a mio avviso, più utile e convincente), in correlazione con due altri termini («dominio» e «influenza», appartenenti alla medesima «nebulosa» sociologica) e anche con una diversa concezione della «libertà». Ritengo tuttavia che la differenziazione terminologica e concettuale qui utilizzata resti in questo contesto abbastanza funzionale al fine che si proponeva: delineare sinteticamente la specificità dell’anarchismo.

25. Gli anarchici hanno ben presente il pericolo che l’autorità collettiva si trasformi in quella «tirannia della società» di cui parla Stuart Mill, cioè la «tendenza a imporre con mezzi diversi dalle pene legali le proprie idee come regole di comportamento a coloro che sono di diversa opinione, a turbare ed eventualmente impedire lo sviluppo e la formazione di qualsiasi individualità che non si armonizzi con i propri modi e a costringere tutti i caratteri a conformarsi secondo il modello del proprio stesso carattere»; John Stuart Mill, op. cit., p. 27.

26. Roberto Guiducci, La società impazzita, Rizzoli, Milano, 1980.

27. Bertolo, La gramigna sovversiva, cit.

28. Mannheim, op. cit., p. 278.

29. Dahrendorf, Uscire dall’utopia, cit., p. 426.

30. Guiducci, La società impazzita, cit., p. 29.

31. Michail Bakunin, Stato e anarchia, Feltrinelli, Milano, 1968, p. 311.

32. Maria Luisa Berneri, Viaggio attraverso Utopia, Archivio Famiglia Berneri, Pistoia, 1981, p. 27. Si tratta di un’eccellente rassegna di utopie, acutamente commentate in chiave libertaria.

33. Errico Malatesta, L’anarchia, La Fiaccola, Ragusa, 1973.

34. Pëtr Kropotkin, La conquista del pane, Anarchismo, Catania, 1978. Dello stesso autore si veda anche Campi, fabbriche, officine, Antistato, Milano, 1975 [elèuthera, Milano, 2015], almeno altrettanto utopistico-propositivo quanto scientifico-descrittivo.

35. Pierre Besnard, Il mondo nuovo, Anarchismo, Catania, 1977.

Fonte: L’immaginario sovversivo, ovvero l’utopia anarchica, in Eduardo Colombo (a cura di), L’immaginario capovolto, elèuthera, Milano, 1987.

Parte seconda

L’orgoglio di cui parlo, l’orgoglio che ci serve in tutto il processo di transizione dal vecchio al nuovo, non è presunzione, non è arroganza, al contrario rende possibile l’umiltà intellettuale necessaria a essere continuamente aperti al dubbio, al dialogo, alla verifica, alla curiosità per tutto ciò che è dentro e fuori di noi.

Perché quell’umiltà può permettersela, contrariamente alle apparenze, solo chi ha la certezza della propria identità.

Chi non l’ha, oscilla fra due poli, quello

della chiusura dogmatica, della corazza

difensiva contro l’altro, e quello

della zelighiana mimesi con l’altro.

A.B.

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